giovedì 31 ottobre 2019

Margaret Storm Jameson, “Company parade” ed. 2019


                                     Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
           saga


Margaret Storm Jameson, “Company parade”
Ed. Fazi, trad. V. Februari, pagg. 340, Euro 18,00

     Margaret Storm Jameson ha avuto una vita lunga- è nata nel 1891 a Whitby, nel nord dell’Inghilterra, ed è morta nel 1986- ed è stata una scrittrice prolifica. La casa editrice Fazi ha appena tirato fuori dall’oblio un suo romanzo, “Company parade”, il primo di una trilogia, un piccolo classico di letteratura femminile che, rispecchiando il carattere della scrittrice, va al di là delle usuali storie di innamoramenti e matrimoni. Molto al di là. Perché Margaret Storm Jameson fu una donna straordinaria per i suoi tempi: prima donna a laurearsi in inglese all’Università di Leeds, a ricevere una borsa di studio post-laurea sempre all’università di Leeds e a diventare presidente della British Section of International PEN. Un’antesignana del femminismo, insomma.
     La protagonista di “Company parade” assomiglia alla scrittrice. Una giovane Hervey Russell arriva a Londra nel dicembre del 1918. La guerra è finita, l’armistizio è stato firmato, la città è piena di reduci, molti di loro riportano il segno delle ferite, ogni famiglia piange i suoi morti (900.000 le vittime inglesi della Grande Guerra), anche il fratello diciannovenne di Hervey è morto. Hervey è sposata, il marito svolge un lavoro impiegatizio per l’Air Force, hanno un bambino di tre anni che Hervey ha dovuto affidare ad una signora nello Yorkshire per venire a Londra a cercare un lavoro. È ambiziosa, Hervey. Ha già scritto un romanzo e ne sta scrivendo un altro. Si accontenta di un’occupazione in un’agenzia pubblicitaria anche se si sente inadeguata, del tutto priva delle idee brillanti che sono necessarie per vendere un prodotto. È anche ingenua e però integra, coerente con le sue idee. E cerca di essere onesta, con se stessa e con gli altri.

    Se il filo conduttore del romanzo è la storia di Hervey, con un marito inaffidabile che lei non rispetta e che non ama più, spinta dal desiderio di realizzare il sogno, che è un’intima necessità, di diventare scrittrice e tuttavia tormentata dai sensi di colpa per aver dovuto lasciare il suo bambino in mano ad altri, “Company parade” è tuttavia un romanzo corale, come dice il titolo. I singoli capitoli hanno nel titolo il personaggio della parata su cui punta lo sguardo della scrittrice- i due amici ‘storici’ di Hervey (uno è innamorato di lei senza speranza, l’altro ha sposato una scrittrice più anziana che lo tradisce), il marito di Hervey (la tradisce, non è capace di tenersi un lavoro, lo disprezziamo anche noi), il giornalista suo collega che ha riportato gravi ferite in guerra, la coppia di amici socialisti (ma il socialismo e il comunismo non attecchiranno mai nella borghese Inghilterra), un altro giornalista opportunista, e poi ‘gli squali’, quelli che si sono arricchiti durante la guerra e che si dispiacciono che sia finita. E allora, nelle discussioni tra gli amici, sorge il problema- si può accettare un lavoro da qualcuno che si disprezza e i cui fini sono contrari ai propri principi etici?

     È bello aggirarsi con Margaret Storm Jameson/Hervey per questa Londra ferita dell’immediato dopoguerra. A cento anni di distanza (ma è passato così tanto tempo? Hervey potrebbe essere una di noi e i suoi amici pure), nel nostro mondo del benessere e del consumismo e dello spreco fa una certa qual impressione- ed è salutare, fa riflettere- leggere dell’acquisto di un vestito per sostituire quello che si indossa da otto anni e sentirsi in colpa per non aver dato l’intera somma guadagnata all’organizzazione Save the Children, o di pasti ridotti al minimo, o di misere camere d’affitto in cui alloggia la nostra Hervey che, dopotutto, ha studiato e lavora in un ambiente intellettuale. Ed è anche rinfrescante sentire lei e i suoi amici parlare di ideali e vederli impegnati in prima persona per diffonderli.
     La narrativa non scorre veloce, non è mai eccitante, ma ha una sua pacata piacevolezza tutta britannica. Un bel romanzo fortunatamente ritrovato.

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martedì 29 ottobre 2019

Dave Eggers, “La parata” ed. 2019


                                      Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
     distopia

Dave Eggers, “La parata”
Ed. Feltrinelli, trad. F. Pacifico, pagg. 140, Euro 15,00

     “Ragione e sentimento” rivisto in versione secolo XXI- il romanzo “La parata” di Dave Eggers che si legge con il fiato in sospeso, perché è chiaro che succederà qualcosa, che non è tutto facile come appare, che succederebbe anche se non ci fosse il contrasto ragione/sentimento.
      Un paese senza nome. Uno dei tanti di quei paesi lontani in cui c’è stata una guerra civile che ha seminato distruzione. Uno dei tanti con vaste superfici di deserto. Due uomini sono incaricati da un’azienda straniera di asfaltare una strada che colleghi il Sud del paese al più ricco Nord. Sono di quei lavoratori sempre rigorosamente senza nome e senza nazionalità. Meglio così, perché non si sa mai che cosa potrebbe accadere e nessuna rivalsa o rivendicazione potrebbe quindi essere fatta. Uno dei due uomini ha alle spalle una grande esperienza, settantaquattro chilometri di strada in quattro continenti: il suo nome sarà Quattro. L’altro non ne ha nessuna: sarà Nove. Hanno dodici giorni di tempo per portare a termine la strada, in tempo per la parata di inaugurazione che è già stata organizzata. Quattro sarà alla guida dello straordinario nuovo macchinario, l’RS-80, che fa tutto da solo, anche tracciare le linee guida sull’asfalto. Il compito di Nove è di andare in avanscoperta a bordo di un quad per togliere di mezzo qualunque ostacolo dalla strada, siano oggetti, persone, animali.

      Va da sé che non ci può essere intesa tra ragione e sentimento. Quattro prova un’immediata antipatia per quel ridanciano di Nove che sembra infischiarsene di ogni ordine e norma. Quattro è la razionalità fatta persona, conosce perfettamente tutte le regole da osservare, mangia soltanto quello che ha portato con sé ed evita perfino di posare lo sguardo sulle persone del posto che inevitabilmente si avvicinano. Che intenzioni avranno? Diffidare di tutti: regola numero uno e unica. Nove è l’opposto. Sembra che sia in vacanza, eccitato dalla scoperta di un nuovo mondo. Fa delle deviazioni non autorizzate con il suo quad per andare nei villaggi, assaggia il cibo che gli offrono, beve l’acqua anche se è altamente sconsigliato, non si fa neppure scrupoli ad accettare le donne che gli si offrono- potrebbe anche offenderle a rifiutarsi, no?
Quattro è sempre più irritato con lui, pensa di lui tutto il male possibile, prosegue imperterrito nel suo lavoro senza denunciare il comportamento di Nove- finché è troppo tardi per intervenire. A questo punto c’è un ribaltamento della situazione. C’è un momento in cui Quattro, così altero e prevenuto contro quegli uomini che (diciamolo pure) considera inferiori, deve ricredersi, deve accettare il loro aiuto quando non gliene viene alcuno dai bianchi di una sperduta postazione sanitaria.
Quattro incomincia a vedere il lavoro che sta facendo con un’altra ottica, non più quella fredda di un’impresa ingegneristica ma quella umana: la strada asfaltata renderà possibile un proficuo scambio economico tra Nord e Sud, allungherà la vita di quei poveracci che finalmente riusciranno a raggiungere un ospedale nella capitale. La così importante parata diventa una meta non soltanto per soddisfare l’orgoglio di un lavoro compiuto alla perfezione, ma per un altro fine più vastamente meritevole. Il lavoro viene terminato nel tempo stabilito. Ma…
     Il romanzo di Dave Eggers è un romanzo distopico dei nostri tempi. Non è solo una mordace rappresentazione di un nuovo colonialismo, di un consolidato atteggiamento di superiorità e di condiscendenza del primo mondo nei confronti del terzo mondo, è anche una più o meno velata denuncia dell’incapacità dell’Occidente di entrare nella mentalità di altre culture (Quattro non ci prova neppure e Nove è troppo superficiale per capire) con conseguenze che non possono essere altro che tragiche.

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domenica 27 ottobre 2019

Andrea Tarabbia, “Madrigale senza suono” ed. 2019


                                                                        Casa Nostra. Qui Italia
            romanzo storico
            premio Campiello

Andrea Tarabbia, “Madrigale senza suono”
Ed. Bollati Boringhieri, pagg. 377, Euro 16,50

      Madrigale: composizione musicale o lirica, in maggior parte per 3-5 voci, originaria dell’Italia e diffusa in particolare tra Rinascimento e Barocco.
     Quante voci narranti ci sono nel romanzo “Madrigale senza suono” di Andrea Tarabbia, vincitore del premio Campiello 2019? Di certo due, ma forse se ne nasconde una terza sotto quella dominante, del nano Gioachino, servitore di fiducia del principe Carlo Gesualdo di Venosa, compositore di madrigali vissuto tra il 1566 e il 1613. Forse non è affatto il nano a scrivere la cronaca degli avvenimenti che sta leggendo, nel 1960, il grande musicista russo Igor Stravinskji costretto ad emigrare in seguito alla rivoluzione di ottobre. A più di trecento anni di distanza Stravinskji ‘rivisita’ la musica di Carlo Gesualdo, stupefatto non solo dall’armoniosità dei madrigali ma anche dalla tragedia umana che nascondono.
     Perché Carlo Gesualdo è una figura tragica. Quando muore il fratello maggiore, Carlo viene tirato fuori dal convento a cui era stato destinato e gli viene fatta sposare la cugina Maria d’Avalos- lui la ama da quando erano bambini e scopre la passione con lei. Non dura molto. Maria lo tradisce con Fabrizio Carafa, di certo più affascinante del marito. Forse Carlo Gesualdo avrebbe chiuso gli occhi, facendo finta di non vedere. Tutto, per non perdere Maria. Ma entra in gioco il senso dell’onore, non si può permettere questo oltraggio al buon nome della casata. Carlo deve uccidere i due amanti. E poi, in ogni caso, un delitto d’onore resterà impunito.
Maria d'Avalos
     Questa la storia che Stravinskji scopre negli incartamenti. Una storia vista dal basso verso l’alto in tutti i sensi- il nano Gioachino vive in una scatola di cartone, si può nascondere facilmente e osservare, spiare, ascoltare meglio. E il suo punto di vista è anche quello dei servitori, del popolo, che parteggiano per il principe offeso. E poi, da più in basso ancora, nelle segrete del castello, si sente una voce che non ha niente di umano, contrappunto bestiale alle note celestiali di Carlo, la sua coscienza nera. E’ sempre stato Gioachino a prendersi cura (si fa per dire) di lui, e indoviniamo presto chi possa essere questo infelice ridotto ad essere un animale che non sopporta neppure la luce di una torcia. Pensiamo a personaggi con una sorte simile, al “Visconte di Bragelonne”, al Sigismondo di “La vita è sogno”, mentre il romanzo di Tarabbia si arricchisce di un filone gotico.
Carlo Gesualdo
      Carlo Gesualdo si risposa. Deve. E si innamora. Non della moglie, ma di una sua dama in cui crede di rivedere Maria. E la sua musica fiorisce. Può l’arte nascere dal Male? Di certo il dolore e, sì, anche il macerarsi nella colpa sono uno spunto per l’arte.
     Igor Stravinskji legge l’incartamento. Commenta. Scambia lettere con grandi scrittori contemporanei. Chiede l’opinione di un altro studioso. Riporta che il Nobel è stato assegnato a Quasimodo. Si domanda se, piuttosto che il nano, non sia stato lo stesso principe Gesualdo a scrivere la sua autobiografia, se la voce narrante del manoscritto sia attendibile.
Fabrizio Carafa


    Anche se il filone di quello che definirei ‘il romanzo di Stravinskji’ è meno coinvolgente di quello che riguarda il principe, anche se non proviamo grande simpatia per nessuno dei personaggi, “Madrigale senza suono” è un bel libro dai molti meriti. E’ nello stesso tempo un romanzo storico che dipinge tutta un’epoca, è un libro di storia della musica, è una storia d’amore, è una tragedia con ombre goticheggianti. È del tutto insolito nella panoramica della letteratura italiana. Un premio meritato.  

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la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.it



venerdì 25 ottobre 2019

Simone Buchholz, “Uomini in gabbia” ed. 2019


                                               Voci da mondi diversi. Area germanica
                                                           cento sfumature di giallo


Simone Buchholz, “Uomini in gabbia”
Ed. Emons, trad. Franco Filice, pagg. 187, Euro 14,00

     Non ha un significato solo metaforico il titolo “Uomini in gabbia” della scrittrice tedesca Simone Buchholz. Significa proprio quello che dice: qualcuno sequestra degli uomini- dei dirigenti di un gruppo editoriale- e li lascia nudi e privi di sensi, con evidenti tracce di sevizie, rinchiusi in una gabbia chiusa con un lucchetto così grosso e antiquato che il funzionario di polizia fa fatica ad aprire con le tenaglie. Viene poi spontanea la domanda che apre uno spiraglio sull’altro significato, quello che il colpevole vuol comunicare, e che contiene in sé la risposta: a chi sono destinate le gabbie, in genere? A delle bestie. L’equazione è: questi uomini sono delle bestie. Chi vuol intendere intenda.
     Siamo ad Amburgo. Piove. La scena iniziale è quella di una ragazza che giace sull’asfalto, la sua bicicletta a qualche metro di distanza da lei. Chi l’ha investita è scappato senza prestarle soccorso. La procuratrice Chastity Riley si trova lì per caso, stava andando in un pub. E il suo pensiero è ancora con la ragazza morta quando- e ormai è a casa- le telefona la procuratrice capo chiedendole di andare verso il porto, qualcuno ha lasciato un uomo in gabbia davanti all’ingresso principale dell’edificio di un grosso gruppo editoriale. Ecco i due filoni della trama che sembrerebbero non avere nulla in comune. L’editoria è in crisi, c’è una continua riduzione del numero dei redattori- c’è forse qualcuno che si vuol vendicare su chi, dall’alto, approva i tagli delle spese? Perché un secondo uomo viene ritrovato in gabbia, un altro dirigente. Non c’è due senza tre…

     “Uomini in gabbia” è il terzo romanzo che ha per protagonista Chastity Riley, figlia di un ufficiale americano che è sempre stato considerato un ‘occupante’ in Germania dove era di stanza. E isolato in quanto tale. Lei, Chastity, è un tipo singolare. Quarantacinque anni, capelli lunghi castano rossi, niente trucco, un legame ormai stanco con un uomo che gestisce un pub. Disincantata, cinica (chi non lo sarebbe con un lavoro così?), Chastity beve decisamente troppo. Eppure, in questa narrativa in prima persona che lascia spazio all’affiorare di pensieri intimi e sentimenti non detti, percepiamo anche una certa fragilità di Chastity sotto la scorza da ‘dura’, come una nostalgia o un rimpianto per qualcosa che la vita non le ha dato.
Il nuovo collega Ivo Stepanovic, incaricato del caso degli uomini in gabbia insieme a lei, l’uomo ruvido che si sente condannato a vivere nel presente, senza possibilità di trovare sollievo né nel passato né nel futuro, le offrirà forse la prospettiva di un cambiamento di vita? Intanto Chastity impara a conoscerlo meglio- con qualche titubanza- quando l’inchiesta li porta in Baviera, a scavare nel passato delle tre vittime che erano stati compagni di stanza in collegio. ‘La Toscana, un corno’, commenta Chastity quando legge un cartello che reclamizza l’area della cittadina di Biesendorf come la Toscana della Franconia. Dolci colline come in Toscana ma niente allegria, niente solarità, persiane chiuse, nessuno in giro.  Quanto al collegio, poi, pur se rimodernato, mantiene l’aria da scuola degli orrori.

      Non ci sono grossi sussulti, nello svolgimento della trama. Ci viene detto presto dove dobbiamo indirizzare lo sguardo per scoprire il colpevole. Ma: chi è il colpevole e chi è la vittima?
     Con uno stile scattante e brusco che rispecchia perfettamente la personalità dell’io narrante, senza lungaggini e appesantimenti, “Uomini in gabbia” tocca più di una problematica- disoccupazione e bullismo, la scuola che non educa, genitori assenti anche quando sono presenti, cecità selettiva verso la realtà che ci circonda. Con Amburgo sullo sfondo, città di pioggia con squarci di sole, il buio illuminato dai quartieri a luci rosse.

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mercoledì 23 ottobre 2019

Tayari Jones, “Un matrimonio americano”


                                        Voci da mondi diversi.Stati Uniti d'America
                                                              love story


Tayari Jones, “Un matrimonio americano”
Ed. Neri Pozza, trad. A, Arduini, pagg. 364, Euro 18,00

    Un matrimonio. Americano. La scrittrice di questo romanzo vincitore del Women’s Prize for Fiction 2019 lo ha intitolato semplicemente “Un matrimonio americano”: questa è, dunque, la storia di un matrimonio e potrebbe essere la storia di qualunque matrimonio- l’amore, la passione, i sogni di un futuro insieme, un trauma, un allontanamento, il disamore- se non ci fosse l’aggiunta di quel ‘americano’. E dovremmo precisare anche il non detto ‘nero’, perché Roy e Celestial sono due afroamericani e, se Roy fosse stato bianco, le cose sarebbero andate diversamente. E’ una maniera sottile, da parte di Tayari Jones, per farci intendere che leggeremo di più di quanto sembra.
    Atlanta. Roy e Celestial sono sposati da un anno e mezzo. Hanno entrambi frequentato l’università (i genitori di Roy hanno fatto grandi sacrifici per far studiare l’unico figlio), Roy è un manager in carriera, Celestial è un’artista che ha trovato uno spazio tutto suo: confeziona bambole. Programmano di avere un bambino, sognano di aprire un negozio (si chiamerà Poupée, bambola in francese) dove Celestial metterà in vendita le sue bambole. Litigano anche, come tutte le coppie. La parola magica per interrompere il litigio, per darsi un ‘time out’ come si fa con i bambini, è ‘17 novembre’, la data del loro primo appuntamento.

     Il punto di rottura. Roy e Celestial sono andati in Louisiana a trovare i genitori di Roy. Preferiscono dormire in un hotel piuttosto che a casa con Big Roy e Olive. Uno sciocco litigio. ‘17 novembre’: nel breve intervallo, contando i minuti, Roy farà un incontro che cambierà la sua vita. Tutto per essere gentile nei confronti di una donna più anziana di sua madre. Più tardi la polizia sfonderà la porta della loro camera: Roy è accusato di aver stuprato la donna che ha aiutato.
     Il processo. Dodici anni di carcere. Roy piange come un bambino.
     Che cosa succede in un matrimonio, che sia americano o no, quando il marito è chiuso in prigione e il tempo insieme è quello concesso dal regolamento a debita distanza di sicurezza? Succede che la vita va avanti soltanto per uno dei due, quello che è fuori, naturalmente. E l’altro tira avanti volendo credere, sperando contro ogni speranza, che ritroverà il suo piccolo mondo immutato, quando tornerà in libertà.
     La narrativa, iniziata in terza persona, ora si frammenta facendoci ascoltare tre voci diverse attraverso le lettere- quella di Roy, quella di Celestial e quella di Andre, il miglior amico di Roy e cresciuto insieme a Celestial perché sono vicini di casa.
Quello di Roy e Celestial era un matrimonio come tanti. Dopotutto non esiste nella realtà un matrimonio senza dissidi, senza piccole crepe. Lui le aveva confessato qualche tradimento, gli era caduto di tasca un suo biglietto da visita con un numero di telefono scritto sul retro- le giustificazioni sono quelle di tutti i mariti, ‘ma amo solo te’. C’erano anche cose che l’uno e l’altra avevano taciuto. E poi, come Celestial ripete spesso, erano stati sposati solo per un anno e mezzo. Ad un certo punto (molto presto) gli anni vissuti lontano erano diventati di più di quelli passati insieme.

     Poi, finalmente, l’avvocato di Roy (amico della famiglia di Celestial) riesce a farlo rilasciare dopo cinque anni di carcere. Roy viene riconosciuto innocente. A che serve? Qualcuno può dargli indietro i cinque anni non vissuti? Può cancellare la dura esperienza della prigione? Può prolungare la vita ad Olive così che Roy possa andare al suo funerale ed essere lui a portare a spalle la bara di sua madre invece di affidare l’incarico ad Andre?
     Il romanzo di Tayari Jones si legge di un fiato. Possiamo simpatizzare di più con uno o l’altro dei personaggi, ammiriamo incondizionatamente Big Roy, splendida figura di padre nella sua modestia, ci chiediamo se avremmo voluto un finale diverso e ci rendiamo conto di aver letto un libro in cui si parla di una coppia, sì, ma di una coppia nera. E che, nonostante tutto, nonostante la parità raggiunta, nonostante i successi, nonostante Barak Obama, c’è ancora una discriminazione in America.

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sabato 19 ottobre 2019

Youssef Fadel, “Ogni volta che prendo il volo” ed. 2019


                                                           Voci da mondi diversi. Marocco
      la Storia nel romanzo

Youssef Fadel, “Ogni volta che prendo il volo”
Ed. Brioschi, trad. C. Dozio, pagg. 346, Euro 18,00

     Anche il Marocco ha conosciuto i suoi anni di piombo. Anni scurissimi in cui la gente scompariva senza lasciare traccia. L’esempio più clamoroso fu, nel 1965, il sequestro, avvenuto a Parigi, del leader democratico Mehdi Ben Barka di cui non si seppe più nulla. Erano gli anni, tra il ‘60 e il ‘90, della dittatura di re Hassan II che esercitò una durissima repressione politica. Sfuggì a due attentati, uno nel ‘71 e uno nel ‘72- quello di cui ci parla il libro di Youssef Fadel. Il 16 agosto 1972 il generale Mohamed Oufkir organizzò un attentato aereo contro il Boeing 727 su cui viaggiava il re di ritorno da Rabat, senza riuscire però a colpirlo. Si dice  che Oufkir si suicidò.
E a questo punto subentra il romanzo di Youssef Fadel: il pilota Aziz, coinvolto nell’attentato, scompare. Qui è il fascino del romanzo. Perché il lettore non sa nulla, come non sa nulla la moglie di Aziz, Zina, nelle cui mani uno sconosciuto mette in mano un biglietto mentre lei è seduta al bar gestito dalla sorella. Che Zina prenda l’autobus per Fès che parte fra poco, alle 9 di sera. E Zina parte, verso l’ignoto, con una speranza che brucia dentro di lei da vent’anni.
re Hassan II
Aveva sedici anni quando aveva conosciuto e sposato Aziz. Un matrimonio durato neppure una notte. Aziz era agitato, doveva tornare alla base. Perché mai se era in congedo? Aveva detto a Zina di guardare in alto, che avrebbe volato sopra la loro casa. Zina non aveva visto l’aereo, non aveva più rivisto Aziz e aveva iniziato a cercarlo, di ministero in ministero. Sembrava che Aziz non fosse mai esistito. Ma non è solo la voce di Zina che sentiamo. I personaggi si alternano, in un caleidoscopio di immagini, di luci e di ombre, mentre il tempo si sposta avanti e indietro, ricostruisce la vita passata di Zina e di sua sorella e di Aziz che studiava di notte contro la volontà di uno zio-padrone e che riusciva a diventare pilota di aerei, come aveva sempre sognato. Zina, Aziz, ma anche le due guardie della casbah nel nulla dove più di trecento prigionieri erano stati internati e lasciati morire per essere sepolti in una fossa comune (la bambinetta figlia di una delle due guardie dice di sentire il padre che piange di notte, l’altra guardia si domanda se Dio li perdonerà e vuole andare in pellegrinaggio alla Mecca per espiare). Perfino un cane ha i capitoli in cui è lui ‘il punto di vista’- una vita da cani può essere meglio della vita di un prigioniero in stretto isolamento in una cella  infestata da scarafaggi e topi e serpenti. Sono tutti animali che acquistano un valore metaforico, negativo o positivo come l’uccellino che Aziz sente cantare o come il passerotto che viene sepolto. Così come le ripetute immagini della maternità che è sempre un segnale di speranza anche quando c’è dolore- la gravidanza che Zina non riesce a portare a termine, la donna che ha undici figli, la moglie della guardia che mette al mondo la settima bambina. Che sarà cresciuta come figlia da Zina e si chiamerà Aziz anche se è una bimba- è la più bella figura di luce per terminare un romanzo che non si lascia accecare dal buio profondo delle altre immagini più crudeli, di un Male che fa inorridire.

     Il lettore deve seguire le voci narranti in un continuo contrasto tra luce e buio, dal presente in avanti, con Aziz che vive nel buio sull’orlo della fossa e Zina che lo cerca e questa sua ricerca sembra brancolare nello stesso buio di Aziz, e dallo stesso presente indietro, agli antefatti, ai ricordi che ricostruiscono la vita di un Marocco molto povero in cui non è concessa dignità alla figura della donna.
     Per noi, che andiamo come turisti in Marocco (come quelli che arrivano ignari alla casbah senza sospettare che quelle mura nascondano un prigioniero, che i loro piedi calpestino centinaia di morti), un libro per sapere.

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lo scrittore sarà a Milano per Book City. Seguirà intervista
la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.it



giovedì 17 ottobre 2019

Bergsveinn Birgisson, “Il vichingo nero” ed. 2019


                                                                    vento del Nord
                                                               la Storia nel romanzo


Bergsveinn Birgisson, “Il vichingo nero”
Ed. Iperborea, trad. Silvia Cosimini, pagg. 440, Euro 20,00

     Ha qualcosa di epico, ricostruire la storia di un proprio antenato che ci ha preceduto di trenta generazioni. E forse questo numero ancora non dice nulla, ma se precisiamo che l’uomo di cui si parla ha vissuto nel IX secolo dopo Cristo, cioè circa 1100 anni fa, non possiamo che trattenere il respiro per lo stupore, pronti ad ascoltare di uomini che, per quanto abbiano un margine di invenzione speculativa, sono veramente esistiti, di avventure che sono veramente accadute.
      Non è un compito facile accompagnare dalla nascita alla morte un vichingo vissuto trenta generazioni fa. Geirmund è un’ombra, una voce nel buio tra la preistoria e la storia, un buio in cui si celano molte domande alle quali nessuno ha mai dato risposta. Dobbiamo ripescarlo da questo Ginnungagap.
     Quanto fascino in questa parola, Ginnungagap. È il suono stesso, quando cerchiamo di pronunciarla, che evoca il suo significato nella mitologia norrena- varco spalancato, l’abisso cosmico prima della creazione. Tutto ha inizio in un tempo molto lontano, nell’846 dopo Cristo, in quell’angolo a sud-ovest della Norvegia che si chiama Rogaland, in una dimora reale dove una donna partorisce due gemelli. Come Romolo e Remo. Questi due, però, non vengono abbandonati ma suscitano ugualmente stupore alla loro nascita e la loro madre, vedendo la delusione del consorte reale, non volle più vederli per anni. Perché i gemelli non hanno nulla del padre, hanno la pelle scura, un volto piatto e rotondo, gli occhi dal taglio a mandorla. Come la madre. Ecco quindi il soprannome con cui Geirmund entra in quella sorta di Storia che è il Libro dell’Insediamento: Geirmund Heljarskinn, cioè Geirmund Pelle Scura.

      Non c’è nessuna saga dedicata a Geirmund, perché Geirmund si allontanerà dalla Norvegia con quelle poderose navi vichinghe che venivano chiamate ‘cavalli del mare’, una testa di drago sulla prua che fendeva le onde. E la ricerca dello scrittore avanza adagio, cercando le minuscole tessere del puzzle che devono comporre il quadro- non esiste una macchina del tempo che ci porti in un millesimo di secondo indietro di più di mille anni, si deve avanzare a ritroso con lentezza nella nebbia, allacciando un episodio all’altro, per analogia, supplendo con l’immaginazione dove nessun tipo di documentazione o di reperto archeologico possa aiutare. È una storia avventurosa in cui succedono molte cose nel giro di pochi anni- un uomo diventava adulto molto prima di adesso, la vita si bruciava in fretta. Dalla Norvegia verso il Bjarmaland (da cui proveniva la madre di Geirmund, bottino di guerra di re Hjor) nell’estremo Nord, dapprima. Nel durissimo clima del Bjarmaland Geirmund deve aver imparato cose- come la caccia ai trichechi- che gli torneranno utili più tardi. Poi verso l’Irlanda e infine verso l’Islanda.
È in Islanda che Geirmund diventa grande arricchendosi con la caccia al tricheco, un animale dal valore inestimabile- tutto del tricheco ha il suo utilizzo. Gli uomini e le donne catturati nelle scorrerie in Scozia o portati dall’Irlanda servono da schiavi per svolgere i lavori duri. Si intrecciano alleanze grazie ai matrimoni, si combattono i nemici, si commercia, si vive, si muore. La storia di Geirmund e del fratello Hamund (destinato dal padre a restare nel Rogaland- decisione intelligente, non possono essere in due a regnare), così come la ricostruisce Birgisson, non è soltanto la loro ma di tutta una società- come vivevano i vichinghi, come costruivano le loro case, di che cosa si nutrivano e come si vestivano per difendersi dal freddo, che cosa dettava la loro scelta delle mogli, dell’insediamento o delle rotte marine da seguire.

    C’è storia, c’è archeologia, c’è leggenda e c’è poesia nel romanzo di Bergsveinn Birgisson. Nessuno di noi è immune al fascino dei vichinghi- forse perché si sono imposti nel nostro immaginario fin da bambini come guerrieri audaci, alla scoperta dell’ignoto sulle navi dalle grandi vele- e siamo irretiti dalle avventure di questi eroi il cui nome è sempre accompagnato da un soprannome che ce li rende ‘visibili’: non solo Geirmund Pelle Scura, ma Ulf lo Strabico, Harald Bellachioma, Ragnar Braghe di Cuoio, Olaf il Bianco, Ivar Senz’Ossa e ancora, e ancora.



lunedì 14 ottobre 2019

Orly Castel-Bloom, “Romanzo egiziano” ed. 2019


                                                        Voci da mondi diversi. Israele
      storia di famiglia


Orly Castel-Bloom, “Romanzo egiziano”
Ed. Giuntina, trad. Shulim Vogelmann, pagg. 151, Euro 17,00

     Ha detto che verrà con il trattore attraverso i campi.
  …Ed era il giorno del suo matrimonio.
Queste due frasi nel paragrafo iniziale di “Romanzo egiziano” ci fanno presagire che leggeremo una storia di famiglia e che sarà una storia insolita. Perché Charlie, lo sposo che si presenta alle nozze in trattore, arriva da un kibbutz (e ci tornerà subito dopo la cerimonia, ligio al dovere) ma, quasi subito, veniamo a sapere che sia lui sia lei fanno parte del gruppo egiziano, che entrambe le sorelle di lei, Viviane, si erano sposate nella sinagoga del Cairo, che la madre di Charlie era sepolta al Cairo, che la famiglia di Viviane viveva da secoli in Egitto perché faceva parte della tribù che aveva disubbidito a Mosé e, al momento dell’esodo, si era rifiutata di andarsene. Ed erano rimasti lì per centinaia di anni, per accogliere gli ebrei ‘di ritorno’, scacciati dalla Spagna dai Re cattolici nel 1492. Come i Castil.

      Sono quasi troppe notizie da assimilare tutte insieme in una pagina- romanzo intrigante, questo “Romanzo egiziano” della scrittrice israeliana Orly Castel Bloom che ci racconta la storia della sua famiglia dando i nomi soltanto alle due coppie dei genitori e degli zii, Charlie e Viviane, Vita e Adele. Loro, la generazione più giovane, sono ‘la figlia grande’ e ‘la figlia piccola’ (di Charlie e Viviane), e ‘la figlia unica’ di Adele e Vita (fratello di Charlie). E, dopo quell’inizio che ci travolge, il romanzo tiene lo stesso passo, saltellante e vivace, che obbliga il lettore ad adeguarsi, divertito da tutti quei piccoli aneddoti, da quel lessico famigliare, da tutte quelle storie a volte buffe, spesso tristi e drammatiche ma sempre raccontate con un sorriso. E senza seguire un ordine temporale. Il kibbutz e l’espulsione dal kibbutz, il matrimonio, la malattia della figlia unica, la compagna di scuola con i capelli lunghi che erano rimasti impigliati nella cerniera a lampo dell’insegnante, le manifestazioni contro il re Faruk al Cairo nel 1952 e poi, con un salto indietro, eccoci in Spagna nel 1492 quando i Castil fuggono in Portogallo senza aspettare l’ultimo momento. Tutti i sette fratelli tranne uno con una storia terribile che è un segreto di famiglia, con lo spettro dell’Inquisizione e delle conversioni forzate. E siamo di nuovo nel presente, con la vita che scorre, la cerimonia di un giuramento in Marina, chi muore ed è troppo presto per morire, chi muore dopo aver dedicato la sua vita al suo nuovo paese, chi si ammala, chi va in Inghilterra per un’operazione.

C’è una specie di parola d’ordine, però, in famiglia. Come una parola magica che incoraggia a non arrendersi, ad andare sempre avanti. “Yallah, yallah, Kilimangiaro!”, erano state le parole di un manifestante egiziano caduto in acqua insieme allo zio Vita quando, durante i moti del 1952, la polizia aveva fatto alzare il ponte sul Nilo dove si trovavano centinaia di dimostranti. Perché Vita era stato preso dallo scoramento, vedendo cadaveri galleggiare ovunque, ed erano state quelle parole a dargli forza. E Vita ne aveva fatto il suo motto. Se da una parte incombeva il maktùb, il destino, dall’altra giganteggiavano tutte le montagne più alte del mondo, Yallah, Yallah, Kilimangiaro, Yallah, Yallah, Everest, Yallah, Yallah, Monte Bianco. Si deve guardare avanti. Si deve guardare in alto. E, quando il maktùb era particolarmente duro da sopportare, tra una montagna e l’altra Vita mormorava in giudeo-spagnolo Pacensia.
     È questa bellissima lezione di vita che ci rimane impressa in mente quando terminiamo di leggere questo romanzo che non ha una fine perché in una famiglia non esiste la parola ‘fine’, si passa soltanto il testimone, dall’uno all’altro. 
Yallah, yallah, Kilimangiaro. E se non è sufficiente, ci sono almeno altre quattro montagne da scalare.

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sabato 12 ottobre 2019

Olga Tokarczuk, “Guida il tuo carro sulle ossa dei morti” - PREMIO NOBEL 2019


                                                        Voci da mondi diversi. Polonia
                                                              Premio Nobel 2019

Olga Tokarczuk, “Guida il tuo carro sulle ossa dei morti”
Ed. Nottetempo, trad. Silvano De Fanti, pagg. 349, Euro 16,50
Titolo originale: Prowadź swój pług przez kości umarłych


      La presenza di Boros mi fece ricordare come si sta quando si vive con qualcuno. E com’è vincolante. Come distoglie dai propri pensieri e distrae. Come l’altra Persona comincia a infastidirci non tanto perché faccia qualcosa che dà ai nervi, quanto per il semplice fatto che c’è. E quando la mattina presto usciva diretto al bosco, benedicevo la mia splendida solitudine. Com’è possibile, pensavo, che le persone vivano insieme per decenni in uno spazio ristretto?

    Un paesino su un altopiano, al confine tra Polonia e Cechia. Un paradiso nella natura, uno di quei luoghi incontaminati dove si incontrano i cervi nei boschi. D’inverno la temperatura raggiunge anche i venti gradi sotto zero, molte delle abitazioni sono case di villeggiatura estiva, disabitate nei mesi freddi. E’ questo il lavoro di Janina Duszejko: tenere d’occhio le case delle vacanze. In passato Janina è stata ingegnere di ponti e poi insegnante di inglese. Ha un’età imprecisata, è in pensione, è afflitta da dolori e mali varii- deve aver superato la sessantina.

     Janina Duszejko è la protagonista e voce narrante dell’insolito romanzo “Guida il tuo carro sulle ossa dei morti” di Olga Tokarczuk, scrittrice polacca molto nota in patria. E’ Janina ad essere insolita e a rendere originale la trama del romanzo. Più di uno tra gli abitanti del paesino la considera matta- e non a torto. Se proprio non è pazza nel senso clinico della parola, di certo è un po’ ‘fuori di testa’, strana. Ha due passioni dominanti: gli animali e l’astrologia. E una terza: la poesia di William Blake, poeta visionario inglese. Dite a Janina la data della vostra nascita, anno, mese, giorno e ora, e lei vi farà l’oroscopo. Janina è anche in grado di dirvi quando morirete: il linguaggio dei pianeti- come influenzino la vita di ognuno- non ha segreti per lei. Gli animali, poi, sono alla pari degli esseri umani per Janina. Anzi, sono migliori: non sono né malvagi, né traditori, né infidi. Janina ha un linguaggio tutto suo, soprattutto usa dei soprannomi per le persone: le pare che un soprannome sia più caratterizzante. Così il suo vicino di casa si chiama Bietolone, un altro Piede Grande. Ci sono poi Buona Novella, Cappotto Nero, la Cinerea, Occhio di Lupo. E Dyzio (questo è soltanto un diminutivo) che condivide con lei l’amore per Blake. Quanto agli animali- sentirete parlare di Sorelle, di Bambine, di un coleottero raro chiamato Cucujus haematodes

     Il primo a morire è Piede Grande. Si pensa ad un incidente. Ma Janina ha un’altra idea: è convinta che siano stati gli animali ad ucciderlo, per punirlo della sua crudeltà. Scrive a tal senso delle lettere alla polizia, va di presenza ad esporre le sue tesi. Janina è un’esperta, conosce casi storici in cui animali sono stati condannati a morte, cita luoghi e date…Possiamo non dar ragione a chi dice che Janina è una vecchia pazza? E comunque si susseguono altre morti: se qualcuno poteva avercela con tutte le vittime, erano proprio gli animali. Persino le impronte vicino ai corpi fanno pensare che gli assassini siano gli animali che si sono presi la rivincita.
William Blake
    “Guida il tuo carro sulle ossa dei morti” è, prima di tutto, un libro divertente. La lucida follia colta di Janina Duszejko ci diverte. Con le sue digressioni astrologiche, i disegni a forte contrasto in bianco e nero, le citazioni di Blake (che vengono sempre a proposito), le sue amicizie con persone che sono solo un poco meno stravaganti di lei, le sue riflessioni nostalgiche, la sua saggezza nella follia, Janina ci distrae dalla crudeltà dei delitti, messi appassionatamente sullo stesso piano della violenza nei confronti degli animali. E, usando il genere del thriller, Olga Tokarczuk ha scritto un romanzo che piacerà agli ambientalisti e ai membri delle leghe per la protezione degli animali. Ma non soltanto a loro.

la recensione è stata pubblicata nel 2012 sul sito www.wuz.it