mercoledì 29 novembre 2017

Michel Bussi, “Mai dimenticare” ed. 2017

                                                  Voci da mondi diversi. Francia
    cento sfumature di giallo
     FRESCO DI LETTURA

Michel Bussi, “Mai dimenticare”
Ed. e/o, trad. A. Bracci Testasecca, pagg. 401, Euro 14,03

   Yport in Normandia. Le falesie bianche a strapiombo sul mare sono uguali a quelle che biancheggiano dall’altro lato della Manica. Jamal Salaoui, magrebino, si sta godendo qualche giorno di vacanza- lavora in un istituto di riabilitazione per ragazzi che hanno subito dei traumi. Quanto a traumi, quelli attraverso cui è passato Jamal, non sono da poco. Nato con un solo polmone, un rene e una gamba, era arrivato a condurre una vita quasi normale grazie alla volontà di ferro di sua madre. Ora, a quasi trent’anni e con una protesi al titanio, Jamal si allena ogni mattina a correre- ha una meta ambiziosa davanti: essere il primo portatore di handicap a partecipare all’Ultra-trail del Monte Bianco. In realtà l’Ultra-trail è una delle cinque punte- le cinque mete di Jamal- di una stella di latta da sceriffo che sua madre gli aveva comprato quando era bambino. Cinque verbi per le cinque aspirazioni: Diventare (il primo atleta disabile a fare la più difficile corsa campestre), Fare (l’amore con una donna più bella di lui), Avere (un figlio), Essere (pianto da una donna dopo che sarà morto), Pagare (il suo debito alla vita prima di morire). Con un così bel personaggio, ci sembra che la sfortuna si accanisca troppo contro di lui, nel nuovo romanzo di Michel Bussi, “Mai dimenticare”.

   La sfortuna, un caso maligno (è veramente un caso?), fa sì che una mattina Jamal, lungo il suo percorso, veda prima una sciarpa rossa impigliata in un cespuglio (non una sciarpa qualunque, è di cashmere, marca Burberry) e subito dopo una ragazza in piedi sull’orlo della scogliera. Bellissima (va da sé), abito strappato, sguardo tragico negli occhi. Vuole suicidarsi? Jamal, nel panico, le parla con voce tranquilla, le lancia un’estremità della sciarpa. La ragazza dà uno strattone brusco e salta nel vuoto. Jamal si precipita sulla riva di spiaggia sotto le rocce. Altri due testimoni sono accanto alla ragazza. Morta. Con la sciarpa rossa attorno al collo. Le indagini riveleranno che è stata violentata e strangolata prima di essere spinta nel vuoto. Naturalmente i sospetti si puntano su Jamal. Le altre due persone sulla spiaggia l’hanno vista precipitare, soltanto lui sostiene che si è buttata giù.
   Le sfortune non vengono mai sole: dieci anni prima altre due ragazze sono state uccise con la stessa modalità. Anche loro sono state ritrovate con una sciarpa rossa al collo. Anche dieci anni fa Jamal si aggirava nella zona? E’ colpevole o innocente, Jamal? E se è innocente, chi lo vuole incastrare? E perché?

   Michel Bussi è un abile manipolatore. Trascinandoci in una trama dal ritmo serratissimo, ci impedisce di soffermarci su dettagli a volte poco verosimili. E’ un susseguirsi di sorprese, una serie di avventure che hanno qualcosa di rocambolesco. Noi lettori, come Jamal (anzi, più di lui), dubitiamo di tutto e di tutti, sospettiamo di tutto e di tutti, tanto più che Michel Bussi semina minuscoli indizi come i sassolini della fiaba di Hansel e Gretel. Jamal non li vede o, se li vede, pensa di essere paranoico o di stare impazzendo. Anche il finale è come un duplice salto mortale, con più di una sorpresa. Perché la fine si ricollega all’inizio, quando viene denunciato il ritrovamento di tre scheletri in una specie di pozzo. Tre scheletri maschili la cui morte, però, non ha avuto luogo negli stessi anni: presumibilmente, due sono stati uccisi prima del terzo, il quale…

    “Mai dimenticare” non è un thriller di ampio respiro- d’altra parte i romanzi di Michel Bussi non lo sono mai. Però è una lettura perfetta per ‘staccare’ da altre letture più impegnative, per un viaggio, per una giornata noiosa di pioggia. Piacevolmente stuzzicante.


Magda Szabò, “Lolò, il Principe delle Fate” ed. 2005

                                           Voci da mondi diversi. Europa dell'Est     
          fiaba
          il libro ritrovato

Magda Szabò, “Lolò, il Principe delle Fate”
Ed. Anfora, trad. Vera Gheno, pagg. 190, Euro 11,00



   Una fiaba è una maniera gentile di parlare della realtà ai bambini; a volte- molto spesso- una fiaba contiene anche gli aspetti negativi, le brutture e le crudeltà della vita perché non c’è modo di nasconderle, ci sono e devono essere affrontate. E tuttavia, aleggia sempre sulla fiaba un’aria di magica poesia che indora la pillola, indugiando sui valori positivi, consegnando ai lettori un messaggio di speranza.
 Come tutte le fiabe migliori, “Lolò, il Principe delle Fate” non è un libro destinato soltanto a piccoli lettori- e non potrebbe essere altrimenti visto che l’autrice è Magda Szabò, la più famosa scrittrice ungherese: c’è una ricchezza di significati nel racconto, una grazia e una poesia nelle parole, una capacità di visione fantastica che lo rendono una lettura deliziosa per chiunque.

     Lolò, il Principe delle Fate, è il protagonista assoluto, ma intorno a lui ruotano e prendono vita la mamma Iris, affascinante eterea Regina, il cattivo mago Aterpater, il capitano Amalfi innamorato devoto di Iris, uno stuolo di altre fate (attenzione, in italiano il termine sembra indicare solo personaggi femminili, non così in questo libro) con diverse peculiarità: c’è chi, con uno speciale paio di occhiali, riesce a leggere i pensieri di chi gli sta di fronte, chi calibra magiche pozioni che rendono invisibili o fanno cambiare aspetto, chi (il piccolo unicorno d’oro) può leggere la verità nello specchio del suo corno. E poi ci sono anche gli umani: uno scrittore che unico, per il suo animo gentile, ha avuto il permesso di vivere nella baia vicino al regno della fate (senza che i buoni e ottusi ciclopi gli facessero tremare la terra sotto per indurlo alla fuga), un pittore con Beata, la nipotina dai capelli rossi, triste perché ha perso i genitori.
   La storia di Lolò, tradotta in termini di vita quotidiana, è quella di un ragazzino ribelle che si allontana da casa in cerca di altre esperienze, causando il dolore della mamma. E la mamma, per proteggere e difendere il figlio, accetta tutto, anche di rinunciare all’uomo che ama, ricattata da un altro uomo che la vuole per sé a tutti i costi promettendo di salvare suo figlio. Ma questa è una fiaba e allora Lolò, che è un fatino anomalo perché ha un cuore umano, desidera diventare un bambino “vero” e poco gli importa se così facendo perderà i privilegi del regno delle fate. Perché questa è la novità della favola di Magda Szabò: il mondo delle fate non è così bello come sembra, è come il Giardino dell’Eden perduto. La condizione umana implica gioia ma anche sofferenza, avere ma anche perdere, lottare per quello che si vuole, accettare la transitorietà della vita. Non c’è niente da scegliere, niente da sperimentare, nel Regno delle Fate, come nel Giardino dell’Eden: tutto si risolverà sempre per il meglio, ogni difficoltà è subito appianata. L’incomprensione materna davanti all’indipendenza dei figli viene portata al paradosso fatato in Iris: perché mai suo figlio Lolò dovrebbe desiderare di esplorare il mondo al di fuori dei loro confini, perché mai dovrebbe accettare anche di “finire” un giorno? Ma l’amore di mamma è più grande di tutto: è pronta a bagnarsi anche lei nel lago che la trasformerà in un essere umano, se questo è il prezzo da pagare per restare vicino a Lolò. Niente paura: le fate conoscono mille incantesimi, soprattutto se c’è anche una fata (di sesso maschile) che ha un cervello umano, e tutto si risolve, con distribuzioni di premi e di castighi. Persino Iris paga per le sue colpe: le leggi sono valide per tutti, anche per le regine. Ottima la traduzione di Vera Gheno, belli e inusuali i disegni di Donatella Espositi.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net


lunedì 27 novembre 2017

Isaac B. Singer, “Keyla la Rossa” ed. 2017

                                                           Diaspora ebraica   
          premio Nobel
          FRESCO DI LETTURA

Isaac B. Singer, “Keyla la Rossa”
Ed. Adelphi, Trad. M. Morpurgo, pagg. 280, Euro 17,00

  La pubblicazione di “Keyla la rossa” di Isaac B. Singer (premio Nobel 1978) da parte della casa editrice Adelphi nell’ottima traduzione di Marina Morpurgo è una bellissima sorpresa, è come aver trovato un tesoro. Il romanzo, pubblicato a puntate in yiddish tra il 1976 e il 1977, ha avuto, finora, soltanto una traduzione in ebraico nel 2011, senza contare quella in inglese fatta dal nipote nel 1978 che era, però, solo una prima stesura, da rivedere e correggere.
    Come ci sembra lontano, oggi, quando ci siamo inoltrati da quasi vent’anni nel secondo millennio, il mondo di Singer, quella yiddishland che la seconda guerra mondiale ha spazzato via! Eppure, per una strana magia, che è poi la bravura di Singer, non facciamo fatica ad immaginarlo, a calarci dentro di esso, ad abitare anche noi in via Krochmalna a Varsavia, la stessa strada in cui aveva abitato lo scrittore prima di emigrare negli Stati uniti negli anni ‘30.
Via Krochmalna non è una strada da ricchi. Ladri, beoni, perdigiorno e prostitute abitano in via Krochmalna. Ebrei osservanti con le peot a lato del viso e palandrane nere, donne che nascondono i capelli con la parrucca e sgualdrine imbellettate e abiti corti. Come Keyla dai riccioli di fuoco, ventinove anni, bellissima, che ha finito per sposare Yarme. Lei una prostituta, lui un avanzo di galera (che però sa leggere). Lei con un passato di innumerevoli uomini, lui che ne è geloso. Si amano, di un amore un po’ tempestoso, ma pur sempre amore. Finché ricompare sulla scena un personaggio mefistofelico che accampa dei diritti non solo sul corpo di Keyla ma anche su quello di Yarme che ha conosciuto in prigione. E vuole convincere entrambi a partire con lui per l’America, o l’Argentina, o chissà, il Brasile. Propone un ménage a tre, intende portare oltremare delle ragazze giovani, Keyla non avrà più bisogno di prostituirsi, lo faranno le altre per lei, lei sarà la madama. Yarme cede alle pressioni di Max, Keyla si ritrae inorridita, cerca aiuto da un rabbino, ne conosce il figlio Bunem. Che cosa può provare il giovanissimo Bunem, ribelle, critico di quella stretta osservanza delle norme religiose, aspirante pittore, davanti ad una donna di fuoco come Keyla?

    Sono gli anni che precedono la rivoluzione del 1917, per sfuggire all’Ochrana (la polizia russa) che ricerca Bunem per la sua amicizia con una giovane anarchica, non c’è altra via che emigrare. Dopo averlo tanto desiderato, corrisponderà il sogno americano a quanto Bunem e Keyla si aspettano?
     “Keyla la rossa” è un libro importante nella carriera narrativa di Singer. Perché è un libro diverso, un libro che si distacca da un mondo e apre lo sguardo su un altro. Non è solo il personaggio di Keyla ad essere affascinante nel modello che propone- sensuale e generosa con il suo corpo, passionale senza restrizioni, consapevole di essere peccatrice e umile proprio per quello e ugualmente in cerca di Dio. Lo è anche Bunem, seppure in modo differente. Bunem è tormentato, forse come lo era Isaac Singer. Stretto fra tradizione e modernità. E’ inconcepibile che proprio lui, figlio di un rabbino, contesti la religione del suo popolo. Bunem si rifiuta di credere in un Dio che esaltano come buono, un Dio che si preoccupa per gli uomini: come è possibile che, allora, questo Dio permetta i pogrom o la miseria e la fame? Per un Isaac Singer che avrebbe vissuto, da lontano, la tragedia dell’Olocausto, la domanda è- come ha potuto Dio permettere le camere a gas e i campi di sterminio?

    Anche la tematica di fondo del romanzo, la grande idea per arricchirsi di Max e Yarme, una tratta di bianche ebree per aprire dei bordelli in un paese dell’America Latina, è ‘rivoluzionaria’, nel senso che capovolge del tutto l’immagine dell’ebreo pio che teme di peccare anche solo guardando una donna.
E’ per questo che il libro, con il suo finale aperto, è molto umano, perché gli ebrei di “Keyla la Rossa” sono come tutti gli uomini, senza alcuna certezza, sono uomini che peccano e si domandano se saranno puniti per quello, amano e si lasciano andare alla passione, si allontanano dalla loro yiddishland per poi rimpiangerla sempre in quell’altro mondo dell’esilio in cui non si riconoscono.



    

sabato 25 novembre 2017

Alessia Gazzola, “Arabesque” ed. 2017

                                                       Casa Nostra. Qui Italia
                                                     cento sfumature di giallo
    FRESCO DI LETTURA

Alessia Gazzola, “Arabesque”
Ed. Longanesi, pagg. 349, Euro 14,96

       Lo ammetto: arriva l’autunno e sento che mi manca qualcosa. Poi vedo un titolo e un nome e mi rendo conto di che cosa fosse a mancarmi: Alice Allevi, la protagonista dei romanzi di Alessia Gazzola, la specializzanda in anatomopatologia indecisa fra due amori, un poco svagata, un poco pasticciona, ma con quella sua volontà di rendere giustizia ai morti frugando nella loro vita e non solo nei loro freddi resti, con un ottimo intuito e tremendamente simpatica.
    E' tornata Alice nel nuovo romanzo di Alessia Gazzola, “Arabesque”- titolo che richiama la musica di Debussy perché la scuola di danza Il Filo di Tersicore ha una parte importante nella trama del libro.
   In una splendida villa fuori Roma è morta Maddalena Vichi- da giovane era una promettente ballerina, dopo la nascita della figlia aveva dovuto accontentarsi di aprire una scuola di danza dove era lei stessa l’insegnante. Sembra che sia morta per cause naturali, dopo una serata di festa- indossava un abito bellissimo, vintage, un capo di alta sartoria. Alice Allevi, che ha appena concluso la specializzazione, viene chiamata dal magistrato per stilare il referto. Alice ha qualche dubbio, in un caso che peraltro sembrerebbe chiarissimo. C’è la possibilità che qualcuno, senza volerlo, spintonandola, abbia provocato la morte di Maddalena.
dalla serie televisiva
Una decina di anni prima era morta una ragazza che era stata alunna di Maddalena e sembrava avviata ad una grande carriera. Si era parlato di suicidio ma la famiglia della ragazza non ci aveva mai creduto e aveva insistito per anni per avere una riapertura del caso. Spuntano fuori dei biglietti sibillini, ‘Solo tu sai che cosa è successo’. Uno di questi biglietti è nella busta che contiene il cd di “Arabesque”, alla scuola di ballo. Uno è nella borsetta di Maddalena. Chi è quel ‘tu’ e che cosa sa? Di chi si sta parlando? Della povera Ginevra che era caduta dal balcone? Allora forse qualcuno l’aveva spinta?
    Le trame dei romanzi di Alessia Gazzola sono sempre perfettamente congegnate, la scrittrice riesce a spruzzare di originalità anche quello che potrebbe essere un caso banale e ristretto ad un piccolo ambiente. In più, la sua competenza medica ci dà il gusto della precisione scientifica, alleggerita dal brio di Alice.
E poi, quello che ci strega sempre nei suoi romanzi è il mix della tavolozza dei colori, un sapiente dosaggio di giallo, di nero e di rosa. Quando terminiamo un libro di Alessia Gazzola, ci è difficile dire che cosa ci sia piaciuto di più, che cosa ci abbia fatto finire il libro in un giorno- se la tensione del mystery, la curiosità di sapere che cosa sia successo a Maddalena e a Ginevra e perché il nuovo proprietario della villa sia l’uomo che è stato il primo amore di Maddalena, oppure se sia stata un altro tipo di tensione più sentimentale: riuscirà o non riuscirà Alice, che compie trent’anni, a  legare a sé lo sfuggente e carismatico CC, ovvero Claudio Conforti, l’anatomopalogo ritenuto infallibile che però, dieci anni prima, almeno uno sbaglio lo ha fatto (anche se non interamente  di sua responsabilità)?
Detto così, si potrebbe temere che “Arabesque” scada nel genere ‘Harmony’ (come si chiamano usualmente i romanzi femminili con trame sempre più o meno uguali). Invece questo non succede mai nella serie con Alice protagonista. E’ il carattere della scrittrice, è quello del suo personaggio che lo impediscono. Alice è capace di ridere di se stessa (oltre a far sorridere noi), di prendersi in giro, di fare una battuta o una delle sue proprie ‘gaffe’ proprio nel momento in cui il rischio di una sdolcinatura è peggiore. E noi lettrici la amiamo per questo.

    Sono riuscita a non dirvi nulla sulla fine del libro. Aspetterò con pazienza fino al prossimo autunno per sapere come procede la vita di Alice. E sottolineo un dettaglio prezioso: le citazioni all’inizio di ogni capitolo, varie e intriganti.

la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.net


venerdì 24 novembre 2017

Magda Szabó, “Per Elisa” ed. 2010

                                                   Voci da mondi diversi. Europa dell'Est
            autobiografia
            il libro ritrovato


Magda Szabó, “Per Elisa”
Ed. Anfora, trad. Vera Gheno, pagg. 368, Euro 14,00


     Era stata la sorella a chiederle di scrivere le parole per la bella musica di Beethoven. Ed è così che Magda Szabó, la grande scrittrice ungherese scomparsa nel 2007, ha intitolato “Per Elisa” la sua autobiografia, che contiene la storia della sua vita ed insieme quella della sorella Cecilia, in un tacito omaggio a quest’ultima. Magda Szabó non è riuscita a completare la sua opera, che doveva essere un trittico, e il libro pubblicato ora dalla casa editrice Anfora è soltanto il primo, che copre gli anni dalla sua prima infanzia alla fine del liceo.
      Leggere un’autobiografia è un’esperienza strana: è come guardare dentro una casa attraverso una finestra che è aperta ma, secondo come sono tirate le tende all’interno, ci permette di vedere solo una parte, o quello che l’occupante della casa desidera che noi vediamo. Così in un’autobiografia abbiamo la possibilità straordinaria di conoscere i retroscena della vita di uno scrittore, le persone o gli eventi che hanno avuto un’importanza determinante nella sua formazione- tuttavia solo da una prospettiva, solo attraverso il filtro della memoria di chi ce ne parla, senza possibilità di confronto.

Comprendiamo tante cose, leggendo “Per Elisa”. Perché Magda, il cui nome non abbreviato è Magdolna, fu una bambina e poi un’adolescente fuori dal comune ed ebbe la fortuna di crescere in un ambiente fuori dal comune. Intelligente, curiosa, dotata di ottima memoria, caparbia, volitiva: tutte caratteristiche che possono venire potenziate al massimo portando a risultati eccellenti oppure, se non comprese da degli educatori dalla mentalità ristretta, possono essere soffocate impedendo la crescita intellettuale. Il padre di Magda parlava con lei in latino fin da quando era piccola, sua madre era musicista. Entrambi la sollecitavano a pensare con la sua testa, a non accettare passivamente nulla, a rifiutare qualunque dogma. Entrambi stimolavano la sua fantasia. Entrambi la incoraggiavano a dire la sua opinione. Era naturale che, frequentando la scuola, Magdolna incontrasse delle difficoltà- non nell’apprendimento, tutto il contrario, perché spesso ne sapeva più dei suoi insegnanti, ma nei rapporti con i professori e con le altre studentesse. Con i professori perché non c’erano tabù per Magda- valga ad esempio il tema da svolgere sul quadro raffigurato in copertina al libro, Pilato con Gesù. Magda aveva scelto di esprimere il punto di vista del cane in primo piano- uno scandalo, dopo di che fu identificata come ‘quella del cane’. Con le compagne perché in mezzo a loro Magda si annoiava. Non aveva i loro stessi interessi.

     C’era una sola coetanea che Magda amava tantissimo, nonostante l’avesse violentemente respinta all’inizio: la sorella Cecilia, adottata dai suoi genitori a quattro anni, dopo il trattato di pace del Trianon che aveva mutilato l’Ungheria di gran parte dei territori. Cecilia era ‘un’orfana del Trianon’, non ricordava nulla della tragedia che aveva alle spalle, della morte dei genitori. Dapprima Magda aveva odiato quell’intrusa con cui doveva condividere l’affetto dei genitori e il suo spazio vitale. Poi con la stessa passione dell’odio l’aveva amata, perché era impossibile non amare Cecilia che, ad iniziare dai capelli biondi e gli occhi fiordaliso, era l’opposto di Magda in tutto. Il suo doppio necessario.
    Ci sono alcune parti che leggiamo con grande interesse, in “Per Elisa”. Ci divertiamo a leggere degli scontri verbali con gli insegnanti, ci piace individuare personaggi o episodi che la scrittrice utilizzerà in altri suoi romanzi, a volte pensiamo che, se avessimo letto prima “Per Elisa”, avremmo compreso meglio i libri che già abbiamo letto. E tuttavia a volte il racconto degli anni scolastici ci pare fin troppo dettagliato e non siamo certi se la scrittrice sappia che la ragazzina un po’ presuntuosa e così sicura di sé non è del tutto simpatica.
     Un libro necessario sugli scaffali di chi ama Magda Szabó, anche se non un capolavoro- capolavori sono i romanzi in cui Magda ha riinterpretato la sua vita. Indispensabile per chi vuole leggere ‘dietro’ i suoi romanzi. Con un’ottima traduzione di Vera Gheno, un’esplicativa introduzione di Danilo Gheno, professore di ungherese all’università di Padova, ed esaurienti note di Mónika Szilágyi.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net






mercoledì 22 novembre 2017

Magda Szabó, “Affresco” ed. 2017

                                             Voci da mondi diversi. Europa dell'Est
                                                     FRESCO DI LETTURA

Magda Szabó, “Affresco”
Ed. Anfora, trad. C. Tatasciore, a cura di Vera Gheno, pagg. 240, Euro 15,40

     Annuska. Annuska. Annuska. E’ il nome che riappare pagina dopo pagina, nei pensieri, nelle parole dette e soprattutto non dette dei personaggi di questo bellissimo primo romanzo di Magda Szabó, la grande scrittrice ungherese (perché non le è mai stato conferito il premio Nobel?) di cui ricorre quest’anno sia il centenario della nascita sia il decennale della morte. Annuska che non si chiama neppure veramente così- la madre Edit, contravvenendo alle disposizioni del marito, l’aveva chiamata Corinna (il motivo di questa scelta, quando lo verremo a sapere, ci stringe il cuore). Annuska a cui tutti pensano con sentimenti diversi e che, però, appare fuggevolmente sulla scena di questo libro che dura il tempo di una giornata, quella del funerale di Edit, da anni internata in un manicomio. Annuska che sembra fatta di fuoco ardente a cui anche noi continuiamo a pensare, dopo aver terminato la lettura.
    Suonano le campane del mattino a Tarba. Sul quotidiano della città è apparso il necrologio per la morte della ‘cara defunta’ (nessuno tranne il servitore Anzsu la andava mai a trovare, non era cara a nessuno)- i nomi di coloro che partecipano al lutto sono i personaggi del romanzo che si alternano nella narrazione, uno dopo l’altro, a volte interferendo l’uno con l’altro, in una sorta di monologo interiore che non ha nulla della difficoltà di quello degli scrittori che sono diventati famosi per il loro stile. Il marito, ministro del culto riformato in pensione, il genero Lázló, pastore della parrocchia di Tarba e membro del consiglio cittadino, la figlia Janka, la nipotina Zsuzsanna, il figlio Árpad. Non si parla di Annuska, fuggita da casa nove anni prima, e c’è un errore: Árpad non è il figlio, ma un nipote adottato che fa il maestro, chiamato sempre l’Orfano, un giovane subdolo che si è insinuato nelle grazie del vecchio Papino.

   Quanto poco amore c’è, nella casa dei due pastori calvinisti, quanto bigottismo, quanta ipocrisia. Il padre non ama la figlia Janka, come non ha amato Annuska e neppure la moglie che, d’altra parte, non amava lui, anzi, ne aveva paura. Povera Edit, a cui solo il padre aveva voluto bene, quell’Ozskar adorato dalla vecchia Nonna che arriva per il funerale, si sente male quando vede Annuska e, all’improvviso, capisce perché le sembri un volto noto- è lui, è Ozskar che è tornato! Lázló non ama la moglie Janka- di lei apprezza che stia sempre zitta e obbedisca. E l’unico motivo per cui Janka è contenta di aver sposato Lázló è che ora c’è Zsuzsanna: lei e la bimba si sono ritagliate un’isola di amore nella casa lugubre in cui si rincorrono i fantasmi di Edit impazzita dopo il parto di Annuska durato due giorni, di Annuska ribelle con i capelli al vento, estrosa e capricciosa, che voleva diventare pittrice e per questo se n’era andata a Budapest. Perfino il fantasma di un cane ucciso da un accesso di rabbia di Lázló sembra riposare sulla panca del giardino. Di quante poche cose si può parlare in questa casa- guai a fare il nome di Annuska, guai parlare di politica e dei comunisti, guai a fare qualunque riferimento ai papisti. E quanti segreti- perché (se lo chiede Zsuzsanna che ha frugato nei cassetti) Lázló dice di non sapere dove abiti Annuska quando invece le ha scritto una lettera che poi non ha imbucato? E che cosa le scriveva, in quella lettera? Perché Lázló cerca in tutti i modi di stare da solo con Annuska? Perché l’Orfano ha venduto ad uno ad uno quasi tutti i libri, compreso i libri d’arte così preziosi per Annuska?

    Annuska illumina l’Affresco. E’ lei che ha trovato il coraggio di andarsene per farsi la sua vita, è lei che rinfranca la vecchia Nonna, che sollecita il vecchio Anzsu ad andare a stare da lei a Budapest- è l’unico che le ha dato affetto. Anzsu rifiuta. Annuska sale sul treno. Lui le dà del ‘tu’ per la prima volta, la chiama ‘Figlia’. A lei, sventolando il fazzoletto dal finestrino, cade di mano il cucchiaio di legno che Anzsu le ha fatto quando era bambina: è la sua vecchia vita che resta sulla massicciata mentre Annuska ritorna a Budapest.
    Ogni parola di ogni pagina è da gustare in “Affresco”, anche quelle che non vengono dette. Perché questa è la magia di Magda Szabó, di dire con leggerezza, di alludere e poi ritornare su quanto accennato per dire di più, di scavare nel profondo nei sentimenti. Un libro da leggere e da rileggere. Indimenticabile Annuska.


   



martedì 21 novembre 2017

Paolo Malaguti, "Prima dell'alba" - Intervista 2017

                                         Casa Nostra. Qui Italia
                                         prima guerra mondiale

Paolo Malaguti ha appena terminato di parlare del suo libro insieme a Domenico Quirico durante un evento nell’ambito di Bookcity a Milano. Lui ed io continuiamo a parlarne in un caffè della stazione centrale. Dall’alto, dove siamo seduti, vediamo partire i treni, sentiamo gli annunci dell’altoparlante. Possiamo cercare di immaginare i treni di cento anni fa, le tradotte che portavano i soldati al fronte, il convoglio della canzone, non ti ricordi, quel mese di aprile, quel lungo treno che andava al confine…


    “Prima dell’alba” non è il suo primo libro sul tema della prima guerra mondiale. Precedentemente ha scritto “Sul Grappa dopo la vittoria”. Si può forse dire che lei sia nato e cresciuto con l’interesse per la prima guerra mondiale, perché ne ha sempre sentito parlare come se oggi fosse ancora l’altroieri?
    
    In realtà, a livello famigliare non avevo sentito parlare molto della Grande Guerra. L’avevo conosciuta attraverso i grandi romanzi. Quello che mi ha portato ad appassionarmi alle vicende di guerra è stato l’avvicinamento alla zona del fronte, quando ho iniziato a fare camminate lungo la linea del fronte. Ne sono rimasto affascinato e ho iniziato a fare ricerche sul campo con amici che avevano, come me, la passione del ricupero, e poi ho continuato tentando di raccontare storie.

Dopo “Sul Grappa dopo la vittoria”, come è arrivato a scrivere questo libro?
     Parlando di “Sul Grappa dopo la vittoria” nelle scuole, mi sono accorto che dovevo lasciare indietro certi aspetti della Grande Guerra- le fucilazioni, i suicidi di trincea. Non ne parlavo perché mi rendevo conto che la memoria della Grande Guerra è ancora problematica in una vasta area del Veneto e del Friuli. In occasione dell’anniversario ho pensato di raccontare una storia che aprisse gli occhi su questa dimensione calata nell’oblio dell’indifferenza, nonostante che il centenario dovrebbe essere un’occasione per un riesame.

In passato prevaleva una visione trionfalista della prima guerra mondiale. Eravamo i vincitori, si celebrava con gran pompa il giorno della vittoria. Eppure, anche se ero bambina, non mi tornavano i conti. Da quello che leggevo, tra le righe di esultanza, io percepivo in realtà una sconfitta. Quale il mito e quale la realtà della Grande Guerra?
     Partiamo da un dato di fatto. Per ben oltre la fine del fascismo è continuata una visione parziale della Grande Guerra. Non è una visione distorta. Ci fu chi visse la Grande Guerra come l’occasione per la realizzazione di ideali nazionalisti. Azzardando una statistica, si può dire che la maggior parte dei soldati della Grande Guerra o era contraria o se la fece andar bene. Questa visione critica o di sopportazione è stata passata sotto silenzio o censurata pesantemente. Basta pensare che nel 1964, al festival della canzone di Spoleto, è stata cantata ‘O Gorizia, tu sei maledetta’, e i cantanti sono stati denunciati per vilipendio delle forze armate. Oggi c’è il rischio della reazione contraria, di buttare via la Grande Guerra in nome della retorica passata. E’ necessaria invece una memoria completa- dare spazio a chi è stato ucciso dai soldati italiani, a chi ha cercato di sottrarsi alla guerra, oltre che ai protagonisti di una guerra voluta della memoria ufficiale.

Dei tanti casi citati in ogni inizio di capitolo, di soldati messi a morte per inezie o per aver abbandonato la posizione, che cosa le ha fatto scegliere quella dell’artigliere Ruffini?   
     Nella ricerca di un punto da cui partire per il mio libro, mi sono imbattuto in Alessandro Ruffini e nel generale Graziani a cui Ruffini è legato a doppio filo. Ruffini è stato fucilato in un paesino vicino a Padova- ero passato spesso, con gli amici, in bicicletta, accanto alla lapide che però non avevo mai notato. Perché la lapide è invisibile- è un quadrato di marmo degli anni ‘70 con le date di nascita e di morte. Ci si domanda come mai un paese- e per paese intendo l’Italia- abbia scelto di non ricordare storie così allucinanti. Ruffini era un fante di 24 anni, aveva marciato per due settimane sotto la pioggia, aspettava i complementi, cioè i ragazzi del ‘99, gli ultimi arruolati, ed è stato visto da Graziani. Si deve dire che Graziani non abusa del suo potere, agisce in nome dell’autorità conferitagli dal generale Cadorna per rimettere in piedi l’esercito italiano. L’ordine era di fucilare chiunque ritenesse colpevole di un atto di insubordinazione.

Quanti sono stati i soldati morti come Ruffini?
    Limitandosi alle fucilazioni ufficiali, cioè non sommarie, ci sono stati tra 750 e 800 fucilati. In realtà furono di più. Per fare un paragone, pensiamo alla Germania che, con un anno in più di guerra, ne ha avuto 47. A Ruffini è stata restituita la memoria di recente, in concomitanza con l’uscita del libro è stata messa un’altra lapide che spiega come e perché sia morto. Tuttavia è un’eccezione. Gli altri soldati fucilati non hanno sepoltura nei sacrari, non sono nell’elenco dei caduti. E’ stato un dramma anche per le famiglie che sono state bollate per questo, c’è chi non ha potuto partecipare a concorsi pubblici perché parente di qualcuno che era stato fucilato.

E vogliamo anche spendere una parola per i disertori, per quelli che non ce l’hanno fatta a reggere?

      Anche qui non abbiamo numeri precisi. Spesso veniva accusato di diserzione anche chi di fatto non lo era. Un soldato che aveva avuto una licenza di una settimana e veniva dal Sud, a volte era obbligato a stare lontano dal fronte più di una settimana per il ritardo dei convogli. Se al rientro trovava un sottufficiale pignolo correva il rischio di essere fucilato per essere arrivato in ritardo. Era una diserzione apparente. Dopo Caporetto Cadorna scarica la responsabilità sulla 2° Armata, accusata della ritirata. I quasi 250.000 prigionieri in mano austriaca non ricevettero cibo dall’Italia e più di 100.000 morirono di fame nei campi di prigionia austriaca. E’ un caso unico perché di norma i prigionieri ricevevano aiuto dalla madrepatria. Fu un’apparente diserzione punita con la vita. Ci furono persone che per motivi ideologici o famigliari o di sopravvivenza decisero di tentare la diserzione. Furono presi e fucilati e anche questi furono colpiti dalla damnatio memoriae, una censura che riguardava anche le loro famiglie. Furono relativamente pochi, invece, i casi di disubbidienza e, secondo me, non ci fu tanto una maturazione di coscienza nazionale ma, dal 1916 in avanti, il timore della decimazione- per ordine di Cadorna, che riprendeva una circolare del duca di Aosta, nel caso che il responsabile non fosse individuabile veniva estratto a sorte e fucilato uno di dieci. Ci fu un controllo trasversale: chi voleva disertare veniva trattenuto a forza dai commilitoni.

Mi è parso che, dei due personaggi principali dei due filoni narrativi, il Vecio e l’ispettore Ottaviano, quest’ultimo sia una sorta di doppio dell’altro ad anni di distanza. Non solo perché la sorte di Ottaviano sarebbe potuta essere quella del Vecio, ma anche perché tutti e due praticano il diritto della disobbedienza ad ordini iniqui. E’ questo il significato profondo del libro? Il diritto e il dovere etico della disobbedienza?
     Assolutamente sì. Questo è uno dei nodi intorno a cui ho cercato di costruire la trama: il dilemma etico dell’obbedienza a un ordine ingiusto e la conseguenza della disobbedienza. Ho cercato di mettere in evidenza che la disobbedienza non fu, a mio avviso, una questione ideologica ma pura e istintiva sopravvivenza e le gerarchie dei generali non se ne resero conto.

E’ singolare che ci siano stati due generali con lo stesso cognome che si sono fatti notare per la loro spietatezza. Non ho trovato riferimenti al fatto che fossero imparentati, quasi che la loro fosse una sorta di tara genetica…
    E’ vero, è strano, anche io ci avevo pensato, ma no, non erano parenti.

Nel libro ci sono parole anche per l’altra tragedia di Caporetto, quella della sofferenza dei civili, dell’esodo e delle violenze subite. Non se ne parla molto: meriterebbe forse un altro libro?

     Sì, è un argomento che mi affascina. Anche qui c’è un vuoto nella memoria e nella narrativa. Un milione di civili nell’Alto Veneto e nel Friuli furono sfollati e come conseguenza ci fu il problema del profugato. Ho incontrato solo alcune di queste odissee, è un mondo da scoprire. In occasione del centenario ci sono paesi e comuni che stanno investendo per ricerche storiche sui luoghi di permanenza dopo Caporetto.

Come ha fatto per ritrovare il gergo di trincea?
    Il gergo di trincea è una dimensione affascinante. Ci sono 6 miliardi di cartoline scritte negli anni di guerra. L’analfabetismo totale era poco presente: in realtà ci si dichiarava analfabeti perché incapaci di confrontarsi con l’italiano. Le lettere dal fronte sono spettacolari per le trovate ortografiche. Le difficoltà maggiori erano date da gn o dal ch. Per la parola ‘campagna’, troviamo campanga o addirittura campangna. I soldati scrivono per far sapere che sono vivi ma le parole possono costarti caro: uno si fece 4 anni di galera per aver scritto che Gorizia non si poteva prendere. Dai primi mesi del 1916 non si parla più di guerra, si chiede della casa e delle bestie. Significava, ‘io ci sono, non posso dirti altro’. Un’altra dimensione è che questi soldati vengono da un mondo rurale e si trovano davanti a oggetti nuovi per cui devono trovare parole: la mitragliatrice Schwartzlose diventa la squarcialossa. Era necessario poi mascherare anche la comunicazione orizzontale: gli ufficiali erano i taschini, o lasagne, o i caramella, mentre i carabinieri erano gli aeroplani. Ho trovato degli studi sul gergo di trincea, quello che è stato difficile è stato usarlo nei discorsi diretti.

Ho ancora una curiosità. Il Piave è sempre chiamato ‘la’ Piave, al femminile. Il Vecio stesso si meraviglia che abbia cambiato genere dopo la guerra. Me ne meraviglio anche io…

   Nell’uso popolare due dei nostri fiumi erano femminili, la Piave e la Brenta. C’è un libro di memorie di Ulderico Bernardi che si intitola “Cara Piave”. Il Piave è stato femminile almeno fino ai comunicati ufficiali del 1917. Quando diventa fiume sacro alla patria diventa maschile. A lungo andare, complice la scolarizzazione e la canzone ‘Il Piave mormorava…’, diventò definitivamente maschile.

l'intervista e la recensione (pubblicata sul blog il 2 di novembre) saranno pubblicate su www.stradanove.net




lunedì 20 novembre 2017

Jessica Fellowes, "L'assassinio di Florence Nightingale Shore" - Intervista 2017

                                     Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                                              cento sfumature di giallo

    Per quattro giorni, dal 16 al 19 novembre, Milano ha respirato aria di libri. L’evento Bookcity ha dato una nuova vita alla città- gli incontri con gli scrittori erano disseminati in così tanti luoghi che era quasi impossibile andare ad ascoltare tutti quelli che si sarebbe voluto. La cosa migliore, forse, era scegliere la zona della città in cui aggirarsi e ‘prendere’ tutti gli incontri nelle vicinanze.
     Ho incontrato Jessica Fellowes per parlare con lei del suo romanzo, “L’assassinio di Florence Nightingale Shore”, il primo della serie de “I delitti Mitford”.


La maggior parte dei suoi scritti, finora, ha avuto a che fare con il mondo di “Downton Abbey”. Perché ha scritto dell’ambientazione del famoso sceneggiato, che io amo molto peraltro, e come mai ha cambiato genere, scrivendo un romanzo poliziesco?
    E’ stato il mio agente a chiedermi di scrivere del mondo di Downton Abbey, perché io non ho niente a che fare con lo sceneggiato televisivo. In realtà, non tutto quello che ho scritto ha a che fare con il mondo di “Downton Abbey”. Ho fatto la giornalista per anni e ho scritto libri di economia. Mi sono laureata in psicologia e uno degli esami che ho fatto è stato di criminologia. Sono sempre stata attratta dalle menti criminali. Quando ho terminato di scrivere di “Downton Abbey”, volevo scrivere un romanzo ed è stato il mio editore, Edwood, che mi ha suggerito “I delitti Mitford”, ha pensato lui stesso al titolo. Perfetto. Mi sentivo un poco nervosa all’idea di scrivere un romanzo poliziesco ma il mio editore mi avrebbe aiutato- è stato bello discutere con lui.

la famiglia Mitford
Tutto considerato, sembra che Lei sia rimasta fedele all’atmosfera di “Downton Abbey”: che cosa la affascina di quel tempo?
    Mi è sempre piaciuto ascoltare le storie di famiglia ambientate in quell’epoca. Julian (Julian Fellowes, zio di Jessica, autore di “Snob”, “Un passato imperfetto”, “Belgravia” e sceneggiatore di “Downton Abbey”) amava raccontare della nostra famiglia. Era giovane, aveva 24 anni quando sono nata io e si è sposato tardi, a 40 anni. Ecco perché passavo molto tempo con lui, soprattutto le vacanze, e amavo le storie che raccontava sull’inizio del ‘900- suo padre era nato nel 1912. E’ stato quello che mi ha ispirato anche nella scelta delle mie letture da ragazza, quando avevo vent’anni e leggevo Evelyn Waugh, Nancy Mitford, Graham Greene. Ho passato anni a fare ricerche sul mondo di Downton Abbey, sugli anni in cui i giovani, dopo la prima guerra mondiale, sentivano il bisogno di cambiare e nello stesso tempo avevano il sentore di un’altra guerra che si stava avvicinando. Mi interessava questa atmosfera e ci vedo anche una somiglianza con il tempo di oggi, con altre guerre e altri reduci. Allora la politica era polarizzata- un partito di destra e uno di sinistra- e oggi non è molto diversa: in Inghilterra manca un partito di centro. E poi fu un’epoca in cui emersero le prime voci femminili in letteratura.

Ha nostalgia per quel tempo?
    No, affatto, anzi, sono grata di vivere adesso, non ho nessuna nostalgia, nessun rimpianto. A meno di essere ricchi non era né bello né facile vivere allora.

Nancy Mitford
Le sorelle Mitford sono famose. Quale opportunità Le offriva, la scelta di questa famiglia, per l’elaborazione della trama?
   Il vantaggio è che la famiglia Mitford si presta per dei libri seriali. Le ragazze Mitford erano sei, la prima era nata nel 1904 e l’ultima nel 1920, ognuna di loro diventò maggiorenne in un’epoca diversa e ognuna illustra qualche aspetto della sua epoca. Nancy era una flapper, una ‘maschietta’, una tipica donna degli anni ‘20, Pamela diventò una brava signora di campagna, Diana, che era straordinariamente bella, sposò un Guinness e poi lo lasciò per Oswald Mosley, leader del partito fascista, Jessica si innamorò di un loro cugino che era comunista, Unity diventò amica di Hitler e voleva suicidarsi quando scoppiò la guerra, Deborah, infine, sposò un uomo che ereditò, inaspettatamente, il titolo per cui lei diventò duchessa. C’era un unico figlio maschio, Tom, che morì durante la guerra. Dapprima non pensavo di scrivere un libro in cui lui fosse il protagonista, invece adesso, forse, ho cambiato idea…

Diana
Ho osservato che la condizione della cameriera Louisa è leggermente diversa da quella della servitù in “Downton Abbey”. E’ dovuto al personaggio anticonvenzionale di Nancy Mitford o è un segno del cambiamento dei tempi?
      In “Downton Abbey”, la cameriera non si sarebbe mai seduta in presenza dei signori, in “Downton Abbey” i servitori sapevano sempre molte più cose sui loro padroni di quante questi ne sapessero di loro. Ma Louisa e Nancy sono quasi coetanee e poi Louisa è un aiuto governante dei bambini e il mondo della nursery era un mondo a parte. Nel prossimo romanzo Nancy si allontanerà da Louisa, entrando in società, e Louisa ne soffrirà. I servitori incominciavano a capire che potevano aspirare ad un’altra vita, Louisa inizia a guardarsi intorno…

Come Daisy in “Downton Abbey”?
    Esattamente

Il suo romanzo è un thriller molto classico, sull’esempio dei romanzi di Agatha Christie. Tempi diversi richiedono stili diversi?
     Suppongo di sì. Volevo avere un tono di semplicità, volevo che i lettori potessero imparare qualcosa dalla storia, che le ragazze si ricordassero di Louisa.
Unity Mitford
La novità nel suo romanzo è che non troviamo il solito modello dei due investigatori. Infatti ci sono 3 personaggi principali che indagano- il poliziotto e le due ragazze. Perché ha fatto questa scelta?
     Ci sarà una serie di romanzi, ognuno con una diversa ragazza Mitford. Avevo bisogno di personaggi che mi seguissero in tutta la serie. Louisa e il poliziotto Guy saranno i due personaggi fissi- due persone della classe lavoratrice in un mondo nuovo. E sì, ci sarà un delitto realmente accaduto in ogni romanzo.

Un’ultima curiosità, velocemente perché abbiamo finito il tempo a disposizione. Che rapporto di parentela c’era tra le due Florence?
    Florence Nightingale Shore era una cugina di Florence Nightingale, non so di che grado, e anche sua figlioccia.

intervista e recensione saranno pubblicate su www.stradanove.net