domenica 30 maggio 2021

Simona Lo Iacono, “La tigre di Noto” ed. 2021

                                                                     Casa Nostra. Qui Italia

          biografia romanzata


Simona Lo Iacono, “La tigre di Noto”

Ed. Neri Pozza, pagg. 170, Euro 17,00

  Quante grandi donne di cui non ci è giunta notizia, è la prima riflessione che facciamo, leggendo “La tigre di Noto” di Simona Lo Iacono. Quante grandi donne rimaste nell’ombra degli uomini, dopo aver lottato contro difficoltà di gran lunga maggiori delle loro per arrivare alle conquiste che si proponevano di fare.

     Dopo aver ridato vita a Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel romanzo “L’albatro”, è Anna Maria Ciccone che rivive nelle pagine di Simona Lo Iacono. Chi era costei?

      Nata a Noto nel 1891 e morta, sempre a Noto, nel 1965, Anna Maria Ciccone aveva una predisposizione speciale per la matematica, da sempre considerata materia ostica per le donne. E infatti, in un’epoca in cui il numero delle donne che si iscrivevano all’università era esiguo, Anna Maria fu l’unica a frequentare la facoltà di matematica della Sapienza a Roma, per poi spostarsi a Pisa dove conseguì la laurea nel 1919. Nel 1924 si laureò anche in Fisica e le sue ricerche seguenti saranno tutte nell’ambito di questa materia. Da Pisa a Darmstadt, in Germania, dove collaborò con Gerhard Herzberg negli approfondimenti sulla spettroscopia. Dal 1939 sarà titolare della cattedra di spettroscopia presso l’Università di Pisa, fino al suo pensionamento.


    Questa la sua carriera a grandi linee, quella che spiega l’eccezionalità di Anna Maria Ciccone. Il romanzo di Simona Lo Iacono, però, aggiunge altro, come è giusto che sia, avvalendosi della straordinaria capacità dello scrittore di immedesimarsi, di immaginare sentimenti e pensieri, di creare per noi un personaggio vero e palpitante.

    I capitoli iniziano spesso con un’occhiata a delle fotografie del passato- l’infanzia di Anna Maria, una bambina non bella, con una madre che non le dimostrava l’affetto che avrebbe poi riversato invece sul figlio maschio, il fratellino dalla salute delicata che sarebbe morto presto, la gioia della scuola. Sono fotografie dalla tinta sbiadita, proprio come lo sono i ricordi. E poi l’allontanarsi da casa e il suo fiorire, in intelligenza se non in bellezza, la solitudine, gli alloggi economici, gli studi, la diffidenza dei colleghi uomini, i primi riconoscimenti più che meritati, l’invito per Darmstadt.


     In Germania c’è una svolta nella vita di Anna Maria. Sono gli anni che vedono l’ascesa al potere di Hitler, gli inizi delle leggi razziali. E Anna Maria si rivela non solo come una intelligenza d’eccezione, ma anche una donna con una retta coscienza politica, pronta a fiutare l’aria, ad aiutare Herzberg, fino alla sua fuga da una Germania sempre più antisemita. Gerhard Herzberg, in esilio volontario in Canada, avrebbe vinto il premio Nobel per la Fisica nel 1971- aveva nutrito qualcosa di più del rispetto per lui, Anna Maria? Forse un sogno impossibile? Niente ce lo rivela, possiamo solo immaginarlo.

    Al ritorno in Italia, nel pieno della guerra, con Pisa sotto le bombe degli Alleati e sottoposta alle razzie dei tedeschi in ritirata nel 1944, “la tigre di Noto” (come venne poi soprannominata) difese l’istituto di Fisica e tutto quello che vi era contenuto- strumenti e libri antichi- dagli ufficiali nazisti che avevano l’ordine di requisire tutto e trasportare quei beni in Germania. La reazione di Anna Maria che, parlando in un tedesco perfetto, aveva ingiunto agli ospiti indesiderati di fermarsi o di ucciderla, aveva preso di sorpresa i tedeschi facendoli desistere. Era una tigre che sfoderava le unghie.

   C’è poi ancora un umanissimo e tenero dettaglio che la scrittrice aggiunge alla vita ‘immaginata’ di questa donna solitaria e che la rende più cara e vicina a noi. Perché non regalarle, anche se solo come una possibilità, una felicità tutta femminile, quasi a completare la figura della tigre che difende i suoi tigrotti?

     Una riscoperta narrata con stile scorrevole  ed estremamente piacevole.

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giovedì 27 maggio 2021

Ulla Lenze, “Le tre vite di Josef Klein” ed. 2021

                         Voci da mondi diversi. Area germanica

 seconda guerra mondiale

   spy-story

Ulla Lenze, “Le tre vite di Josef Klein”

Ed. Marsilio, trad. Fabio Cremonesi, pagg. 274, Euro 17,00

 

    Josef. Joe. José. Tre nomi, tre identità, tre paesi per lo stesso uomo, originario di Neuss in Germania. Era Josef per la Germania da cui era andato via per fuggire dalla miseria che era seguita alla prima guerra mondiale, Joe in America, dove aveva preso la cittadinanza, José in Costa Rica dove era approdato, seguendo la via dei topi dopo la seconda guerra mondiale, lui che peraltro non era affatto nazista (o, almeno, diceva di non esserlo). Di cognome fa Klein, ‘piccolo’ in tedesco. Ed è un uomo ‘piccolo’ che resta coinvolto, suo malgrado e senza sapersi sottrarre, in qualcosa più grande di lui.

    Anche i tempi della narrazione sono tre- il 1939 e il 1940 a New York, il 1949 di ritorno a Neuss, il 1953 e il 1955 in Costa Rica.

Neuss

    Non era stato facile, per Josef, ambientarsi alla vita in America. I tedeschi non erano ben visti, il suo forte accento rivelava subito la sua provenienza, nella terra dalle mille possibilità non era così scontato trovare un lavoro. Lo aveva poi trovato in una piccola tipografia che stampava volantini di qualunque indirizzo politico o religioso. A Josef non interessava, voleva tenersi alla larga da possibili coinvolgimenti. Aveva una passione: la radio. Girava una manopola e poteva sintonizzarsi con tutto il mondo- una magia. Sarà la radio a regalargli la felicità dell’amore e a causare anche la sua rovina. L’amore è Lauren, una ragazza non bella ma vivace e ambiziosa, vorrebbe diventare giornalista. La rovina sono i filonazisti americani.

    I tedeschi che ha incontrato, apertamente simpatizzanti del Führer, approfittano della sua abilità come radioamatore per intrappolarlo. Joe diffida di loro e li trova antipatici, che cosa nascondono dietro quelle cifre che inviano nell’etere, dicendo che sono questioni commerciali? È come se Joe sapesse ma non volesse sapere, finché sarà Lauren ad incoraggiarlo, ad andare a fare denuncia all’FBI. Questo piccolo uomo si trova schiacciato fra due colossi, non c’è modo di sfuggire né all’uno né all’altro.

Ellis Island, fino al 1954 'alloggio-prigione' per gli immigrati

   Quando ritorna in Germania, dopo aver scontato anni di prigione ad Ellis Island, non ha un soldo- chi mai torna dall’America senza essere diventato ricco?- e deve chiedere ospitalità al fratello. Si apre un nuovo capitolo della sua vita. Joe che è tornato ad essere Josef, è ancora una volta guardato con sospetto: che razza di tedesco è se non ha preso parte alla guerra? Intorno a lui distruzione e macerie. E sempre aleggia su di lui la minaccia di essere ripescato ed obbligato a fare ancora quello che non vuole fare- si parla di rovesciare il governo di Adenauer.

     La sua terza vita, infine, quando riesce ad arrivare a Buenos Aires, senza però liberarsi delle vecchie conoscenze che, più che mai, tramano di far resuscitare il Reich con l’appoggio di Peròn.

Costa Rica

    All’inizio del libro, ad introdurre la vicenda di Josef Klein, Ulla Lenze precisa che questo è un romanzo ed è quindi frutto di invenzione, anche se è basato sulla storia del suo prozio Josef Klein, fratello di suo nonno, quel Carl che, nel libro, spadroneggia su moglie e figli. E l’interesse che suscita in noi il romanzo nasce dal fatto che questa sia la ‘piccola’ storia di un uomo qualunque, un uomo che non ha cultura- ha letto e riletto solo il libro di Thoreau, “Walden”,- e che  annaspa per distinguere il bene dal male, quello che è giusto e quello che non lo è, quello che è vero e quello che è falso.

     E tuttavia ci resta il dubbio che il piccolo Josef non sia proprio la vittima che la scrittrice ci presenta- alla fin fine gli aveva fatto comodo, per la sua ultima fuga, ricorrere a quelli che diceva considerare suoi nemici.

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martedì 25 maggio 2021

Aki Shimazaki, “Hōzuki” ed. 2021

                                   Voci da mondi diversi. Giappone


Aki Shimazaki, “Hōzuki”

Ed. Feltrinelli, trad. Cinzia Poli, pagg. 140, Euro 12,00

 

    Un altro ‘fiore’ che non è propriamente tale, nel titolo del secondo libro della pentalogia di Aki Shimazaki. “Hōzuki”, l’alchecengi che si presenta con i suoi piccoli frutti arancioni racchiusi in una sorta di foglia- sembra una lampada. E la metafora dell’alchecengi come luce- ma non solo con questo significato- percorre tutto questo romanzo brevissimo, più un secondo capitolo di un intero libro che non un romanzo a sé.

     La protagonista e voce narrante è Mitsuko, la donna che aveva il nome d’arte del fiore spinoso del cardo quando lavorava come entraineuse nel romanzo precedente della serie. La ritroviamo che ha realizzato il sogno di aprire una libreria specializzata in volumi d’arte e di filosofia, anche se, per mancanza di un guadagno adeguato, ha mantenuto l’occupazione di un tempo una sera alla settimana. In quella occasione dice di doversi assentare per motivi di lavoro e ritorna sempre con un carico di nuovi libri: suo figlio non la vede mai pettinata e truccata per i suoi clienti.


      Suo figlio Taro: era una presenza-assenza in “Azami”. Ci eravamo perfino chiesti se esistesse davvero, se le scarpette da bambino nell’ingresso appartenessero davvero a qualcuno, finché non avevamo saputo che era sordomuto. In “Hōzuki” Taro ha una parte importante, ha una sua personalità, e il suo legame con Mitsuki è al centro di tutta la narrazione. Taro fa amicizia con la bambina di una donna che è venuta nella libreria Kitō in cerca di libri di filosofia per il marito, un diplomatico. Sospettiamo subito che questo sia in realtà un pretesto, perché è chiaro che la donna vorrebbe diventare amica di Mitsuki, che fa di tutto perché la sua bambina, Hanako, giochi insieme a Taro.

   Due donne, due bambini con nomi dal bel significato: Taro vuol dire ‘primo figlio maschio’ e Hanako, ‘bambina dei fiori’. “I vostri nomi insieme sono belli come due gemelli”, dice la mamma a Taro che parla con la lingua dei segni. Ed entrambe le donne hanno un segreto che scopriremo a poco a poco, tra tentativi di prendere le distanze da parte di Mitsuko e quelli opposti, di avvicinarsi, dell’altra donna, mentre i due bambini hanno una singolare affinità tra di loro.

Kodomo no Hi- la festa dei bambini

   È il tema della maternità che Aki Shimazaki affronta in “Hōzuki”, e lo fa da diverse angolazioni- rifiuto della maternità (sono solo gli esseri umani che possono scegliere di abortire, aveva osservato dolente l’uomo che Mitsuko ricorda come il suo grande amore), la paura per una maternità fuori del matrimonio, la maternità come scelta, la completa dedizione anche per un figlio acquisito, il forte legame di sangue che niente riesce ad attutire.

Lo affronta in una maniera delicata e quasi poetica, con un intrigante e costante riferimento al diverso significato che le parole giapponesi possono avere secondo gli ideogrammi che vengono usati. Così Kitō, il nome della libreria, può voler dire ‘preghiera’ ma anche hōzuki, e l’hōzuki era il fiore che le prostitute usavano per procurarsi l’aborto…e altri rimandi ancora- affascinante, a significare la molteplicità di significato di qualunque comportamento o di qualunque persona, così come la ricchezza espressiva del piccolo Taro, per quanto muto, indica che non c’è un solo modo di esprimere la propria interiorità.

     Un breve romanzo tra realismo e poesia, attendiamo il prossimo, “Suisen”, il narciso.




 

domenica 23 maggio 2021

Iris Wolff, “La sfocatura del mondo” ed. 2021

                                        Voci da mondi diversi. Europa dell'Est

Iris Wolff, “La sfocatura del mondo”

Ed. Rizzoli, trad. Pugliano e Tortelli, pagg. 240, Euro 18,00

 

   Il luogo: il Banato. Regione nel cuore dell’Europa, angolo settentrionale della Romania confinante con Ungheria, Serbia, ex-Jugoslavia. Per breve tempo fu indipendente, la capitale storica è Timişoara, oggi in Romania. Per la sua peculiare posizione geografica i suoi abitanti sono di molte etnie e di molte lingue.

   Il tempo: oltre la metà del ‘900 anche se, per molti versi, le scene sembrano essere ambientate due secoli prima.

   I personaggi: quattro generazioni di una famiglia, sette persone contornate da altri personaggi minori.

    La prospettiva e anche la visuale: immaginate di guardare in un caleidoscopio dove vedete qualcosa, fate girare il cilindro, le tessere si spostano e si ricompongono in un’altra scena che ha qualcosa della precedente, ma è diversa. E così via. Il tutto sempre un poco sfocato, il tutto che pare durare un attimo.

   Una supplica all’inizio del libro, “Lasciami il bambino”. È la muta preghiera di una donna che sta andando, in slitta e sotto la neve, in ospedale: teme di perdere il bambino che aspetta. E dire che il medico, più tardi, la minaccia severamente pensando che si sia procurata quell’aborto che lei, invece, vuole evitare. L’aborto è proibito in Romania. Tre mesi dopo nascerà Samuel, il protagonista del romanzo.


     Samuel sarà messo a fuoco più avanti nel libro, un bambino che impara tardi a parlare, che vive in un mondo suo, incoraggiato dalla mamma, Florentine, che è la prima ad apparire sulla scena, insieme al marito, pastore evangelico che ha scelto la religione perché non era abbastanza bravo da fare il calciatore (e gli pare impossibile che a suo figlio il calcio non interessi affatto). Florentine e Hannes hanno spesso ospiti (uno di questi riapparirà ad anni di distanza, per una di quelle coincidenze incredibili della vita), il che è motivo di sospetto, perché- di che cosa parlano?

    E la politica irrompe brutalmente nel romanzo che pareva idilliaco. Avevamo avuto sentore del pericolo con il vicino di casa Konstanty, con l’accenno che dapprima pochi e poi tanti argomenti dovevano essere evitati quando lui veniva a casa di Florentine e Hannes con la moglie e la figlia. E comunque le pagine in cui Hannes viene interrogato dalla Securitate, così come quelle in cui Konstanty dichiara che “Il partito non commette errori” e rivela che “confessano tutti. Ognuno ha qualcosa da confessare. Tutti vogliono essere colpevoli”, segnano un ‘prima’ e un ‘dopo’ nel romanzo.

   Il ‘dopo’ seguirà l’avventuroso viaggio con aereo ad elica di Samuel che aiuta un amico a fuggire dal drago, dal ‘Genio dei Carpazi’, dal Conducător che sostiene di avere un tenore di vita modesto, di essere sensibile, garbato, tollerante, interessato all’arte. La descrizione della situazione che Samuel e l’amico si lasciano alle spalle tocca punte di alta ironia: questo è un paese perfetto in cui c’è chi ti aiuta ad evitare i peccati. Avarizia e tirchieria, ad esempio, sono impraticabili per la penuria di merci. L’invidia e la gelosia sono escluse perché niente appartiene a nessuno. Restano purtroppo l’accidia, la viltà e l’ignoranza.

    Troncati i legami con la Romania (Samuel non riceverà mai risposta alle lettere che manda alla ragazza che ama, figlia di Konstanty), la vita in Germania riserba un dramma e poi…crollò il muro. Chissà fino a quando le parole ‘crollò il muro’ faranno apparire in un caleidoscopio un’immagine ben precisa, fino a quando non ci sarà qualcuno che chiederà, “il muro? Di che muro stiamo parlando?”. 9 novembre 1989: fine di un’epoca, fine di un mondo, si aprono i confini, si può tornare nei luoghi dove è rimasto il cuore. E Samuel non sa ancora quanto letteralmente il suo cuore sia rimasto là, nel Banato, dove adesso finalmente può tornare.


    “La sfocatura del mondo” è un romanzo poetico, che ci può sconcertare con la sua narrativa un poco sognante, come il personaggio di Florentine. Abbiamo imparato che la metafora è la sottile maniera della letteratura dei paesi dell’Europa dell’Est per evadere le strettoie della censura. Qui troviamo qualcosa di diverso, una ‘sfocatura’, una nebbia leggera e ingannatrice. E forse è questa la vera realtà, un niente di definito, un qualcosa che può cambiare secondo come si gira il cilindro del caleidoscopio.



   

 

venerdì 21 maggio 2021

Gong Ji-Young, “Our happy time”

                                                               Voci da mondi diversi. Corea

         love story

Gong Ji-Young, “Our happy time” (fuori stampa nell’edizione italiana)

Ed. Short Books, pagg. 273, Euro 3,99 (ed. kindle)

 

      Un titolo insolito per un libro in cui uno dei due protagonisti è rinchiuso in una cella nel braccio della morte, in attesa dell’esecuzione. Il significato di quella ‘felicità’ si chiarirà a poco a poco, per quanto incredibile e difficile da accettare per chi legge.

    Yujeong, sulla trentina, appartiene ad una famiglia ricca di Seoul, ha tre fratelli più grandi, una madre che non desiderava un quarto figlio e con cui lei è in perenne conflitto. In passato Yujeong ha avuto una breve fama come cantante, ha studiato in Francia dove ha preso una laurea ‘facile’, di quelle che i soldi possono comprare. Di notte passa da un bar all’altro. Ha cercato di suicidarsi tre volte. Forse non voleva veramente morire, visto che non ci è mai riuscita?

     Yunsu è un criminale, ha stuprato una ragazzina e ha ucciso una donna per derubarla. Aveva dei precedenti penali prima di finire nel braccio della morte. Nessuno può salvarlo di certo dalla morte.

    La ragazza dissoluta che cerca la morte e il giovane condannato a morte si incontrano tramite una suora, zia di Yujeong, il terzo personaggio importante del romanzo. Suor Monica è una donna generosa dalla religiosità né di facciata né convenzionale, anche se a tratti ci sembra stucchevole. È lei che propone a Yujeong, se proprio non vuole andare in terapia, di accompagnarla nella sua visita settimanale in carcere. E Yujeong, dapprima riottosa, acconsente.


     La narrativa è duplice e affidata a due voci- molto più lunga e dettagliata quella di Yujeong, più breve quella delle pagine del taccuino di Yunsu. La vita della tipica ragazza viziata e piena di soldi, con qualcuno sempre pronto a tirarla fuori dai guai e ad offrirle soluzioni alternative e quella di un ragazzo cresciuto in miseria estrema con un padre ubriacone e violento, una madre che se ne era andata di casa, un fratellino diventato cieco a causa di un pesticida che il padre sciagurato gli aveva fatto bere. Casa di lusso e viaggi all’estero per Yujeong, orfanotrofi e la strada per Yunsu e il fratello. Yujeong ha cercato ripetutamente di suicidarsi perché non ha mai superato il trauma di qualcosa che le è successo quando aveva quindici anni- l’omertà famigliare era quella che lei non riusciva a perdonare. Yunsu attende di morire, senza sapere quando, perché i crimini peggiori sono venuti dopo una serie di furti e violenze- quali altre possibilità avrebbe avuto in una società indifferente? Il fratello psichiatra di Yujeong spiega, in maniera alquanto didattica, come a violenza risponda violenza, come da un ambiente degradato non possa venire fuori altro che un criminale. Come si spiega, però, la violenza, occultata, taciuta per connivenza e per comodo, che si esercita in altre sfere? È l’ipocrisia il peggior peccato?


    L’andamento della trama è prevedibile. Giovedì dopo giovedì, i due protagonisti cambiano nel loro atteggiamento. L’una si abbassa, per così dire. L’altro si innalza. Si amplia il loro campo di comprensione. Cadono i pregiudizi dell’uno e dell’altra. Nasce un sentimento- di amore?- facilmente comprensibile. Si apre per ognuno di loro la nuova dimensione del perdono. E intanto entrambe le verità delle loro vite vengono svelate.

     Il significato del romanzo è chiaro, perfin troppo chiaro. Gli esseri umani non sono o bianchi o neri. Non esiste persona interamente buona o interamente cattiva. Perfino la colpa può non essere assoluta, così come il vero e il falso sono elusivi, separati da un esile tratto di confine. Per questo il messaggio contro la pena di morte è fortissimo e il libro ha ricevuto un premio speciale da Amnesty International.


    “Our happy time” non è un romanzo del tutto convincente, a volte ci irrita il tono quasi misticheggiante e la melodrammaticità della situazione. La lettura è però scorrevole, con il personaggio maschile più attraente di quello femminile- fino alla fine preghiamo anche noi, con Yujeong, che qualcosa cambi, che l’esecuzione venga sospesa. 




   

 

mercoledì 19 maggio 2021

Bergsveinn, Birgisson, “La fonte della vita” ed. 2021

                                        Voci da mondi diversi. Islanda

romanzo di formazione
romanzo di viaggio

Bergsveinn, Birgisson, “La fonte della vita”

Ed. Iperborea, trad. Sivia Cosimini, pagg. 317, Euro 18,00

   1783. L’Islanda, ancora colonia della Danimarca, è flagellata da una serie di eventi catastrofici. A ovest del ghiacciaio di Vatnajökull si è spaccata la crosta terrestre e una massa di lava ha investito gli insediamenti circostanti, la terra ha continuato a sputare fuoco e cenere, l’erba ha smesso di crescere, una nube di pomice e cenere ha oscurato il sole. Non solo. Il mare è gelato, non è stato possibile pescare nulla, c’è stato un calo del numero del bestiame e della popolazione, falcidiata anche da malattie. A Copenhagen si era giunti a pensare che non fosse possibile vivere in quella terra. Da qui era nata una proposta- perché non evacuare gli islandesi in Danimarca? Naturalmente gli islandesi abili al lavoro. Dietro a questa idea falsamente umanitaria si nascondevano altri due intenti: procurarsi manodopera a basso costo e risparmiare le ingenti cifre che venivano inutilmente spese per una popolazione senza speranza. Che questo significasse morte certa per tutti quelli che sarebbero stati lasciati sull’isola, non interessava a nessuno.

   E così il giovane Magnús Árelíus, ambizioso, cultore delle scienze, ciecamente fiducioso nei lumi della ragione, riceve l’incarico di recarsi in Islanda per verificare la situazione e mappare il territorio.


    L’inizio del romanzo di Birgsveinn Birgisson è rallentato da questa premessa indispensabile, poi prende il via, con il viaggio di Magnús e, come in tutti i migliori romanzi di formazione, questo viaggio è nello stesso tempo alla scoperta di un paese e alla scoperta di sé. Lo sappiamo bene- non si torna mai uguali da un viaggio: la bellezza e l’importanza del viaggio sono proprio in questo, nel riuscire ad abbandonare idee preconcette, aprirsi alla scoperta del nuovo e lasciarsene invadere, non giudicare secondo il metro del paese e della cultura da cui si proviene, guardare con occhi nuovi o con il terzo occhio della mente.

     I rapporti che Magnús invia al cancelliere sono testimoni di questo cambiamento e, ad un certo punto, cessano del tutto. Quando la narrazione è in prima persona, come nelle lettere, non possiamo mai essere certi che la situazione sia oggettivamente come viene descritta. Perché, dapprincipio, Magnús è scosso da quello che vede- gli abitanti sono ‘un manipolo di malsani e affamati, degni della massima pietas’, abitano in tuguri, hanno i volti tumefatti dallo scorbuto e dalla lebbra, sono per lo più mendicanti cenciosi. Tra di questi Magnús è particolarmente colpito da un uomo che cerca una lima per affilare una sega e da un bambino che supplica per avere una medicina. Procedendo verso Nord, in luoghi sempre meno popolati, la situazione sembra migliorare, la gente pare avere un aspetto più sano. Per la prima volta in Magnús si affaccia l’idea che, è vero che le condizioni di vita non sono da cristiani, ma, se la gente non conosce nient’altro, non può essere ugualmente contenta?


    La felicità narrativa di Birgisson è nel variare registro accompagnando Magnús Árelíus mentre, al contempo, vacilla la sua fede nella scienza e nella ragione. Dalle aride esposizioni a Copenhagen, alle lucide missive al cancelliere, ad una resa di fronte alla ‘magia’ di alcuni fenomeni che vengono descritti con un tocco da vecchie leggende nordiche: da un lago si alzano i pianti dei ‘bambini esposti’ (figli nati fuori dal matrimonio che le madri sono state costrette ad affogare per non essere loro stesse gettate in mare), appaiono fantasmi davanti a cui i cavalli imbizzarriscono, Magnús crederà di vedere l’uomo che voleva la lima e il bambino che chiedeva la medicina, avrà un incidente fronteggiando l’animale che meglio rappresenta il Grande Nord e…incontrerà una donna.


    Il nuovo Magnús, quello che è arrivato a pensare di non avere nessuno strumento per decidere se le condizioni di vita degli islandesi siano buone o cattive, che non vuole proprio che questa gente cambi e diventi come la sua, di gente, che era stato rimbrottato da uno degli assistentes perché aveva usato una donna per suo capriccio, si innamora di una ragazza a cui per castigo è stata mozzata la lingua- quante cose possiamo leggere in questo amore. L’amore che non ha bisogno di parole, l’amore che non si può esprimere con le parole, la donna che non può parlare per sé proprio come la sua Islanda.

    Ed è a questa Islanda che Birgsveinn Birgisson dà voce, in un romanzo che conquista, tra saggio, romanzo di formazione, libro di viaggio, documentazione antropologica e storia d’amore.

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lunedì 17 maggio 2021

Alessandro Barbero, “Alabama” ed. 2021

                                                                     Casa Nostra. Qui Italia

guerra di secessione americana

Alessandro Barbero, “Alabama”

Ed. Sellerio, pagg. 262, Euro 15,00

 

    Nella casa del vecchio ci sono degli almanacchi su uno scaffale. L’ultimo porta la data del 1936. Si parla della guerra nel Pacifico nei giorni in cui la ragazza ascolta il vecchio soldato, uno degli ultimi ancora in vita che abbia preso parte ad una battaglia durante la guerra di secessione su cui lei deve fare una ricerca. Nella lettera di un testimone, datata 1863, questi raccontava di aver visto massacrare dei negri disarmati.

    Siamo in Alabama, uno degli stati del Sud degli Stati Uniti la cui economia si era sempre basata sulle coltivazioni di cotone e sul lavoro dei negri. Possiamo quasi vederlo, il vecchio con il cappello in testa, seduto sulla sedia a dondolo sul portico, con una presa di tabacco in bocca. La ragazza che prende appunti era venuta a sapere che, dei 13 veterani vivi, solo 4 avevano combattuto la battaglia che la interessava. Il vecchio sarebbe stato ancora abbastanza lucido da ricordare? Si sarebbe vergognato?


    Anche la ragazza è del Sud: là, al Nord dove è andata a studiare, le sembrava perfettamente normale sedersi a pranzo accanto ad un negro. Qui, in qualche maniera, è diverso e vedremo un radicato razzismo affiorare nelle sue reazioni, suo malgrado.

   È il vecchio a parlare, per la maggior parte del romanzo. Racconta. I frammenti del passato si mescolano alla rinfusa. Un nome dopo l’altro. Molti soprannomi. Marce sotto il peso degli zaini alleggeriti passo dopo passo di tutto il superfluo. Come i libri della Bibbia. Come le baionette. Il rancio che sarebbe dovuto durare più di un giorno divorato in una volta sola. Scherzi tra commilitoni. Pettegolezzi. Un tal Byrd che era un ‘domatore’ di negri. Lo stesso Byrd che si era comprato una negra che potesse fungere da ‘fattrice’ così lui si era arricchito. Disprezzo per gli yankees. L’uomo di Cincinnati che diceva che al Sud non sapevano neppure che cosa volesse dire lavorare, che per loro l’unico lavoro che un uomo d’onore potesse fare era starsene seduto e dare ordini ai suoi negri. Stonewall Jackson (il generale Thomas Jonathan Jackson  così chiamato per aver resistito all’attacco degli unionisti nella battaglia di Bull Run), nominato spesso come un eroe. Quel Lincoln, invece, era un uomo che non poteva portare che sciagura.


       La ragazza pensa che il vecchio non arriverà mai al ‘dunque’, che non parlerà mai di quei negri a cui avevano sparato in faccia. E anche lei ricorda, mentre lui parla. E ci offre, a gocce nel lungo racconto della guerra, il punto di vista dai suoi giorni ormai lontani da quella guerra ma che non è poi molto diverso da quello diffuso negli stati confederati di allora. Ricorda quanto le ha detto suo padre, che mette in dubbio che la strage dei negri sia veramente accaduta, le parole di un compagno al college che si rivolge a lei con un ‘voialtri del Sud’, dicendo che loro non cambieranno mai e forse non vogliono cambiare- e lei pensa che sì, è vero, a loro piace vivere come dei bianchi. Senza rendersi conto dell’enormità di questo pensiero, come se ‘vivere’ avesse un’accezione diversa secondo il colore della pelle. Pensa alla negra ‘fattrice’ e si chiede che cosa avrebbe fatto lei. Assurdo anche solo pensarlo, perché ‘quelle sono negre, non sono come noi’.

    Quando il vecchio arriva a raccontare quello che interessa alla ragazza, ci dedica poche parole. È ben lontano da provare vergogna. Dopotutto erano dei negri che avevano imbracciato il fucile contro i loro padroni.

    Questa che abbiamo letto è una storia antica, di più di un secolo e mezzo fa. Eppure il suo eco riverbera fino a noi. Quando la ragazza riflette, ‘ammazzare, lo sapevano fare’, ‘il fucile ce lo hanno tutti, lo maneggiano fin da bambini’- noi pensiamo ai continui episodi di uccisioni in America, dove sembra proprio che tutti abbiano un’arma nel cassetto, dove i neri sono ancora diversi dai bianchi.

   La ragazza senza nome è, però, sconvolta da quello che ha ascoltato. Il capitano Pollock, dopo la vicenda dei negri massacrati, si era dato al bere e si era poi ucciso. La ragazza ha visto il cuore di tenebra di cui parla Conrad- ‘quando mi sono affacciata sull’abisso, ho rischiato di precipitare anche io’.

Si è salvata.

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sabato 15 maggio 2021

Adania Shibli, “Un dettaglio minore” Ed. 2021

                                             Voci da mondi diversi. Palestina


Adania Shibli, “Un dettaglio minore”

Ed. La Nave di Teseo, trad. Monica Ruocco, pagg. 144, Euro 17,00

 

   Estate 1949. È passato un anno dalla guerra arabo-israeliana da cui sarebbe nato lo Stato di Israele- guerra di indipendenza per gli israeliani e nakba, catastrofe, per  i 700.000 palestinesi cacciati dalla terra su cui avevano vissuto generazione dopo generazione. Un manipolo di soldati israeliani esplora il deserto del Negev per individuare eventuali accampamenti arabi. Tra le dune sorprendono un gruppetto di beduini con i loro dromedari- tutti vengono uccisi. Una ragazza viene portata via piangente.

    Sono due le narrative in questo smilzo romanzo della scrittrice palestinese Adania Shibli. In due tempi diversi e tuttavia una il prosieguo dell’altra o forse anche lo specchio dell’altra, uno specchio che riflette, in maniera non precisa, leggermente distorta, quello che accade nella prima. La prima narrativa è in terza persona e il protagonista è il comandante dei soldati. L’io narrante della seconda è una giovane donna palestinese che inizia una ricerca su quel lontano episodio, un dettaglio minore della guerra, perché la data in cui la ragazza araba è stata uccisa (e non svelo niente, era chiaro che sarebbe successo) corrisponde al giorno della sua nascita, con uno scarto di venticinque anni.


    L’ambientazione è la stessa. Deserto, dune di sabbia, caldo soffocante. Una personalità ossessiva, quella del comandante, scrupoloso nelle sue abluzioni che vengono descritte ripetitivamente. Anche la giovane palestinese della seconda parte del libro ha le sue ossessioni. Soprattutto è piena di angosce e sopraffatta dalla paura ogni volta che deve affrontare un militare israeliano. In più c’è qualcosa di kafkiano nella burocrazia tra cui deve disbrigarsi per poter passare da una zona all’altra e per noleggiare un’auto. C’è anche un cane in entrambe le narrative. Abbaia di continuo nella prima, sembra quasi voler difendere la ragazza presa prigioniera e, quando sentiamo il latrato di un cane nella seconda, ci sembra quasi che debba essere il fantasma dell’altro, riapparso per ricordare un’ennesima morte che è stata un altro dettaglio minore. Così come, quando la protagonista si ferma per fare benzina, l’odore che punge le sue narici richiama quello, soffocante, che aleggiava intorno alla beduina, dopo che le avevano cosparso la testa di benzina prima di tagliarle i capelli, per eliminare i pidocchi. Era stato tutto un seguito di piccole violenze su di lei, tutti dettagli minori, prima di arrivare alla fine. Spogliata a forza (è vero, puzzava), messa sotto il getto dell’acqua e obbligata a lavarsi davanti a tutti quegli occhi vogliosi, rivestita con dei pantaloncini (lei, che era stata ricoperta interamente dalla tunica che la sottraeva agli sguardi maschili), e poi…


   Dromedari dallo sguardo innocuo, cani aggressivi, insetti- c’è una presenza di animali nel romanzo di Adania Shibli che paiono sottolineare significati o alludere a motivazioni o appesantire l’atmosfera. Nella notte in tenda il comandante israeliano era stato punto da qualcosa, uno scorpione, forse? Una puntura nella coscia a cui lui cerca di non badare, su cui spalma un unguento, che fascia con una garza, che butta fuori pus. È il veleno dello scorpione che gli causa disturbi visivi e malori? Dobbiamo pensare che si alluda ad un altro veleno, quello dell’odio e dell’inimicizia fra i due popoli? Dopo la puntura il comandante perlustra ossessivamente la tenda schiacciando tutti i ragni o gli insetti che vede. E anche nella seconda parte appaiono ragni, anche se meno fastidiosi.

    Nella sua brevità “Un dettaglio minore” ha un impatto forte sul lettore. Forse proprio perché è così scarno, così avaro di sovrabbondanza. Quello che resta- i nomi non dei personaggi ma dei villaggi spazzati via, il paesaggio spoglio, il Muro, i check-point, la violenza che è un dettaglio minore, la paura, la paura, la paura- aumenta la tensione nell’aspettativa di quello che inevitabilmente accadrà. 

Il passato si riflette nel presente.    

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giovedì 13 maggio 2021

Jumoke Verissimo, “Memoria e desiderio” ed. 2021

                                            Voci da mondi diversi. Nigeria


Jumoke Verissimo, “Memoria e desiderio”

Ed. Brioschi, trad. Gioia Guerzoni, pagg. 280, Euro 18,00

 

   Lagos, Nigeria. Al governo si sono succeduti generali che hanno usato la forza e la corruzione per esercitare il potere. Dopo Buhari, Babangida, Abacha, uno peggiore dell’altro, poi Obasanjo che inaugurò nel 1999 la Quarta Repubblica di Nigeria e fu rieletto per un secondo mandato nel 2003. È grazie ad una sua amnistia che Eniolorunda Durotimi Akanni è uscito di prigione.

      Lo chiamano Prof. Era professore universitario. Ha passato dieci anni in carcere. È un uomo distrutto. Alla madre e all’amico che lo attendono fuori dai cancelli chiede solo di essere portato nella casa che era di suo padre. Dopo non vuole più vederli. Si chiude in quella casa che gli ha lasciato in eredità un padre che si è rifiutato di riconoscerlo e ne esce per brevi passeggiate solo alla sera, quando la notte cala su Lagos. Prof vive nel buio in una città che è già buia di per sé, perché, paradossalmente per la capitale di uno stato che ha grossi giacimenti di petrolio, la luce va e viene. Prof non vuole vedere nessuno e non apre la porta a nessuno, nemmeno alla madre che gli lascia da mangiare fuori della porta.


    Finché una sera apre la porta a Desire, studentessa universitaria per cui lui, Prof è un mito. Lei era una bambina quando, durante una manifestazione di protesta nella baraccopoli di Moroko, lui si era commosso davanti a quella bimba, l’aveva presa in braccio, le aveva detto parole che lei non aveva ben afferrato, che era per lei che questa protesta veniva fatta, le aveva regalato un libro. E Desire era diventata una appassionata lettrice, rubando libri per poter leggere, riuscendo infine ad iscriversi all’università, spesata da una donna che le aveva chiesto di aiutare sua figlia a studiare.

    Sera dopo sera Desire va a trovare Prof. Sera dopo sera lui la aspetta, non può più fare a meno della sua compagnia, delle loro parole, dello scambio di confidenze. A mezzanotte, come Cenerentola, Desire se ne va, Lagos è una città pericolosa. All’università, negli incontri di discussione politica, Desire conosce un ragazzo che assomiglia al Prof in maniera impressionante. Lo chiamano ‘Gandhi’.


     Un uomo colto, che ha superato la quarantina. Una ragazza giovane il cui vero nome è Undesired perché il padre voleva un maschio e che invece la madre ha chiamato Desire, Desiderio, per farla sentire amata. Desiderio di che? Di libertà, di giustizia, di amore. L’uomo che era un faro per i nigeriani e che, dopo le torture e il buio della cella, non sopporta più la luce. E questo buio che li avvolge diventa il protagonista del romanzo, diventa una metafora del buio che avvolge la Nigeria, della violenza bruta, della mancanza di speranza, così come lei, Desire, è il desiderio di uscire da questa condizione.

     Non succede niente, nella casa al buio. Quello che succede è fuori, nella luce, nel rumore, nella sporcizia, nella folla colorata per le strade di Lagos, tra gli studenti che si raccolgono intorno a ‘Gandhi’ proprio come un tempo si raccoglievano intorno a Prof, nella stanza in affitto che Desire condivide con l’amica.


    Le storie personali di Prof, di Desire e della sua amica, del giovane che assomiglia a Prof (potrebbe essere suo figlio?) si incrociano e quello che osserviamo è un’assenza generale di padri o, se ci sono, sono padri violenti e ubriaconi e questi sono tutti figli allevati soltanto dalle madri.

C’è poi un altro personaggio su cui non voglio dire molto, un personaggio che è soltanto una voce che parla a Prof, che è la sua consolazione, una voce femminile di qualcuno che lui chiama Desanya…(provate a pronunciarlo, si capirà chi è e a che cosa si ricollega in un destino comune).

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