sabato 29 giugno 2019

Andrea Camilleri, “Il cuoco dell’Alcyon” ed. 2019


                                                                   Casa Nostra. Qui Italia
                                                                  cento sfumature di giallo



Andrea Camilleri, “Il cuoco dell’Alcyon”
Ed. Sellerio, pagg. 247, Euro 14,00

      Si infittiscono i sogni e gli incubi, in questo nuovo romanzo del ‘nostro’ Andrea Camilleri, “Il cuoco dell’Alcyon”. E’ Salvo Montalbano a sognare, e i suoi sogni, che contengono sempre un segnale di allarme, tracimano nella realtà, anzi, il confine tra sogno e realtà si fa sempre più labile. Come la sera che, sulla sua verandina, Salvo osserva la colonna di formiche che si ferma, il disco della luna che si oscura lentamente in una eclissi totale, le vele bianche della goletta Alcyon stagliarsi nel lucore- per scoprire poi che doveva essere stato un sogno. Non c’era stata nessuna eclissi, presagio funesto da sempre, e tanto meno nessuna goletta nelle acque davanti a Marinella. E però sono giorni bui nel commissariato di Vigata.
     Ci sono stati dei licenziamenti in una fabbrica di scafi il cui proprietario, il giovane Giogiò succeduto al padre, ama il gioco e le belle donne- per questi suoi vizietti il denaro c’è sempre. “A noi manca il pane ma al padrone non mancano le puttane”, dice lo striscione che gli operai hanno appeso all’ultimo piano della palazzina degli uffici. E un operaio, per la disperazione, si è suicidato in uno dei capannoni. Succede altro ancora, ma, soprattutto, succede molto al commissariato. Montalbano è obbligato a prendere ferie e, mentre è con Livia a Boccadasse, gli giunge notizia di essere stato addirittura radiato. C’è un nuovo commissario al suo posto (si rivelerà un uomo in gamba, intelligente e preparato), Fazio, Mimì Augello, perfino Catarella sono stati spostati a Montelusa (è Catarella quello che più suscita la nostra compassione in questa situazione confusa)- che cosa è successo? Che cosa sta succedendo?

      Realtà e sogno, realtà e finzione, realtà e recitazione sul palcoscenico della vita, perché a volte è necessario recitare per capire meglio che cosa avviene dietro il sipario. La crisi della fabbrica di scafi aveva portato all’attenzione quel Giogò presuntuoso e arrogante che, in qualche maniera, aveva dei contatti con la goletta fantasma, l’Alcyon che attraccava a cadenze regolari, faceva rifornimento di viveri e vini (una quantità incredibile: ma quanti ospiti aveva a bordo?), caricava un paio di ragazze con minigonne vertiginose e gambe lunghe due metri, e salpava di nuovo. La poppa sembrava essere stata adattata per far atterrare un elicottero. Che mistero si nascondeva dietro l’Alcyon? Era una bisca e insieme un postribolo galleggiante? Fatto sta che perfino l’FBI se ne interessa e appare un nuovo personaggio, un siculo-americano con un linguaggio a dir poco divertente. E da questo punto in poi il ritmo accelera, la recitazione si fa più impegnativa, tanto da richiedere una trasformazione dell’aspetto di Salvo e di Fazio, la tensione è forte e il romanzo sembra trasformarsi in uno dei libri di Emilio Salgari.

     Andrea Camilleri è unico. Ancora una volta ce l’ha fatta, ancora una volta ci ha regalato una trama che ‘tiene’, dei personaggi che non sono rimasti prigionieri delle loro caratteristiche- Salvo Montalbano non pretende di essere il giovane commissario che abbiamo conosciuto ne “La forma dell’acqua” (primo romanzo della serie, 1994), il suo legame con Livia, un po’ stiracchiato, è quello di una vecchia coppia che ha avuto la fortuna di non vivere sempre insieme, anche l’eterno dongiovanni Mimì accusa gli anni. Camilleri è brillante, ha umorismo (mi sono sorpresa a ridere durante alcune scene), è un intrattenitore e, nello stesso tempo, ha un occhio attento alla realtà sociale che lo circonda, sia questa la fabbrica in crisi, sia il barcone di poveracci in cui solo sette sono sopravvissuti su più di duecento.
 Una sola cosa mi manca, in Camilleri, devo confessarlo: la lingua italiana. Pur augurandomi la sopravvivenza dei dialetti, pur apprezzandone la ricchezza del colore, mi manca la bellezza dell’italiano e naturalmente mi dispiace non capire tutto.

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domenica 23 giugno 2019

Chaim Grade, “La moglie del rabbino” ed. 2019


                                                 Voci da mondi diversi. Diaspora ebraica



Chaim Grade, “La moglie del rabbino”
Ed. Giuntina, trad. Anna Linda Callow, pagg. 212, Euro 18,00

     Il rabbino di Graypeve e sua moglie erano ormai in età avanzata. I loro figli, già tutti sposati, vivevano a Horodne.

Due cittadine, nel mondo scomparso della yiddishland. Due coppie, quella del Rabbi Uri Zvi e la moglie Perele (di Graypeve) e quella di Rabbi Moshe Mordechai e Sara Rivka (di Horodne). Uri Zvi ha un ruolo di minor prestigio di Moshe Mordechai- quest’ultimo è il Rabbi della Sinagoga di una città più importante di Graypeve, è un dotto di gran fama, ha scritto parecchi libri, lo chiamano addirittura ‘il papa degli ebrei’. MA è infelice nella vita privata- ha avuto una sola figlia che è morta, la moglie non trova consolazione. Uri Zvi e Perele hanno tre figli e anche nipotini che abitano tutti a Horodne. Un dettaglio importantissimo: Moshe Mordechai è stato fidanzato con Perele, ma l’ha lasciata prima delle nozze. In famiglia aveva detto chiaramente il perché: Perele ‘era malvagia’.

     Quanto Perele sia malvagia (o, per lo meno, ‘difficile’) ce lo racconta Chaim Grade, di Vilna, uno dei più grandi scrittori yiddish del XX secolo, a prova che il grande rabbino Moshe Mordechai aveva veramente un intuito speciale per capire le persone che si avvicinavano a lui. Dopo che Perele ha svolto il suo compito di madre (la figlia è in eterno dissidio con lei, i figli sono ossequiosi), ha il tempo per ascoltare le chiacchiere e, quando le giunge voce della stima di cui è circondato il suo ex fidanzato, non ha più pace. E non lascia in pace il povero marito. Devono assolutamente andare a vivere a Horodne- perché mai Rabbi Uri Zvi dovrebbe lasciare un incarico sicuro? Ma per raggiungere i figli, per prendersi cura dei nipotini, è ovvio. Perele ha lo sguardo lungo, è chiaro che ha in mente altro, una scalata religiosa e sociale che porterà lei e il marito allo stesso livello di Moshe Mordechai e Sara Rivka. Un passo dopo l’altro, che noi seguiamo tra il riso e lo sdegno, schiacciando qualunque obiezione possa fare il mite Uri Zvi, senza curarsi di ferire i sentimenti di Moshe Mordechai, di Sara Rivka, dei suoi stessi figli, Perele ottiene quello che vuole. Con conseguenze che forse non avrebbe voluto neppure lei.
Sinagoga di Horodne
     C’è una grande tradizione letteraria dietro a personaggi come Perele. Per il suo arrivismo, la sua mente acuta e la battuta pronta ci fa pensare a Becky Sharp della “Fiera della Vanità” (anche Perele, tutto sommato, ambisce ad un mondo di vanità). E poi pensiamo alla Caterina de “La bisbetica domata”, a donne simili nelle commedie di Goldoni o di Molière, tutte contrapposte ad una sorella gentile e dolce, proprio come Perele è l’opposto di Sara Rivka che le porge l’altra guancia. E tuttavia è il contesto storico e logistico che rende così originale e interessante il romanzo di Chaim Grade. Perché, mentre su un piano personale assistiamo allo scontro tra le due coppie, su un altro piano leggiamo dell’opposizione tra la Agudà (la fazione ultraortodossa della vita comunitaria ebraica, contraria al sionismo) e la Mizrahi (l’ala religiosa ortodossa del movimento sionista). Va da sé che i due rabbini divengano- forse loro malgrado, ma certamente sospinti dalle manovre di Perele- gli esponenti delle due posizioni, aggiungendo quindi un motivo in più di contrasto che sfocia in un malessere generale, in una continua e sotterranea discordia nella tranquilla (un tempo, prima dell’arrivo di Perele) comunità di Horodne.
      Un libro pungente e amaramente divertente. Perché- al di là del contesto- il personaggio di Perele, così odiosa ma anche così ammirevole nella sua determinatezza, è senza luogo e senza tempo.

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venerdì 21 giugno 2019

Simona Lo Iacono, “L’albatro” ed. 2019



                                                                        Casa Nostra. Qui Italia
              biografia romanzata

Simona Lo Iacono, “L’albatro”
Ed. Neri Pozza, pagg. 220, Euro 16,50

       Non aveva ancora compiuto 61 anni, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, quando morì a Roma, nel luglio del 1957. Non aveva ancora pubblicato il suo unico romanzo ispirato alla figura del bisnonno. Anzi, nel suo letto della Clinica Villa Angela, aveva subito la frustrazione di ricevere la lettera in cui il libro veniva rifiutato dalla casa editrice Mondadori. “Il Gattopardo” sarebbe stato pubblicato dalla casa editrice Feltrinelli un anno dopo e avrebbe vinto il premio Strega nel 1959. Nel 1963 il film di Luchino Visconti avrebbe imposto nell’immaginario il volto di Burt Lancaster per il Principe Fabrizio e quello di Claudia Cardinale per la bella Angelica. Inutile dire che sarebbe stato meglio che il riconoscimento a lui dovuto fosse arrivato prima- e mi viene in mente il destino uguale di Stieg Larsson (e con questo non voglio fare un paragone di merito tra i due scrittori).
      Il romanzo “L’albatro” di Simona Lo Iacono segue una duplice narrativa- una che, dal presente dell’ultimo mese di vita dello scrittore, nel 1957, volge lo sguardo al passato più recente, e una che inizia nel 1903, quando Giuseppe Tomasi di Lampedusa ha 7 anni, e si proietta in avanti, fino a ricongiungersi con l’altra.
Nella prima il presente con la consapevolezza della malattia e i ricordi della vita da adulto, soprattutto l’esperienza traumatizzante delle due guerre, della prigionia, del ritorno a casa che sembra quello di Ulisse ad Itaca, dove nessuno lo riconosce. E poi l’amore per Licy, la moglie lettone che sua madre non poteva soffrire, perché divorziata, perché aveva un lavoro, perché era intraprendente (ma, nel suo amore esclusivo per l’unico figlio, sua madre avrebbe mai accettato che un’altra donna glielo rubasse?), la scrittura per ricreare un mondo distrutto. Il mondo che rivive nella seconda narrativa, il racconto di un bambino solitario e del suo compagno di giochi, Antonno, che lo seguirà come l’albatro della poesia di Baudelaire che la madre ha letto ad alta voce- Spesso, per divertirsi, gli uomini dell’equipaggio/catturano degli albatri, grandi uccelli dei mari,/che seguono, indolenti compagni di viaggio,/il vascello che va sopra gli abissi amari. E’ il mondo che riapparirà ne “Il Gattopardo”, quello delle due case, a Palermo e a Santa Margherita Belice, della grande famiglia, dello zio Alessandro che ci fa pensare a Tancredi, visto dall’adulto che ha gli occhi del bambino e il suo sguardo è velato di malinconia, perché sa già che è un mondo destinato a scomparire. Come scompare Antonno, il bambino che fa tutto al contrario, che scolpisce nel legno piccole opere d’arte invece di trasformare le parole in arte, che gode di una libertà che il piccolo Giuseppe avrebbe forse voluto, una sorta di doppio del principuzzu.

     Leggendo le pagine di Simona Lo Iacono le figure di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e quella del Principe Fabrizio, quella di Tancredi e quella del figlio adottivo dello scrittore, quella del cane Crab e di Bendicò, il cane del Principe Salina, finiscono per sovrapporsi nella nostra immaginazione. E’ come scostare le tende di un sipario e intrufolarsi dietro le quinte. Bello e ricco di suggestioni.

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martedì 18 giugno 2019

Agnes Ravatn, “Il tribunale degli uccelli” ed. 2019


                                                                  vento del Nord
                                                              cento sfumature di giallo


Agnes Ravatn, “Il tribunale degli uccelli”
Ed. Marsilio, trad. Maria Valeria D’Avino, pagg. 205, Euro 16,00

     Una ragazza, rispondendo ad un’inserzione, si presenta al cancello di una casa isolata nella natura, vicino ad un fiordo, in Norvegia. E’ subito chiaro che si sta allontanando da qualcuno o da qualcosa, che vuole lasciarsi il passato alle spalle, che è pronta ad accettare un lavoro per cui non è preparata, correndo il rischio dell’ignoto. L’ignoto è il bell’uomo sulla quarantina che abita lì da solo e che ha bisogno di una persona che curi il giardino e che gli prepari i pranzi. La ragazza, Allis, non sa nulla di giardinaggio, si darà da fare. L’uomo, Sigurd, parla il minimo necessario per darle istruzioni: a che ora vuole siano serviti i pasti, lei mangerà dopo di lui, ha una camera al piano superiore, quella di lui (in cui starà chiuso tutto il giorno) è a piano terra. Lei userà la bicicletta per andare a fare la spesa nell’unico negozio nelle vicinanze.

     Inizia così “Il tribunale degli uccelli” di Agnes Ravatn, un thriller costruito su un’atmosfera di mistero- che lavoro fa Sigurd? Dice che sua moglie è via, che tornerà. Come mai non c’è niente di lei in giro? Perché la porta del suo studio è sempre chiusa a chiave? Quanto ad Allis: perché teme che possano riconoscerla? Che lavoro faceva prima? Il mistero che circonda i personaggi è acuito dall’isolamento della casa, dalla sensazione che ci sia un pericolo incombente che non sappiamo da dove possa arrivare, da una natura straordinariamente bella ma cupa e che non fa che aumentare i nostri timori. Il fiordo è bello e spaventoso, perfino Allis avverte un brivido di paura quando si trova sulle sponde dell’acqua insieme a Sigurd, quasi che il fiordo nasconda un segreto che contiene in sé un’oscura minaccia. E naturalmente è vero, e lo scopriremo.
     Molto di quello che succede è del tutto prevedibile. Entrambi i personaggi hanno la loro parte di ambiguità. Soprattutto Sigurd, non sappiamo mai se dobbiamo credergli oppure no, la verità ha molte facce e molte interpretazioni. E la fine arriva piuttosto in fretta, non del tutto inaspettata, non del tutto convincente.

     Quella del ‘giallo’ nordico è diventata una moda e, dopo aver letto molti romanzi di indagine poliziesca che ci arrivano dal Nord, ci siamo quasi convinti che gli scrittori di quell’area di Europa abbiano una propensione speciale per il genere (è la natura che li circonda che li ispira? Di certo è vero che l’assolato Mediterraneo non è inquietante come un fiordo stretto tra due pareti di boschi e roccia). La realtà è che non tutti i gialli nordici sono ugualmente belli, proprio come non lo sono quelli scritti in altri paesi. E questo non è uno dei migliori. Si legge velocemente, la scrittrice irretisce i lettori tenendoli con il fiato sospeso, prigionieri della bellezza della natura che sembra contribuire alla minaccia, che pare inviare lei stessa segnali di pericolo- memorabile è l’attacco dei gabbiani, una scena da film di Hitchckok, che temono per le uova nei nidi e costringono ad una fuga Sigurd e Allis-, e tuttavia c’è superficialità sia nella trama piuttosto banale, sia nei personaggi.

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domenica 16 giugno 2019

Mariana Leky, “Quel che si vede da qui” ed. 2019


                                                   Voci da mondi diversi. Area germanica



Mariana Leky, “Quel che si vede da qui”
Ed. Keller, pagg. 336, Euro 18,00

    Un paese nel Westerwald, Germania. Sono tutti gli abitanti del paese i protagonisti dell’incantevole romanzo di Mariana Leky, “Quel che si vede da qui”, anche se la voce narrante è quella di Luise, la nipote di Selma, di certo i due personaggi che più ci rimangono nel cuore, indimenticabili.
     Luise ci racconta un intero ventennio di vita del paese, senza che quasi nessun avvenimento esterno si intrometta a turbare le esistenze dei suoi abitanti. Anzi. Quello che più mette in subbuglio il paese è un sogno di Selma: ogni volta che Selma sogna un okapi (un animale di cui le aveva parlato il marito, uno strano incrocio tra una zebra e una giraffa), qualcuno muore nel giro di ventiquattro ore. Così come l’okapi assume i contorni di un animale mitico, anche il possibile arrivo della Morte diventa qualcosa di più di una semplice conclusione del ciclo della vita e tutti prendono delle contromisure, come se volessero evitare un incontro sgradito. Tutti tranne un anziano contadino che, invece, spalanca la porta alla Morte- pensa di aver vissuto abbastanza.
La sessantenne Selma è la nonna che tutti vorrebbero avere. E’ lei che si è sempre presa cura di Luise i cui genitori sono presi dal lavoro e da una crisi di coppia. Quando, dopo il sogno di un okapi, una terribile tragedia colpisce il paese e Luise, sotto shock, si è addormentata e continua a dormire in braccio a Selma, la nonna non la adagia su un letto, ma la porta in braccio con sé- dolce fardello addormentato che si aggrappa al suo collo- per giorni e giorni.
Selma è bella, Selma è vedova, l’ottico è da sempre innamorato di lei- solo quando lei sta per morire le consegnerà una valigia piena di lettere iniziate e non finite in cui avrebbe voluto dirle che l’amava. C’è un altro bambino, Martin, quasi il gemello di Luise perché è nato il suo stesso giorno, più che un fratello- sono inseparabili. E ci sono personaggi negativi, il padre di Martin, ubriacone e violento (l’ottico fa un tentativo per provocare una disgrazia che ne causerebbe la morte accidentale), una giovane donna soprannominata Marlies-la-Triste.
Eppure i colori del libro di Mariana Leky non sono il bianco e il nero, c’è sempre una possibilità di redenzione e di cambiare anche per i ‘cattivi’, perché questa è l’anima del villaggio- uno per tutti e tutti per uno, la disponibilità di ognuno ad aiutare gli altri, l’empatia e il calore umano che aiutano a superare le difficoltà e i momenti bui. Perché la vita è fatta di gioie e di dolori, di perdite e di amore e di rabbia e di odio, di amicizia e compassione.

    C’è chi va e c’è chi resta e c’è un nuovo arrivato che non può non essere conquistato dal calore del villaggio. Il padre di Luise parte per una serie di viaggi senza fine, la madre di Luise ha un amante, il monaco buddista originario dell’Assia e che ora vive in un monastero in Giappone arriva per caso- e Luise se ne innamora.
     Un libro delizioso, dolce senza essere stucchevole, ‘caldo’ perché ci riscalda il cuore con il sentimento di solidarietà diffuso tra i personaggi, a tratti buffo e divertente e a tratti tragico, con un pizzico di realismo magico in versione tedesca, perché, che cosa è la magia se non quella polvere di stelle che ci aiuta a sopportare il peso della vita?

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sabato 15 giugno 2019

Franco Faggiani, “Il guardiano della collina dei ciliegi” ed. 2019


                                                                Casa Nostra. Qui Italia
                                                              biografia romanzata



Franco Faggiani, “Il guardiano della collina dei ciliegi”
Ed. Fazi, pagg. 230, Euro 13,60

    I fatti veri, quelli che si trovano in Google: Shizo Kanakuri, il protagonista del bel romanzo di Franco Faggiani, è veramente esistito. Nato nel 1891 a Nagomi, in Giappone, morì nel 1983. Il 14 luglio del 1912 fu uno dei due atleti giapponesi che presero parte ai giochi olimpici di Stoccolma. E non voglio dire altro, per quanto le informazioni su Shizo si possano trovare in rete. Un consiglio: non cercatele, non prima di avere letto “Il guardiano della collina dei ciliegi” perché è un libro incantevole e vale la pena di lasciarsi trascinare dal racconto senza sapere nulla, anche perché lo scrittore si è servito del suo privilegio in quanto tale, di inventare, di immaginare, di riempire gli spazi vuoti del tempo, di tirare fuori dall’oblio un uomo dimenticato e dargli una nuova vita.

     La narrativa del romanzo di Franco Faggiani è scandita in tempi diversi- prima, durante e dopo. ‘Prima’ è prima dei fatidici giochi olimpici, è il prima dell’adolescenza di Shizo, cresciuto con genitori molto severi e poco espansivi, il prima degli anni di studio e della passione per correre in libertà, quasi che la corsa, nel verde e nel silenzio, potesse dare sfogo a sentimenti prigionieri, con il rumore dei passi che gli erano compagni. ‘Prima’ è anche il lungo viaggio verso Stoccolma, i giorni senza fine della transiberiana, in una carrozza da solo e poi con un compagno che è l’esatto opposto di lui, che lo tira fuori dall’isolamento, che gli dà qualche lezione pratica di vita. ‘Durante’ è il cuore del romanzo, i giochi olimpici in cui Shizo avrebbe dovuto tenere alto l’onore dell’imperatore Mutsuhito e di tutto il Giappone. Il ‘dopo’ è lungo, lungo 71 anni, dai giochi alla morte di Shizo. Il ‘dopo’ è la caduta, la perdita dell’onore. Parafrasando Cassio che, nell’ “Otello” di Shakespeare si dispera sulla reputazione perduta, possiamo quasi sentire Shizo- “Il mio onore, il mio onore! Ho perso il mio onore, la parte immortale di me”. Perché l’onore è tutto in Giappone. Non si vive senza onore. Quando l’imperatore lo aveva convocato alla sua presenza, quando aveva fatto a Shizo l’onore di apparire davanti a lui, gli aveva anche fatto l’onore di sceglierlo per rappresentare il Giappone alle Olimpiadi. E Shizo avrebbe dovuto chiudere il cerchio del sol levante, avrebbe dovuto rendere onore, con la sua corsa, all’imperatore e al suo paese.

Non sarà così. Con la perdita dell’onore, Shizo perde tutto. Patria, famiglia, nome. Si nasconde. Deve espiare. Dapprima in paesi lontani (spera forse, inconsciamente, di morire?), poi ritorna in Giappone e va a vivere in un villaggio sperduto. E qui inizia un lungo percorso per ritrovare la pace quando gli viene affidata la cura di una collina ricoperta di ciliegi selvatici, un patrimonio di una bellezza da togliere il fiato, una nuvola bianca di petali che ammanta i fianchi della collina. La lentezza della vita, l’occhio attento alle piante e alle loro necessità, l’autodisciplina, il sacrificio personale, il silenzio, la ricompensa della bellezza per un lavoro ben fatto. Se manca qualcosa, nella vita di Shizo, è il calore umano che lui non ha mai conosciuto e che non è capace di dare alla sua famiglia, così come non è capace di capire che l’isolamento totale che va bene per lui, può non andar bene per loro. Finché il maratoneta che aveva fallito alle Olimpiadi del 1912 viene ritrovato- la frase di Lewis Carroll che tanto lo aveva colpito non diceva forse, “incomincia dall’inizio e vai fino alla fine”? E Shizo, tornato ad essere Shizo dopo aver vissuto con un altro nome, andrà fino alla fine.

      Quello di Franco Faggiani è un libro singolare nel panorama della lettura italiana. Un libro che non è solo finzione letteraria, che parla di onore nei nostri tempi in cui questo è un valore di cui si è perso il significato, di espiazione, della capacità che ha la natura di salvarci, di incantevole bellezza che ha bisogno, però, di cure per fiorire.
Da leggere.

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giovedì 13 giugno 2019

Stefan Merrill Block, “Oliver Loving” ed. 2019


                                    Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America


Stefan Merrill Block, “Oliver Loving”
Ed. Neri Pozza, trad. M. Ortelio, pagg. 351, Euro 18,00


     Il tuo nome è Oliver Loving. O forse no. Qualcuno dirà che è un nome di fantasia, ma in fondo ti si addice.
    E’ vero, sembra un nome di fantasia, con quel cognome, Loving, che suggerisce tanto della sua indole. E può benissimo anche non essere il suo vero nome, perché- quante storie abbiamo letto, purtroppo, nelle notizie di cronaca, di stragi nelle scuole, di studenti morti o gravemente feriti? E allora sì a Oliver Loving, un nome per tutte le vittime innocenti di un atto di folle violenza.
Siamo a Bliss (vogliamo indugiare ancora sul significato dei nomi? Bliss, Beatitudine, per una cittadina che ha ben poca felicità, situata com’è nel Texas occidentale, sul limitare del deserto che confina con il Messico- quanti drammi in quella zona, prima, durante e dopo, in un paese e in un tempo che ha sostituito la discriminazione contro i neri con quella contro gli ispanici. Oppure ha aggiunto questa a quella. A Bliss, la sera di un 15 novembre (l’anno non è precisato, com’è giusto), un ragazzo messicano entra nella scuola che aveva frequentato qualche anno prima e apre il fuoco sugli studenti che stanno preparando una rappresentazione. Anche l’insegnante è colpito a morte. Fuori dall’aula si imbatte in Oliver Loving (che non dovrebbe affatto essere lì) e gli spara. Disarmato dal bidello, si uccide con un’altra arma che aveva con sé.  Oliver non muore. Forse sarebbe stato meglio per lui. Resta in coma vegetativo in un letto d’ospedale. E la sua famiglia si sfascia.

    Oliver, diciassette anni. Suo fratello Charlie, tredici anni. La mamma Eve. Il padre Jed. Rebekkah Sterling, il primo amore di Oliver. Sono i personaggi che si alternano sulla scena del romanzo, ognuno con la sua storia personale, con le sue reazioni e i suoi sentimenti, i suoi sensi di colpa. Ognuno con la parte che ha avuto in quello che è successo a Oliver. Ognuno con quello che farà di sé e della sua vita dopo Oliver. Perfino la scuola chiude i battenti. E il ranger di Bliss non si stancherà di cercare di capire, per dieci anni, perché è successo- rifiuta la soluzione facile del ‘non c’è un motivo. La follia’. Dieci anni dopo Oliver è sempre immobile, Charlie è andato a New York e passa giornate inconcludenti invece di scrivere il libro che intendeva scrivere su suo fratello (quello che inizia con C’era una volta un ragazzo che cadde in un varco del tempo- leitmotiv di tutto il romanzo), Eve vuol credere che il figlio si risveglierà, Jed beve e fa stravaganti sculture, Rebekkah (che non è mai stata la ragazza di Oliver) non riesce a dimenticare.

      Stefan Merrill Block ha una propensione per esplorare la psicologia dei personaggi, per immaginare i pensieri di un cervello non più integro (penso al suo primo romanzo, “Io non ricordo”), per esplorare le conseguenze di comportamenti e azioni. E riesce ad universalizzare il dramma di Oliver inserendolo nelle problematiche della dinamica famigliare. In più ha messo a fuoco, in questo ultimo romanzo, due tematiche scottanti- la diffusione della violenza e la facilità di procurarsi delle armi, e il razzismo nei confronti degli ispanici. “Oliver Loving” è un bel libro che, tuttavia, soffre di alcune lungaggini e ripetizioni, rallentando il ritmo nella parte centrale.

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domenica 9 giugno 2019

Victor Segalen, “Il figlio del cielo” ed. 2019


                                                           Voci da mondi diversi. Francia
                                                           la Storia nel romanzo



Victor Segalen, “Il figlio del cielo”
Ed. ObarraO, trad. A. Giarda, pagg. 216, Euro 16,00

     Guangxu, penultimo imperatore cinese. Aveva 37 anni quando morì- avvelenamento? morte naturale? La zia, la vecchia Imperatrice Cixi che lo aveva adottato e che morì un giorno dopo di lui, era stata fortemente contraria alle sue riforme e forse non voleva andarsene lasciando a lui il trono. Gli sarebbe succeduto Pu Yi, il bambino di due anni che tutti ricordiamo per averlo visto nel film di Bertolucci. E’ Guangxu il protagonista del romanzo “Il figlio del cielo” di Victor Segalen, personaggio straordinario perché non solo scrittore, ma anche poeta, archeologo, critico d’arte, medico, esperto della Cina per averci vissuto molti anni studiando reperti archeologici della dinastia Han.
    Quando Victor Segalen morì, aveva in mano una copia di “Amleto”, e, se il suo Figlio del Cielo assomiglia a qualcuno, è proprio ad Amleto, figura dilaniata da incertezze e malinconie. Segalen ha scelto un genere inusuale per parlarci di Guangxu, quello degli Annali
- non un libro che scorre come un romanzo storico, non un trattato di Storia, ma una sorta di cronaca che finisce per sembrare un diario, una visione dei fatti dall’esterno che a volte sembra essere, invece, una confessione, intramezzata com’è da poesie dell’Imperatore con il controcanto del commento e dell’interpretazione dell’annalista che, volutamente, non è esplicito, volutamente, ci conduce su una falsa pista. Perché Guangxu non è un comune mortale e non può avere i sentimenti degli esseri comuni- è il Figlio del Cielo, è il Cielo che gli dà il diritto di governare. Il regno di Guangxu durò a lungo- dal 1875 (aveva solo 4 anni) al 1908-, ma fu in realtà molto più breve, dal 1889 al 1898- anno in cui, dopo aver  instaurato la Riforma dei Cento Giorni che includeva pure la fondazione dell’Università di Pechino, la costruzione di una linea ferroviaria, l’inaugurazione di una borsa finanziaria, fu prelevato (per ordine della Imperatrice Cixi) dalla sala della Città Proibita dove stava celebrando i riti religiosi del giorno e confinato nell’isola in mezzo al lago, sempre all’interno della Città Proibita. La solitudine e la tristezza degli anni che gli restano è straziante.

       Il Guangxu che balza fuori dai presunti Annali di Segalen (annotazioni brevi e concise eppure straordinariamente ricche di dettagli significativi, a volte tutti da interpretare, leggendo tra le righe) è un giovane uomo intelligente, colto e curioso. Gunagxu non si limita a vivere nel suo piccolo mondo della Città Proibita. Guangxu vuole sapere che cosa sta avvenendo fuori dalle mura di quegli edifici con i tetti a forma di becco d’oca, fuori nelle strade di Pechino, fuori nei paesi da cui vengono quegli stranieri con il naso grosso e ispide barbe. Gli interessa. È lungimirante e capisce l’importanza delle cose nuove e straordinarie di cui sente parlare. E, nonostante la sua timidezza, scontrandosi consapevolmente con l’opposizione della Vecchia Imperatrice, dà atto alle Riforme. Guangxu ubbidisce disobbedendo- in tutto. Anche in amore.
Sposa la donna che viene scelta per lui e poi la vede pochissimo. Boicotta le concubine che gli vengono imposte. E ama la fanciulla che non riuscirà a salvare, quando abbandona la Città Proibita sotto l’urto dell’attacco degli stranieri. O forse qualcuno avrà impedito che si salvasse, per togliergliela dal cuore. E la ragazza morirà in un pozzo, nell’acqua come Ofelia- si è gettata? L’hanno gettata?
     Victor Segalen ha dovuto comprimere gli eventi di quegli anni e quella che leggiamo è una storia abbreviata, ancora più densa e pregnante per questo. E la maestria dello scrittore si rivela nell’aver saputo ricreare lo stile enigmatico del presunto annalista cinese, che dice nel linguaggio ufficiale, che ci invita a leggere quello che non può dirci. Un libro molto bello, da leggere.

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venerdì 7 giugno 2019

Valerio Aiolli, “Nero ananas” ed. 2019


                                                                     Casa Nostra. Qui Italia
     la Storia nel romanzo

Valerio Aiolli, “Nero ananas”
Ed. Voland, pagg. 352, Euro 17,00

    Non lasciatevi fuorviare dal titolo, “Nero ananas”. Il romanzo di Valerio Aiolli non è un thriller a base di, chissà, un ananas avvelenato. L’ananas è una granata dalla forma che ricorda quella del frutto e ‘nero’ è il colore di quegli anni in Italia, gli ‘anni di piombo’ che incominciarono il 12 dicembre 1969, con ‘il botto’ (nel libro viene sempre chiamato così)- l’attentato terroristico nella banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano: 17 i morti, 88 i feriti, l’Italia sotto shock. E il racconto di Valerio Aielli si chiude con un altro attentato a Milano, quattro anni dopo, il 17 maggio 1973 alla Questura di Milano. L’obiettivo era colpire il Ministro dell’Interno Mariano Rumor e invece l’esplosione della bomba causò la morte di quattro delle persone presenti e il ferimento di altre 52.
     I capitoli di “Nero ananas” hanno per titolo una data oppure, più spesso, il nome, anzi, il soprannome di uno dei personaggi, o anticipano la frase con cui inizia il capitolo e questi sono inserti speciali dentro il libro, un piccolo romanzo di formazione di un ragazzino che sua sorella chiama affettuosamente ‘Calimero’ e che vedrà cambiare la sua famiglia, tutto il suo mondo in quegli anni.

     Il Dottore, il Pio, il Samurai, Falstaff, zio Otto- impariamo a poco a poco a riconoscerli, a capire che cosa li abbia trascinati nella lotta armata, chi sia ‘il capo’ e chi esegua gli ordini, chi abbia dei dubbi, chi sia un cane sciolto, come l’anarchico, ex ragazzo sbandato che finirà l’apprendistato in un kibbutz in Israele e sarà lui a gettare la bomba alla Questura di Milano. Lo scrittore preferisce non fare nomi, “Nero ananas” non vuole essere un saggio storico, chi si ricorda può collegare i soprannomi a facce e nomi, chi vuole può fare ricerche sfruttando i dettagli della parte che conclude il libro e che soddisfa il desiderio di sapere che cosa ne sia stato dei protagonisti dopo gli anni del furore. Mentre seguiamo la scalata del Pio al potere (c’è un che di ironico nel sottolineare la sua religiosità che confina con il bigottismo), appare un altro personaggio accanto ai terroristi e questo ha un soprannome in inglese- the Captain. Rappresenta i servizi segreti, italiani e americani, anche loro in qualche maniera coinvolti nelle trame di quella ‘strategia della tensione’.
      E poi c’è Calimero, nel ‘romanzo dentro il romanzo’, la parte più bella del libro. Calimero che adora la sorella che ha dieci anni più di lui, con il suo sorriso di luce, la mano che gli scompiglia i capelli, i ragazzi che la corteggiano e che poi ‘finiscono nella botola’ (secondo il lessico famigliare). Vivono a Firenze (importante, questa visione decentrata di quanto sta avvenendo in Italia), sono un riassunto di tutta l’Italia, con il padre calabrese e la madre fiorentina. Ad un certo punto, che coincide più o meno con il tragico 12 dicembre, la sorella se ne va di casa. Forse è andata via con i suoi amici ‘cinesi’ (altro vocabolo del lessico famigliare). Calimero viene mandato dallo zio a Reggio Calabria, segue in televisione le cronache degli attentati, il seguito delle indagini su piazza Fontana- il colpevole è Valpreda, no, forse non è lui, chi sarebbe così stupido da farsi portare da un taxi a piazzare una bomba?-, la sorella riappare, è cambiata, scompare di nuovo. E la madre incomincia a uscire la sera: il disfacimento della famiglia è l’epitome di quanto sta avvenendo nel nostro paese.

      Sarebbe stato meglio che “Nero ananas” fosse quello che il titolo poteva indurci a pensare, che fosse un romanzo di pura invenzione. Non lo è. Riporta alla memoria ricordi di un periodo buio in cui il terrore era quotidiano e le vittime di quel terrore troppo numerose, con uno stile vario, con un’alternanza di personaggi sulla scena, collocando il lettore nella posizione dello spettatore impotente- quella di Calimero.
     “Nero ananas” è tra i dodici libri candidati al premio Strega 2019.

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