domenica 29 novembre 2020

Graham Greene, “Una pistola in vendita” ed. 2020

                                      Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

cento sfumature di giallo

Graham Greene, “Una pistola in vendita”

Ed. Sellerio, trad. A. Bottini, pagg. 293, Euro 15,00

 

  Uccidere non gli faceva impressione. E quello attuale era un nuovo lavoro, tutto qui.

   Graham Greene ci introduce così a Raven, il protagonista di “Una pistola in vendita”, uno dei suoi primi romanzi, pubblicato nel 1936. Raven come corvo, l’uccello nero che nell’immaginario viene associato alla malvagità. Un uomo marchiato dalla nascita con una deformità, il labbro leporino, che in epoche di superstizione era stato segno di una maledizione. Che aveva accumulato esperienze talmente negative che non potevano non aver lasciato traccia su di lui. Le racconterà in una notte di gelo in cui ha trovato rifugio in una rimessa insieme ad Anne, la ragazza che è rimasta coinvolta suo malgrado in tutta questa storia, solo perché si era trovata nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Il padre di Raven era stato condannato a morte per assassinio, sua madre si era tagliata la gola davanti a lui e lui era finito in una ‘casa’- che nome tristemente ironico per l’ospizio in cui era cresciuto. Che possibilità aveva di una vita normale?


   Il lavoro che Raven ha accettato è quello di uccidere un Ministro socialista in una capitale europea. Raven non sa nulla di lui, non sa perché debba essere tolto di mezzo, lo ha solo visto in fotografia. E si rammarica perché deve fare un’altra vittima per portare a termine il lavoro. Tutto per essere pagato con duecento sterline in banconote false. Le trattative sono state portate avanti da un Mr. Cholmondeley che in realtà si chiama Davis- chi c’è in realtà dietro di lui? Chi è il vero mandante? Si fa presto a capirlo appena avvertiamo che stanno soffiando venti di guerra. Il Ministro ammazzato era un pacifista, un uomo che viveva in accordo con la sua fede politica- se solo Raven avesse saputo prima i dettagli su di lui! E chi, invece, trae grandi profitti da una guerra? È una legge vecchia come il mondo. C’è chi muore e c’è chi specula sui morti.


    La polizia viene sguinzagliata sulle tracce di Raven e il responsabile dell’azione è- guarda caso- proprio il fidanzato di Anne, l’attricetta che voleva solo non perdere il posto di lavoro, che corre il rischio di essere uccisa per ben tre volte, che non viene creduta dal suo innamorato quando lei racconta quello che è successo, come si sia trovata ad aiutare un assassino. E c’è più di un paradosso in tutta la vicenda. Primo fra tutti che Raven sia ricercato per furto e non per omicidio. E il quesito che si delinea sempre più chiaro è chi sia il vero colpevole, quale sia il Male peggiore.

    Raven è il primo dei tipici anti-eroi del mondo letterario di Graham Greene. L’uomo che dovrebbe essere ‘il cattivo’ della situazione ma che, in definitiva, non lo è. O almeno non è il peggiore. Il colpevole che sa di esserlo e che ci costringe, però, a rivedere la nostra opinione su di lui. A differenza degli altri, dei veri colpevoli, Raven uccide perché- come dice lui- questo è il suo lavoro. Con il suo aspetto che lo condanna a prima vista, quanti lavori troverebbe che gli dessero da mangiare? ‘Gli altri’ uccidono perché hanno freddamente calcolato il loro guadagno, milioni e milioni di sterline con un primo morto che, se seguisse una dichiarazione di guerra, porterebbe a milioni di morti.


    La differenza tra Raven e altri personaggi di Graham Greene è nell’assenza del problema etico. Raven non si pone domande sulla dannazione eterna in un’altra vita. È già stato dannato in questa vita e pensa solo a vendicarsi su chi lo ha ingannato. Ed è un altro paradosso che occorrano delle morti per impedire altre morti, per permettere il sospiro di felicità di Anne al pensiero che il suo mondo non cambierà, il sollievo che percepiamo nelle sue parole, “Oh, siamo a casa”. Dove casa non è quella conosciuta da Raven.

   Un classico da leggere o da rileggere.




giovedì 26 novembre 2020

Sergio Grea, “Saigon, addio”

                                                                        Casa Nostra. Qui Italia

            cento sfumature di giallo

            guerra del Vietnam

Sergio Grea, “Saigon, addio”

Ed. AmazonEncore, pagg. 354, Euro 9,99 (4,99 formato kindle)

   Aprile 1975. Sono gli ultimi giorni di una guerra tremenda, sono gli ultimi giorni di Saigon, manca poco all’ingresso dei carri armati dei vietcong- un bagno di sangue annunciato. E Saigon cambierà nome, diventerà Ho Chi Min.

    Bob Matthews è un funzionario inglese, fa parte di una commissione formata da due vienamiti, un australiano, un canadese e un texano, per indagare su un traffico d’armi- qualcuno sta trafugando e vendendo all’esercito del Nord le armi americane. Bob sta completando le pratiche di adozione per una bimba di otto anni, salvata dopo il massacro della sua famiglia. Era stato un soldato di nome Daniel a trovare la piccola e a portarla in un ospedale- l’avevano chiamata Danielle in attesa che lei parlasse e dicesse il suo nome. E il nome Danielle le era rimasto, era guarita con le attenzioni che Bob le aveva prodigato. Una cosa è certa: adesso che Saigon sarà evacuata, Bob porterà Danielle in salvo con sé.

   Il destino deciderà altrimenti. O forse non si dovrebbe chiamare ‘destino’ chi ha interesse a togliere di mezzo Bob? Comunque una bimba disperata che stringe al petto una cartella con il suo orsetto sale sull’elicottero che la porta via da Saigon.

    Saltiamo alla parte finale di questo romanzo che si è aperto con pagine ricche di tensione e molto belle che descrivono la tragedia di un popolo spaccato e manipolato da forze diverse e ha poi seguito il fiorire di Danielle di cui si è preso cura l’amico australiano di Bob. Danielle, studentessa brillante, è ora una consulente finanziaria. E questa volta è proprio il destino che la riporta in Vietnam per un incarico di lavoro.

   

L’abilità dello scrittore è nello svelarci a poco a poco l’identità del ‘traditore’ che si è arricchito nel 1975 mentre, nello stesso tempo, ci illustra i cambiamenti (o piuttosto l’immobilità?) del Vietnam dopo le grandi speranze del dopo guerra per bocca di Danielle, che deve analizzare la situazione del paese per giudicare l’opportunità dei massicci investimenti programmati dal suo cliente giapponese. C’è un’atmosfera di un pericolo ben diverso da quello dell’inizio, quando si sapeva da dove veniva la minaccia e il rischio di morte. C’è la sensazione che si debba fronteggiare un Male contro cui sarà difficile combattere. Per scoprire anche che è un Male dai molti tentacoli e non è sufficiente troncarne uno.

    I nemici di Bob sarebbero stati rovinati, se lui avesse denunciato quello che sospettava. E, se la caduta di questi nemici avrebbe avuto gravi conseguenze ‘allora’, sarebbe peggio adesso, perché cadrebbero da molto più in alto. E nessuno può credere che Bob, consapevole del peso della sua scoperta, così preciso e determinato, non avesse messo per iscritto la sua denuncia. Ma dove erano queste carte, che non erano state trovate nella cartella che Bob aveva con sé quando cercava rifugio nell’ambasciata americana? Danielle deve sapere qualcosa, anche se nega. Danielle è in pericolo.


    Il colpo di scena che ci attende è magistrale. E ci fa perfino male. Perché il tradimento è la colpa peggiore- Dante riserba il IX e ultimo girone dell’Inferno per i traditori.

    Il romanzo ha, a tratti, una certa rigidità narrativa, un certo schematismo nella rappresentazione dei personaggi, ma è una lettura coinvolgente e appassionante. Il titolo, “Saigon, addio”, riecheggia nella nostra mente- è il saluto muto della bambina Danielle che parte verso l’ignoto, è l’addio di una città a se stessa che cambia nome e identità, è l’addio forse definitivo di Danielle adulta di nuovo in fuga, è l’addio, infine, a tutto il passato.



lunedì 23 novembre 2020

Ghila Piattelli, “Resta ancora un po’” ed. 2020

                                                          Voci da mondi diversi. Israele

         love story

Ghila Piattelli, “Resta ancora un po’”

Ed. Giuntina, pagg. 204, Euro 15,00

    Resta ancora un po’- quante volte sentiamo queste parole, con quella loro richiesta di una presenza, con quella confessione nascosta di amore, nelle pagine del romanzo di Ghila Piattelli? È come un legame tra tutte le storie, tra il passato, quando a dirle ad Ahuva è stato Yonatan, il personaggio assente più presente di ogni altro, ed un tempo più recente quando è Ahuva a dirle ad Erez, amico suo e di Yonatan, il custode della memoria del ragazzo che è morto troppo presto, a vent’anni, il terzo giorno della guerra del Kippur, e poi ancora, come un passa-parola da un personaggio all’altro. Finché siamo noi lettori che vorremmo dire resta ancora un po’ a quella protagonista straordinaria che è nonna Giuditta, che sostituisce le madeleines di Proust con le lasagne, quando deve spiegarne il significato al nipotino Yoni.

    Da quando Yoni era piccolo la nonna gli ripeteva, “Se avessi potuto scegliere tra tutti i bambini del mondo sempre, ovunque e comunque, io avrei scelto te”, e allora Yoni era cresciuto con la ‘sindrome del popolo eletto’ ed era più che naturale che la nonna avesse chiesto proprio a lui di accompagnarla a visitare i cimiteri di Israele per scegliere la sua ultima dimora.

   Con una battuta macabra (soprattutto di questi tempi) potremmo dire che i cimiteri vanno di moda nei romanzi. Dimenticatevi subito qualunque altro libro abbiate letto che vi abbia portato fra tombe fiorite e vialetti curati, perché l’unico punto di somiglianza può essere lo stretto legame tra morte e vita, il messaggio che i morti non devono essere dimenticati ma neppure devono aggirarsi come fantasmi in mezzo a noi. Giuditta, Ahuva, Yoni (quando il rabbino lo chiamerà con il suo vero nome per intero, Yoni non si riconoscerà, perchè Yonatan era l’altro, figura idealizzata e per sempre giovane), Erez, e poi il marito di Ahuva, le due sorelle di Yoni, la sua fidanzatina, l’amico con cui Yoni condivide l’alloggio, sono tutti personaggi indimenticabili. Per il ruolo che hanno nel racconto, per quelle storie che vengono alla luce a poco a poco, per i sentimenti complessi e intrecciati che li legano.

   Giuditta e Yonatan sono il fulcro del romanzo- l’anziana signora che nella sua eleganza ha qualcosa della Regina Elisabetta (per Yoni andare a pranzo dalla nonna è come andare a pranzo a Buckingham Palace), che è arrivata, in allegria e stile, all’ultima tappa della sua vita, e il giovane che non è mai andato oltre la prima tappa della vita, che è stato per quarant’anni ‘un fantasma conservato sottovuoto’, nelle parole di Yoni. All’inizio del romanzo la nonna Giuditta conduce Yoni al cimitero militare dove è sepolto il suo omonimo insieme a centinaia di altri giovani (‘sembra di stare in un ostello della gioventù’, dice la nonna) ed è come se passasse il testimone, perché alla fine sarà Yoni ad accompagnare sua madre Ahuva alla tomba del ragazzo che lei ha continuato ad amare tutta la vita.

Questa è solo una delle scene o delle situazioni che- ce ne rendiamo conto a poco a poco- hanno il loro contrappunto a distanza di tempo. Tre amici nel passato, tre amici nel presente, fantasia di fuga da un matrimonio nel passato ed un’altra nel presente, una madre (che ora è nonna) e una figlia che, in qualche maniera, hanno mancato come madri, il desiderio frustrato della sorella di Yoni di diventare madre e il rifiuto di una gravidanza dell’altra sorella.

   Le gitarelle per cimiteri di Giuditta e Yoni, che saranno poi accompagnati anche dalla fidanzatina e dall’amico di Yoni, non hanno niente di triste, sono una reinterpretazione sui generis del tipico viaggio on the road, con nonna Giuditta che ha qualcosa della stravagante zia ottuagenaria di “In viaggio con la zia” di Graham Greene- si scherza molto, si ride molto, si impara molto senza sapere di imparare. Si impara molto su come leggere dentro se stessi, soprattutto. E sono gitarelle che esaltano la vita esorcizzando la morte.

    Brillante, divertente, di una profondità leggera, un racconto che oscilla tra presente e passato, una  voce narrante in prima persona (di Yoni) che si alterna ad una narrativa in terza persona che scivola, a tratti, in una sorta di flusso di coscienza così fluido che quasi non ce ne rendiamo conto- un libro che ricorderemo con dei personaggi che non dimenticheremo.

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la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.it



domenica 22 novembre 2020

Giampaolo Simi, “I giorni del giudizio” ed. 2019

                                                                        Casa Nostra. Qui Italia

            legal thriller
     cento sfumature di giallo

Giampaolo Simi, “I giorni del giudizio”

Ed. Sellerio, pagg. 541, Euro 15,00

     Un 13 luglio.

Alle 20,17 Esther Bonarrigo, quasi quarantadue anni, pubblica una sua foto su Instagram.

Più o meno alla stessa ora Jacopo Corti, trentun anni, pubblica su Facebook un selfie che lo ritrae insieme alla fidanzata.

Quella stessa sera Esther e Jacopo verranno assassinati.

    Non vi ho anticipato nulla, è quello che si legge nel primo capitolo del romanzo “I giorni del giudizio” di Giampaolo Simi. E le prime notizie che apprendiamo, riguardo al delitto, ci arrivano dagli ospiti anziani di una casa di riposo non lontano dalla Falconaia, la splendida tenuta dei Bonarrigo. Bellissima introduzione al delitto- dicerie, voci, pettegolezzi, supposizioni (‘bella donna’, lei; ‘undici coltellate’, a lui, una sola a lei; lei non era del posto, veniva dalla Lombardia, no, dal Veneto; sono stati i soliti albanesi, tutti tagliagole; ma no, è il marito che ha scoperto lei con l’amante…), che ci giungono da una sorta di coro popolare. Proprio come sarà tutto il romanzo in cui i protagonisti sono i giudici popolari del processo in Corte d’Assise- la scena del delitto sarà quindi ‘rivisitata’ e interpretata da personaggi che non sono il solito investigatore.

   Tutti conoscono i Bonarrigo, e non solo a Lucca, non solo in Italia. Hanno una catena di ristoranti Italian Food&More sparsi in mezzo mondo. C’è il vecchio capofamiglia e poi la coppia di Daniel e Esther con due figli. Ricchi, belli, sembravano felici ma la verità non si sa mai, visto com’è finita Esther. Jacopo Corti aveva lavorato al restauro della Falconaia per un certo periodo, poi i Bonarrigo si erano rivolti ad altri, Jacopo aveva perso il posto. La sera del delitto Esther era rimasta sola, non stava bene, non si era unita agli altri che erano andati ad un concerto. Daniel, però, non era tranquillo ed era tornato a casa. Per trovare la moglie morta e Jacopo Corti ucciso con quattordici coltellate non nello stesso posto dove c’era il corpo di Esther. Nessuna altra impronta tranne quelle di Daniel.

    Un sorteggio ha deciso chi sarà chiamato a fare il giudice popolare- e sono le persone più diverse che si guardano con diffidenza, all’inizio, tutti più o meno recalcitranti. Perché proprio loro? Non hanno alcuna preparazione, riceveranno un’indennità esigua, saranno sotto gli occhi di tutti. Terenzio, ex infermiere che si fa subito conoscere perché polemizza su tutto. Iris, bibliotecaria femminista. Malcolm, con i capelli azzurri, recensore di videogiochi pieno di complessi. Ahmed, magazziniera di origine marocchina. Serena, lavoratrice precaria, senza alcuna fiducia in se stessa. Emma, la più snob, proprietaria di una boutique a Viareggio.

   “I giorni del giudizio” è un legal thriller singolare che corre veloce in un alternarsi di scene- in tribunale sentiamo la versione dei fatti nelle parole dei testimoni e degli avvocati dell’accusa e della difesa (uno dei testimoni muore ammazzato il giorno prima di presentarsi in tribunale, il principale indiziato non si presenta mai, mentre uno dei figli fa un’accorata difesa del padre, giudicando impossibile che questi abbia ucciso la madre per gelosia), osserviamo i comportamenti dell’uno e dell’altro dei giudici popolari, ascoltiamo i loro commenti, le loro riflessioni e anche le parole bisbigliate al telefono in conversazioni che è meglio nessuno senta. Poi, fuori del tribunale, abbiamo modo di conoscere meglio i sei giudici, la loro vita, i loro trascorsi, le loro debolezze.

     C’è un motivo se la dea della giustizia era spesso rappresentata bendata- perché deve garantire imparzialità per tutti. Nel caso di Daniel Bonarrigo gli interessi economici toccano troppe persone, per motivi vari ogni giudice è corruttibile- i piatti della bilancia in mano alla dea possono perdere l’equilibrio. La sentenza viene emessa, lascia molte ombre, non convince nessuno. Chi ha letto con attenzione può prevedere il colpo di scena finale, ma, questa volta, la giustizia proprio non vede nulla.

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giovedì 19 novembre 2020

Tash Aw, “Noi, i sopravvissuti” ed. 2020

                                                   Voci da mondi diversi. Malesia


Tash Aw, “Noi, i sopravvissuti”

Ed. Einaudi, trad. A. Nadotti, pagg. 304, Euro 20,00

    L’esergo del nuovo romanzo di Tash Aw ci sorprende- sono parole tratte da “Se questo è un uomo” di Primo Levi, Qui ricevemmo i primi colpi e la cosa fu così nuova e insensata che non provammo dolore, nel corpo né nell’anima. Soltanto uno stupore profondo: come si può percuotere un uomo senza collera?

Questo è il valore universale delle parole, al di là dello spazio e del tempo. Sono parole dettate dall’esperienza di un ebreo italiano nei campi di sterminio della seconda guerra mondiale, citate da uno scrittore malese che vive a Londra, per raccontarci la colpa di cui si è macchiato il suo protagonista Ah Hock, la sua vita da diseredato che non si arrende e cerca di migliorare, in un paese che è un puntino sulle carte geografiche, a una cinquantina di chilometri- anni luce di distanza- da Kuala Lumpur. Ah Hock era una persona mite, un uomo per bene, un gran lavoratore, fedele alla moglie, niente alcol, niente droga. Eppure aveva ucciso un uomo e scontato anni in prigione.

   C’è un intermediario tra il lettore e Ah Hock- il protagonista racconta la sua vita ad una giornalista che registra la sua voce. Anche la giornalista è malese, ma appartiene ad un altro mondo. Quando, alla fine, lei gli chiede il permesso di fare un romanzo della sua vita e poi lo invita ad un ricevimento per il lancio del romanzo, la distanza tra Ah Hock e le persone invitate è enorme, proprio come quella tra il suo villaggio e la capitale.

      Da ragazzo Ah Hock lavorava la terra insieme a sua madre, una striscia di terra troppo vicina al mare, alluvionata di frequente. Ah Hock non si tirava indietro quando c’era da lavorare, era intelligente, era riuscito a conquistare la fiducia del datore di lavoro quando aveva trovato impiego in un grande vivaio di pesci, aveva apportato migliorie aumentando le vasche e quindi il numero dei pesci e le vendite. Piccoli passi avanti segnano l’ascesa di Ah Hock- il matrimonio, una prima casa molto piccola e poi una seconda casa più grande. Senza mai strafare, senza esigere troppo.

      C’è una presenza negativa, nella vita di Ah Hock. Un compagno di giochi di infanzia, una di quelle persone da cui stare alla larga. E per fortuna ad un certo punto scompare. Per sfortuna, poi, riappare, quando Ah Hock si è già reso conto di non essere più in fondo alla scala sociale, altri hanno preso il suo posto- i lavoratori che impiega nel vivaio sono tutti immigrati, bangladesi, rohingya dal Myanmar, indonesiani. Sono dei disperati, clandestini, affamati, spesso ammalati. E con orrore Ah Hock scopre che sono dei ‘carichi’ di merce umana per chi- come il suo vecchio amico- lavora in questo settore.

   La tragedia finale è preparata da un altro dramma- una malattia (il colera?) fa strage dei lavoranti nei vivai. Peggio ancora. Il batterio infetta le acque, un tappeto di pesci morti galleggia in superficie. È la rovina per Ah Hock. Forse ce la può ancora fare, se riesce a trovare dei lavoranti sostituti. A questo punto non gli interessa più alcuna norma etica e ricorre al mercante di uomini.

     Quanto pesa la colpa di Ah Hock? Seguendo il percorso della sua vita, abbiamo la sensazione di scendere nei gironi di un inferno dantesco, sappiamo- e non solo perché Ah Hock ce lo dice all’inizio- che ogni suo sforzo per sollevarsi sarà inutile, che tutto finirà male. È come un destino segnato, per lui, per chi, come lui, è nato in un certo luogo e in un certo ambiente. Che non sono gli stessi della donna che si appropria della vita di Ah Hock per farne un romanzo.

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martedì 17 novembre 2020

Journal Kyaw Ma Ma Lay, “La sposa birmana” ed. 2020

                                              Voci da mondi diversi. Myanmar

         love story

Journal Kyaw Ma Ma Lay, “La sposa birmana”

Ed. ObarraO, trad. G. Valent, pagg. 240, Euro 16,00

 

   Nel giornale The Journal Kyaw che aveva fondato con il marito, Ma Ma Lay firmava i suoi articoli e racconti con il nome Journal Kyaw Ma Ma Lay- nata nel 1917 e morta nel 1982, fu una delle scrittrici più famose della Birmania (solo nel 1989 il paese cambiò nome e diventò Myanmar) e forse l’unica ad essere tradotta in altre lingue.

   “La sposa birmana” è il titolo del suo romanzo più noto appena ripubblicato dalla casa editrice ObarraO- in francese il titolo è “La mal aimée” e in inglese “Not out of hate”, che forse colgono meglio il significato della vicenda di cui la deliziosa e giovanissima Wai Wai è la protagonista. Perché Wai Wai si sposa per amore e, se il suo destino è drammaticamente infelice, non è perché il marito non la ricambia. Tutt’altro. U Saw Han la ama ‘male’, la fa soffrire non perché la odia ma perché la ama troppo, egoisticamente troppo.


    Wai Wai vive con il padre, un commerciante. Era una bambina quando la madre si era ritirata in un monastero per diventare monaca buddhista. La sorella maggiore ha sposato un medico e vive a Rangoon, l’odierna Yangon, pure il fratello è sposato ed è un attivista politico- è un thakin che si batte per l’indipendenza della Birmania dal giogo britannico (Aung San, padre del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, prese parte al movimento dei thakin prima di fondare il Partito Comunista birmano). Sono dettagli importanti per capire perché “Una sposa birmana” non sia una banale storia d’amore di un banale romanzetto rosa.


    Quando U Saw Han incontra Wai Wai, è un colpo di fulmine per entrambi. Sono due mondi diversi che si attraggono. E alla diciassettenne Wai Wai quello a cui appartiene lui, funzionario di una compagnia inglese che ha adottato usi e costumi dei colonizzatori, sembra meraviglioso. Le piace tutto di lui- l’arredo occidentale della sua casa, il suo portamento e i suoi abiti, l’etichetta con cui viene servito il tè in casa sua dove ci si siede sulle sedie e si usano le posate, le piace perfino che non ci si debba levare le scarpe per entrare in casa. A lui piace la sua bellezza delicata, il suo candore di fanciulla, l’amore e la sollecitudine che ha per il padre.

    Succederà quello che deve succedere, quello che temevano il padre, la sorella e il fratello. Il rapporto tra U Saw Han e Wai Wai diventa come quello tra Gran Bretagna e Birmania- non può esserci un incontro ed uno scambio come tra pari, quando uno dei due prevarica e impone le sue scelte. Per il bene dell’altro- è così che sostiene il più forte, il vincente. Per la salute di Wai Wai, che potrebbe venire contagiata dal padre che ha la tubercolosi. Per esportare la civiltà in un paese arretrato- è la giustificazione dei ‘padroni’ inglesi (il movimento ribelle si appropria della parola thakin, padrone, per sottolineare che la Birmania è dei birmani).    


Se la coppia Wai Wai/U Saw Han (la farfalla sotto vetro e il suo carceriere) è al centro della trama con le limitazioni che lui gradualmente le impone, ci sono tuttavia gli altri personaggi, tutti con un ruolo importante, che ci fanno accantonare l’idea che questo sia un romanzo ‘per sole donne’. La politica entra nel libro con il fratello thakin di Wai Wai che è, sotto ogni aspetto, l’esatto contrario di U Saw Han; il buddhismo con la madre di Wai Wai (sospendiamo il giudizio su questa donna che può essere considerata egoista oppure un’anticipatrice del femminismo nel rivendicare il suo diritto ad una scelta di spiritualità); la medicina con il confronto tra il dottore ‘moderno’ a cui va la fiducia di U Saw Han e lo zio che propone cure naturali (è liquidato come un ciarlatano: la stessa Ma Ma Lay studiò medicina birmana per quindici anni ed aprì una clinica a Yangon). La coppia formata dalla sorella di Wai Wai e il marito, infine, sono l’esempio di quello che un matrimonio armonico dovrebbe essere, nel rispetto e nell’accrescimento reciproco, nell’amore che è generosità e non egoismo.

   C’è molto su cui riflettere in un romanzo che pone il quesito dell’identità personale e nazionale, scritto da una grande donna che visse anche l’esperienza del carcere dal 1963 al 1967 in quanto ‘nemico del popolo’ perché sospettata di simpatie comuniste.  

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domenica 15 novembre 2020

Christopher Bollen, “Un crimine bellissimo” ed. 2020

                                         Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America

cento sfumature di giallo

Christopher Bollen, “Un crimine bellissimo”

Ed. Bollati Boringhieri, trad. M. Faimali, pagg. 400, Euro 19,00

    Scena iniziale. Un uomo, con una camicia rosa di sartoria intrisa di sangue, giace riverso a terra. Ci sembra di capire che il suo assassino lo guardi dall’alto. Siamo in quella che ‘è senza dubbio la città più bella del mondo’, una città che ‘affonda da secoli’. Non può essere che Venezia. “Ma tutto questo non è ancora successo”.

   Riavvolgiamo il cronometro, scena seconda, il vero inizio  del romanzo di Christopher Bollen la cui trama si arricchirà di molti flashback ambientati a New York. Nick Brink è sull’aereo che sta atterrando a Venezia. È decisamente un bel giovane, di quelli che attirano gli sguardi. Eppure una serie di dettagli ci rivelano che nasconde qualcosa, che ha un piano in mente, progetti non limpidi per il futuro- ha una valigia enorme, come se si fosse portato dietro tutti i suoi beni, vestiti nuovi in cui si sente a disagio, non deve avere soldi perché dapprima pensa di prendere l’autobus (più economico) per arrivare in città, poi si aggrega forzatamente ad una famiglia americana a cui scroccherà il passaggio in battello fino a Ca’ Rezzonico. Incontrerà un amico, Clay, in realtà il suo fidanzato, ma dovranno accuratamente evitarsi nei giorni seguenti- che cosa stanno complottando?


    Andiamo ancora più indietro nel tempo, all’anno precedente, a New York, quando Nick conosce Clay, un affascinante giovane di colore, in occasione della commemorazione funebre di Freddy van der Haar, discendente di una delle più antiche famiglie olandesi di New York. Il ricchissimo van der Haar era morto coperto di debiti, Clay aveva venduto quasi tutto quello che valeva la pena di essere venduto degli oggetti di collezione di Freddy e sapeva bene quali fossero le voci che giravano su di lui. Era diventato l’amichetto dello stravagante Freddy per ingraziarselo e diventare il suo erede? Sì, erano quattro anni che Freddy agonizzava, ma- lo aveva ucciso lui, Clay? Fatto sta che Nick lascia il fidanzato antiquario che gli ha insegnato una spolverata di nozioni sugli argenti antichi ed inizia una relazione appassionata con Clay: lo aiuterà a vendere gli ultimi pezzi d’argento rimasti di Freddy, belli ma falsi. L’acquirente giusto è un altro ricchissimo americano, una vecchia conoscenza di Clay e anche di Freddy, che vive a Venezia nella metà più bella di Palazzo Contarini che ha acquistato- guarda un po’- dallo stesso Freddy. Nick dovrà riuscire ad incontrarlo, dovrà spacciarsi per esperto nell’autenticare argenti e sollecitarne le voglie avide di possesso dei preziosi oggetti dell’ex padrone dell’altra metà di palazzo Contarini.


    La trama scorre velocissima. Sappiamo che finirà con un morto, ma non è quella la tensione che ci trascina. Perché questa è la storia di una truffa ed è divertente seguire i passi sia dei truffatori sia di chi si lascia truffare pensando di essere il più intelligente. Il primo obiettivo di Clay era quello di guadagnare abbastanza per ripagare il debito che aveva con suo padre e il finanziamento avuto dall’università. Ma i soldi fanno gola e perché non cercare di spennare di più il ricco americano che gongola all’idea di possedere l’intero palazzo? E ad un certo punto i soldi serviranno a Nick e Clay per vivere in un posto in cui non ci sia l’estradizione per l’Italia…


   “Un crimine bellissimo” è molto cinematografico, lo vediamo perfetto per un adattamento per il grande schermo. I temi della sessualità, dell’amore, delle classi sociali, della razza, sono trattati in maniera forse un poco superficiale ma brillante e sensibile. E poi c’è l’incanto di Venezia. Se non ci fossero altri motivi per leggere questo romanzo, resterebbe quello di aggirarsi per Venezia nelle sue pagine, di guardare Venezia come il grande dono che è, attraverso gli occhi di uno straniero per cui ogni scorcio, ogni facciata merlettata, ogni riflesso sull’acqua è un miracolo.

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venerdì 13 novembre 2020

Santiago H. Amigorena, “Il ghetto interiore” ed. 2020

                                                  Voci da mondi diversi. Diaspora ebraica

               Shoah

Santiago H. Amigorena, “Il ghetto interiore”

Ed. Neri Pozza, trad. M. Botto, pagg.138, Euro 17,00

 

   Nell’aprile del 1928 Vicente Rosenberg arriva in Argentina dalla Polonia. Il suo cognome dice tutto, come gli altri cognomi poetici che gli ebrei sono stati costretti a prendere, al posto dei patronimici che avevano sempre avuto.

    Vicente è giovane, ben contento di essersi lasciato tutti i legami alle spalle- la famiglia, la madre assillante con il suo affetto, Chelm dove aveva passato l’infanzia, Varsavia dove si erano trasferiti, gli ebrei con i cappotti neri, la lingua yiddish, la sua esperienza nell’esercito. Vicente è pronto a tuffarsi nella vita di Buenos Aires- dapprima scrive lettere a casa, poi non risponde neppure più alla madre che sollecita notizie. Vicente si innamora, si sposa, ha tre bambini. Il padre della moglie Rosita lo aiuta ad aprire un negozio di mobili.

    Se gli venisse chiesto chi è, Vicente non avrebbe dubbi. È argentino, proprio come prima, quando era arruolato nell’esercito polacco, lui era un polacco. Che fosse anche ebreo, neppure gli passava per la mente. Che cosa ci fa definire chi siamo? Il paese dove viviamo? La comunità a cui apparteniamo? La lingua che parliamo? La religione che professiamo?

                                           16 novembre 1940

    È soltanto quando scoppia la guerra che Vicente si pone il problema della sua identità. Che ripensa a sua madre. Che si rimprovera di non aver mai insistito che lo raggiungesse in Argentina. Che riprende a scriverle, attendendo notizie con un’ansia che lo divora. I giornali dall’Europa arrivano con ritardo. Le lettere, poi, con ritardo ancora maggiore. Lettere che parlano degli ebrei chiusi nel ghetto. Ammassati nel ghetto. Affamati nel ghetto. L’idea che sua madre abbia fame e freddo sconvolge Vicente. Non lo lascia dormire. Ha il sogno ricorrente di un muro che lo rinserra.

    Vicente si chiude in un mutismo che lo isola da tutti. Non parla più con Rosita, non fa una carezza ai bambini. Ha preso a giocare d’azzardo. E a perdere al gioco. Come volesse distruggersi. Riprende vita quando si viene a sapere della rivolta nel ghetto. È possibile che…? Sarà ancora viva sua madre? La speranza si spegne presto.

                                              la rivolta del ghetto di Varsavia

    Mentre in Europa si muore in base alla legge che è ebreo chi ha almeno tre nonni di ascendenza ebraica, Vicente si vergogna di aver ammirato i tedeschi, di aver servito nell’esercito polacco, e la risposta al quesito sulla sua identità non conosce dubbi. Ritorna ad essere il Wincenty figlio di sua madre, ebreo. E se è un traditore, se ha abbandonato la famiglia in Polonia senza girarsi indietro, se non condivide con loro l’esiguo spazio del ghetto, lui, però, il ghetto se lo porta dentro, è quel muro che lo soffoca negli incubi, che diventa la sua pelle. È stato questo il maggior crimine dei nazisti, arrogarsi il diritto di definire chi uno sia privandolo di ogni libertà. Anche di quella di vivere.

      Santiago Amigorena, sceneggiatore, produttore cinematografico, regista, attore e scrittore argentino che attualmente vive in Francia, ci racconta la storia dei suoi nonni- Mi piace pensare che Vicente e Rosita vivono in me, e che vivranno sempre quando io stesso non vivrò più- che vivranno nel ricordo dei miei figli che non li hanno mai conosciuti, e in queste parole…

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Domani, sabato 14 novembre, Santiago Amigorena sarà ospite all'evento di Bookcity "Il ghetto interiore tra parole e silenzio", alle ore 15,30 sul profilo fb Neri Pozza. 



martedì 10 novembre 2020

Jón Kalman Stefánsson, “Crepitio di stelle” ed. 2020

                                                      vento del Nord

                  love story

Jón Kalman Stefánsson, “Crepitio di stelle”

Ed. Iperborea, trad. Silvia Cosimini, pagg. 230, Euro 17,00

     Come si riesce a raccontare di quattro generazioni di uomini e donne della propria famiglia? Come si riesce a colmare l’abisso del tempo, a ricostruire ricordi sfilacciati? Jón Kalman Stefánsson ricorre a due espedienti narrativi per scrivere della sua famiglia- racconta la storia delle loro vite sullo sfondo grandioso della terra in cui abitano, l’Islanda che è l’elemento unificatore, e si serve di due ‘madeleines’ per seguire l’onda dei ricordi. Non hanno niente di dolce, le madeleines di un romanzo islandese, non possono che essere un sasso e una conchiglia, la terra avara e il mare che compensa, che è tutto in Islanda, porta la vita con una ricca pesca e la morte con una burrasca che sorprende chi è al largo.

    Il bisnonno aveva paura del mare. In una delle tante fasi della sua vita, quando aveva portato tutta la famiglia in una fattoria isolata nella penisola di Snæfellsness, aveva deciso che sarebbe dovuto andare a pescare per procurare del cibo. Come se fosse stato facile per uno senza esperienza e che non sapeva nuotare. Dopo una prima esperienza che lo aveva terrorizzato, il bisnonno aveva escogitato un sistema- agganciava a terra la poppa dell’imbarcazione con una corda lunghissima che, srotolandosi, gli permetteva di andare al largo sentendosi abbastanza sicuro.


    Sono tante le storie da raccontare sul bisnonno che aveva avuto un colpo di fulmine e aveva sposato una ragazza  diciassettenne- una ventina di anni meno di lui. Era un beone, il bisnonno. Era incapace di stare lontano dall’alcol e dalle donne, per quanto si proclamasse innamorato della bisnonna. E, quando era ubriaco perso, era capace di fare cose follemente stupide, come barattare un’automobile per una mucca. Una volta la bisnonna aveva messo alle strette una delle donne con cui il marito la tradiva- la donna le aveva scagliato contro una maledizione e poi si era uccisa. E la bisnonna? Giovane e bella, era stata sempre fedele all’uomo che la lasciava spesso sola ricadendo nel suo vizio? I capelli rossi del quarto figlio sono rivelatori.

    D’altro canto il bambino (lo scrittore quarantenne di adesso) è testimone della storia d’amore del padre che, nel racconto, si alterna a quella del bisnonno. Dell’inizio, dell’incontro del padre con la ragazza fantasiosa e irrequieta, sa quello che gli hanno raccontato. La mamma era morta giovane, al bambino è rimasta la compagnia dei soldatini con cui giocare, al padre quella di una donna che sorprende il bambino uscendo dalla stanza da letto del padre, una mattina. Una donna che non parla, che si chiamerà ‘matrigna’, che cucina pietanze che non piacciono né al padre né al bambino, che mangia pinne di foca.


    Ci sono dei personaggi secondari che popolano i ricordi dello scrittore- il panettiere, l’amico, il bullo che lo tormenta velando di gentilezza parole tremende che risvegliano la nostalgia del bambino per la mamma, i parenti della matrigna che vengono in visita e incutono soggezione.

    E poi, l’Islanda. I ghiacciai imponenti, le brughiere spoglie, le rocce, il mare, il freddo paralizzante (è quello che invita a bere così tanto?), i lunghi giorni chiari d’estate e le altrettanto lunghe ore buie d’inverno. Vivere in Islanda ti tempra il carattere. O ti stronca. E chiudersi nella mente, giocare con le parole, trasformare le immagini in poesia, può offrire un sollievo in un mondo in cui si capisce perché il solstizio d’estate sia salutato con tanto tripudio.

    È la poesia che pervade la narrazione di Jón Kalman Stefánsson, che tesse la tela dei ricordi- avrei avuto bisogno della lingua intera, per raccontare di loro come si deve.

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domenica 8 novembre 2020

Maja Lunde, “Gli ultimi della steppa” ed. 2020

                                                                          vento del Nord

              distopia   warning novel

Maja Lunde, “Gli ultimi della steppa”

Ed. Marsilio, trad. Giovanna Paterniti, pagg. 504, Euro 20,00

   1882. San Pietroburgo. L’appassionato zoologo Michail Aleksandrovič riceve dalla Mongolia i resti di un cavallo selvatico, del cavallo primigenio, quello che ritroviamo nelle antiche pitture rupestri e che è stato considerato come una specie estinta. È l’inizio di un sogno- recarsi negli altopiani della Mongolia alla ricerca del mitico takhi.

    1992. Mongolia. Karin, veterinaria tedesca che ha iniziato ad amare i cavalli selvatici quando li ha visti, da bambina, nella tenuta di Hermann Gőring, arriva nella riserva di Hustajn in Mongolia per realizzare un altro sogno- riportare nel loro ambiente alcuni esemplari di takhi per attuare un progetto straordinario di salvaguardia naturale. Ma riusciranno i cavalli ad ambientarsi e a sopravvivere, abituati ad essere curati e protetti dagli uomini?

   2064. Quello che era il parco faunistico di Heiane, in Norvegia. Il vecchio mondo, quello in cui viviamo noi lettori, non c’è più. Questo è il mondo che è passato attraverso “La storia delle api” e “Il libro dell’acqua”, i due romanzi precedenti di quella che sarà la quadrilogia di Maja Lunde.

Eva e la figlia quattordicenne Isa vivono- o sopravvivono- in una fattoria isolata, razionando il poco cibo che riescono a procurarsi, temendo i furti di ‘viandanti’ (i disperati in fuga dalla siccità del sud dell’Europa) e di un paio di vicini prepotenti e violenti. Hanno ancora alcune bestie, un paio di mucche che producono latte, alcune capre, delle galline. Soprattutto hanno due takhi- Eva farebbe qualunque cosa per mantenere in vita i cavalli selvatici, gli ultimi rimasti.

    Non è in questo ordine che si dipanano i tre filoni narrativi del romanzo di Maja Lunde, anzi, il primo, con cui il libro inizia, è quello del distopico futuro ormai alle porte, è quello da cui la scrittrice vuole metterci in guardia (come ha già fatto nei due precedenti romanzi), assumendo il ruolo che in qualche maniera dobbiamo riconoscere alla letteratura- di servirci da guida, di invitarci alla riflessione, di essere il nostro terzo occhio sul mondo che ci circonda. Un mondo che corre verso il baratro. La storia di Eva ed Isa, della loro lotta quotidiana per procurarsi l’essenziale, ha su di noi un impatto fortissimo. Avvertiamo uno scoramento, siamo tentati di dire a noi stessi che no, non succederà così. Dentro di noi, però, con l’esperienza di quanto stiamo vivendo in questo 2020, sappiamo che è uno scenario per niente improbabile.

   La storia di Eva ne contiene altre due. Una è nelle lettere che Isa scrive al ragazzo ‘della porta accanto’ che è andato via con la famiglia, sempre verso Nord, in cerca di non si sa che cosa si possa trovare. Isa e il suo primo amore che non ha avuto neppure il tempo di sbocciare, quasi che anche questo- l’incanto dell’amore adolescenziale- sia qualcosa che sarà precluso in futuro.

   L’altra storia è quella di Louise, la viandante a cui Eva offre ospitalità. Chi ha letto gli altri libri di Maja Lunde ricorda di certo la bimba Lou, fuggita con il padre da una terra spaccata dalla siccità nel Sud della Francia. La sua ricomparsa è un modo per allacciare i libri, per riaffermare una tematica comune, proprio come lo è l’aver mantenuto l’impianto narrativo dei diversi filoni. E peraltro solo una lettura superficiale può dare l’impressione che l’interesse e la salvaguardia dei takhi sia l'unico collegamento tra i tre filoni de “Gli ultimi della steppa”- altre tematiche servono da rimando da una storia all’altra.


Se la storia di Eva è un’esaltazione della solidarietà e dell’affetto tra donne, capaci di affrontare tutto quando sono insieme (anche il tremendo parto di Louise), il legame amoroso tra Michail e l’esploratore che lo accompagna nel viaggio (sfumato con pudore ottocentesco) è un’altra faccia del volto dell’amore, mentre l’anaffettività e la profonda solitudine interiore di Karin la separano dolorosamente dagli altri personaggi. Che però sono tutti legati dal comune amore per i cavalli selvatici, tratteggiati con la loro personalità e i loro comportamenti che annodano un filo che li unisce agli uomini- la nascita difficoltosa di un puledro ci emoziona come quella del maschietto di Louisa e, quando un cavallo si ammala o un altro muore, soffriamo quanto i personaggi del romanzo. Perché noi non esistiamo da soli, siamo un tutto unico- uomini, cavalli, api, la natura-, c’è un’interazione che è come una catena di cui nessun anello deve essere spezzato. Pena la fine di tutto e di tutti, un futuro che ci minaccia se non interveniamo.

     Sullo sfondo di queste storie, una Norvegia che sembra essere ‘l’ultima spiaggia’ e un’affascinante Mongolia: un libro da leggere.

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