lunedì 5 maggio 2014

Amos Oz, "Una storia di amore e di tenebra" ed. 2002

                                                       Voci da mondi diversi. Medio Oriente
 il libro ritrovato


Amos Oz, “Una storia di amore e di tenebra”
Ed. Feltrinelli, trad. Elena Loewenthal, pagg.627, Euro 19,00


Arriva un momento nella vita di ognuno in cui ci si rende conto, quasi all’improvviso, che siamo noi “i vecchi”, i depositari delle storie della famiglia, di tutti coloro che hanno contribuito a fare di noi quello che siamo, e che è ora di raccontarle, perché diventino il patrimonio di qualcun altro, mantenendo in vita chi non c’è più. “Ogni storia è un’autobiografia, nessuna è una confessione”, dice Amos Oz all’inizio del romanzo “Una storia di amore e di tenebra”, uscito per Feltrinelli in prima traduzione mondiale. Perché anche i suoi precedenti romanzi, dal più recente “Lo stesso mare” a “Il mio Michael”, contenevano elementi autobiografici, ma “Una storia di amore e di tenebra” vuole proprio essere la storia di 120 anni di vita della sua famiglia, dei due genitori e dei quattro nonni: una storia lunga da raccontare, una lunga via da seguire, da Vilna in Lituania e da Odessa in Russia, fino ad Israele, in cui il nonno paterno era arrivato nel 1933 e la mamma di Amos nel 1934.
Vilnius. la sinagoga
Tutti in fuga dall’antisemitismo, immigrati in una terra sognata, ricordata ogni anno augurandosi “l’anno prossimo a Gerusalemme”, e poi incapaci di dimenticare i luoghi in cui erano cresciuti, come il nonno Alexander che continuava a scrivere poesie in russo, anche se diceva “ non c’è più la Russia. E’ morta, adesso c’è Stalin, c’è Berija, un’immensa prigione”. La prima parte del libro, quella che rievoca un passato più lontano, è come sfumata, come se ci fosse una voce fuori campo che narra, come se fossero storie ripetute tante volte nei circoli familiari, con qualche variante che non ci si ricorda più chi l’abbia apportata. A volte è la sorella minore della mamma dello scrittore che prende la parola, e i suoi ricordi si mescolano a riflessioni sulla sorte delle donne, la cui vita forse non è cambiata per nulla tranne che in apparenza, e forse si riferisce anche a Fania, che era arrivata in Israele dopo aver studiato a Praga, e chissà che cosa sperava di trovare e che cosa invece aveva trovato. E’ quasi a metà libro che Amos Oz riesce a dire, “aveva 39 anni quando morì. Io dodici anni e mezzo”. Perché è questo il ricordo indimenticabile, e tutti quelli del tempo che precede sembrano convergere in questo momento, come se potessero spiegarlo. Da questo punto, fino alla fine del romanzo, Amos Oz continua a ricostruire la sua infanzia di figlio unico, il bambino un po’ saccente e precoce che aveva imparato a leggere da solo, per ritornare sempre al ricordo di quegli anni in cui la mamma aveva iniziato ad avere fortissimi mal di testa e a passare le notti seduta su una sedia. Sembra che quell’immagine sia scomparsa, la vita va avanti, nasce lo stato di Israele ed è subito guerra, lo scrittore va a lavorare in un kibbutz, cambia nome e, così facendo, è come se uccidesse suo padre e uccidesse Gerusalemme.
E poi la mente ritorna lì, a quella volta che la mamma stava meglio, al suo sorriso che non era un sorriso, il senso di colpa del bambino: se fosse stato più buono, se non avesse fatto rumore, se…Il tempo si sposta ancora, nel kibbutz Amos Oz si innamora e sposa una ragazza piena di gioia di vivere, adesso è padre a sua volta, ma nell’ultima pagina scrive ancora, “se fossi stato laggiù”, e “laggiù” è la casa della zia dove la mamma aveva voluto dormire per sempre. Bellissimo romanzo d’amore, per la madre, e della tenebra spessa come un muro che ci separa da chi amiamo.

la recensione è stata pubblicata sulla rivista Stilos





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