domenica 30 gennaio 2022

Laura Imai Messina, “Quel che affidiamo al vento” ed. 2020

                                          Voci da mondi diversi. Giappone

 

Laura Imai Messina, “Quel che affidiamo al vento”

Ed. Piemme, pagg. 256, Euro 14,88   

      Un giardino, Bell Gardia, sul fianco di una montagna nel nord-est del Giappone. Una cabina telefonica. Un telefono collegato con il nulla che trasporta le voci nel vento. Chi ha perso qualcuno che gli era caro va lì per parlare con lui o con lei o con loro, le parole si perdono nell’aria, se ne trae un conforto indicibile. Bisogna crederci. Yui ci ha creduto e, ora che si prevede un forte uragano nella zona, Yui sente che deve proteggere la cabina dalla furia degli elementi. Parte da Tokyo, srotola teloni di plastica, non si rende conto che è lei stessa ad essere in pericolo, che non potrà resistere all’impeto del vento. Sarà un amico a portarla in salvo. Ma tutto questo avverrà dopo, dopo che Yui ha sperimentato la magia curativa del telefono, ha fatto amicizia con il guardiano, ha conosciuto l’uomo che ha spesso osservato parlare nella cornetta attraverso i riquadri dei vetri della cabina.


    La vita di Yui era finita quando, durante lo tsunami dell’11 marzo 2011, la sua bambina e sua madre erano morte. Anzi, spazzate via, c’era voluto parecchio prima che i loro corpi fossero ritrovati e identificati. Erano morte abbracciate- unico pensiero consolante per Yui. Yui aveva sentito parlare del telefono del vento, vi si era recata, ci era tornata regolarmente. Era lì che aveva incontrato Takeshi, un medico chirurgo pure lui di Tokyo, la cui moglie era morta per un tumore e la cui bambina aveva smesso di parlare da quel momento. E dopo un poco era parso normale accordarsi per fare il viaggio insieme, e poi conoscere la bambina Hana ed una volta portarla a Bell Gardia per farla parlare alla mamma che era volata via con il vento.


    Se dovessi scegliere una parola per definire lo stile narrativo di questo romanzo di Laura Imai Messina che è stato scritto e pubblicato prima degli altri due da me letti, sarebbe ‘Delicatezza’. È con incredibile delicatezza che la scrittrice affronta i temi della morte, della vita che ha perso ogni significato e poi sembra rialzare la testa e ritrovare coraggio, dell’amore che offre una seconda possibilità, nonostante tutto. La morte e l’amore erano i temi anche del libro che avevo molto amato, “Le vite nascoste dei colori”, ma in questo primo romanzo la morte è più vicina, più personale, e il libro è dedicato alla memoria delle 15.703 persone che sono morte quell’11 marzo del 2021 in cui un catastrofico maremoto si abbatté sulla costa settentrionale del Giappone provocando anche il disastro della centrale nucleare di Fukushima.


Yui ha perso la madre, ma soprattutto ha perso la sua bambina- solo la vista del mare le provoca un’ondata di nausea. Il significato del telefono del vento, però, è più ampio- Yui non ha il monopolio del dolore, Takeshi e gli altri che vanno a Bell Gardia per affidare la loro pena al telefono senza cavi, hanno subito tutti una perdita, hanno tutti bisogno di sentirsi in qualche maniera vicino a chi fisicamente non c’è più. La vita va avanti, Takeshi continua ad occuparsi dei suoi pazienti, un ragazzo si iscrive all’università, Yui inizia ad occuparsi della piccola Hana, sentendosi in colpa nel timore di ‘sostituire’ la sua bambina con un’altra. E sboccia l’amore, delicato come il primo fiore di primavera, e perché non accoglierlo, perché non concedersi la possibilità di essere di nuovo felici e di rendere qualcun altro felice?

    Del libro è appena stata pubblicata una nuova edizione, illustrata con preziose tavole di Igort, uno dei più famosi disegnatori italiani.



 

giovedì 27 gennaio 2022

Abdulrazak Gurnah, “Admiring silence”

                                                Voci da mondi diversi. Africa

     Diaspora africana
      premio Nobel

Abdulrazak Gurnah, “Admiring silence”

Ed. Bloomsbury, pagg. 246, Euro 6,62 (kindle)

 

    Un narratore senza nome. Non facciamo fatica ad immaginare che sia lo stesso autore che esprime i suoi sentimenti ed almeno una parte delle esperienze da lui vissute in prima persona.

    Una narrativa scandita in tre parti e in due luoghi- Inghilterra, Zanzibar, di nuovo Inghilterra.

    Un silenzio che significa tante cose- silenzio di cose non dette affatto, silenzio parziale su una realtà edulcorata, rettificata, trasformata (che lo stesso narratore sia arrivato a credere che sia quella la vera realtà?)

   L’io narrante torna a casa dopo una visita medica. Il dottore gli ha diagnosticato un problema cardiaco, dovrà fare altri esami. Lo dice ad Emma, la donna inglese con cui convive senza che si siano mai sposati (è stata lei a non voler contrarre un legame così borghese). Lo dice alla loro figlia diciassettenne Amelia, in piena ribellione adolescenziale. Gli piace quell’atmosfera di preoccupazione e di rinnovato affetto suscitata dalla notizia allarmante.


    Questo dettaglio iniziale sulla condizione di salute del protagonista sembra non avere grande importanza, e invece assume una valenza metaforica più ampia. Ha un cuore diviso, il protagonista. Tra l’Inghilterra, che dovrebbe essere la sua nuova patria, ‘home’, la dimora dei suoi affetti, e Zanzibar, dove è nato e cresciuto, dove vive ancora la sua famiglia con cui mantiene uno sporadico contatto epistolare, da dove è fuggito via Kenya, con un passaporto falso. E dove adesso, dopo più di vent’anni, per un’amnistia, può ritornare.

    Questa prima parte ‘inglese’ ricostruisce la sua vita dopo il suo arrivo. Sono pagine che esprimono il dramma dell’estraneità, di essere un uomo di colore in un paese di bianchi, di venire da un’isola esotica che i più non sanno collocare sull’atlante geografico e però sanno che faceva parte dell’Impero. Lui aveva studiato, aveva trovato una scuola in cui insegnare (è anche la lotta quotidiana con alunni maleducati e ignoranti che ha causato i suoi problemi di cuore?), si era innamorato di Emma. Anzi, lei si era innamorata di lui, forse in spregio ai suoi genitori benpensanti, e lo aveva conquistato, con la sua bellezza, la sua spavalderia, la sua sfida a tutto il mondo. Ma quello che le aveva raccontato della sua vita di prima era solo una verità parziale e lei ignorava che la madre di lui non sapeva nulla né di lei né della loro figlia. Quando era stato il momento per lei di presentarlo alla sua famiglia, era stata una dura prova. Le scene degli incontri con i suoi genitori hanno un che di cinematografico, di “Indovina chi viene a cena?”, con la madre di lei che si sforza di non lasciarsi sfuggire niente di disappropriato, il padre che, beandosi del passato colonialista, neppure si accorge della selvaggia ironia del compagno di sua figlia che si diverte a dipingere per lui il quadro che lui vuole, di un popolo selvaggio, che ha ancora abitudini cannibalesche, salvato dagli inglesi.


    Quando il narratore parte per Zanzibar, qualcosa si è già incrinato nell’unione con Emma. E il suo ritorno in patria- un trauma per lui- comporta altri silenzi, altre verità addolcite. Non c’è niente che funzioni in quella che un tempo, in un’altra vita, era ‘home’ per lui. Il malgoverno, la corruzione, la povertà, la mancanza di beni di consumo basilari, si esprimono tutti nella disgustosa e catastrofica ostruzione dei servizi igienici. È come se l’intero paese nuotasse nella (chiedo venia) merda. Oltretutto il protagonista si trova ad affrontare due nodi cruciali- la verità su suo padre e la pressante insistenza di sua madre perché si sposi.

    È un uomo più che mai diviso e più che mai spaesato, quello che ritornerà in Inghilterra. Per trovare…

   Un altro tassello per completare il quadro della letteratura degli strappi dell’emigrazione, opera dello scrittore che ha vinto il premio Nobel 2021.




   

martedì 25 gennaio 2022

Femi Kayode, “Il cercatore di tenebre” ed. 2022

                                                        Voci da mondi diversi. Nigeria

cento sfumature di giallo

Femi Kayode, “Il cercatore di tenebre”

Ed. Longanesi, trad. Andrea C. Cappi, pagg.387, Euro 18,60

 

     Una cittadina universitaria in Nigeria. Uno psicologo forense. Un omicidio atroce di cui si conoscono i colpevoli (una folla aizzata e inferocita) ma di cui non si conosce il motivo. Una narrativa veloce e ricca di colpi di scena.

Tutto questo fa sì che “Il cercatore di tenebre”, primo romanzo di Femi Kayode, sia un ottimo ‘giallo’, giudicato tra i migliori del 2021.

     Il protagonista, lo psicologo forense Philip Taiwo, è ritornato da poco dagli Stati Uniti in Nigeria per seguire la moglie che ha ottenuto un incarico universitario a Lagos. È importante che sia, in un certo senso, un estraneo e anche uno ‘straniero’, perché tutto è talmente diverso dall’ambiente in cui ha vissuto- dai comportamenti al modo di pensare, alle procedure poliziesche- che gli riesce difficile capire che cosa succede intorno a lui, valutare il pericolo di certe situazioni, a volte addirittura capire che cosa si stia dicendo. Due persone gli sono di aiuto, l’autista che poi si rivela essere più che un semplice autista (qual è il suo passato? Che cosa gli sarà mai successo per avere il corpo segnato da vistose cicatrici?) e una donna avvocato incontrata per la prima volta sull’aereo che da Lagos lo ha portato alla cittadina di Okriki e che si rivela essere l’avvocato della difesa nel caso di cui si deve occupare Philip Taiwo.


    Era stato suo padre, per amicizia con il padre di uno dei ragazzi morti, che lo aveva pregato di accettare la richiesta di questi, distrutto e tormentato dall’immagine, diffusa sui social, dei tre ragazzi divorati dalle fiamme. Il ricco banchiere Emeka non riesce a capacitarsi- suo figlio non conosceva gli altri due ragazzi accusati di un ennesimo furto che avrebbe scatenato l’ira della folla. Suo figlio era uno studente modello, quel pomeriggio era andato a trovare la fidanzata, che cosa ci faceva laggiù dove poi sarebbe avvenuto un vero e proprio linciaggio?

   Philip Taiwo non è un detective, la sua specializzazione è nell’analizzare i comportamenti, nel cercare le motivazioni per lo scatenarsi della violenza. Eppure deve diventare un detective suo malgrado, forzato in questo ruolo dalla realtà che lo circonda. È guardato con sospetto appena si viene a sapere del suo interesse per i ‘Tre di Okriki’, la stanza prenotata dell’albergo all’improvviso non è più disponibile, il capo della comunità religiosa lo convoca e viene fuori che è il padre del commissario di polizia nonché lo zio dell’affascinante donna avvocato, l’affittacamere della pensione dove alloggia tuttora lo studente che ha lanciato l’allarme lo scaccia in malo modo.

Lagos

E poi, quante sono le cose che Philip non capisce, quante quelle su cui gli hanno mentito, quante altre verità saltano fuori? Ad iniziare dalla faccenda delle confraternite universitarie che hanno avuto un inizio glorioso con niente di meno che il premio Nobel Wole Soyinka che ne ha fondato una e che poi invece si sono trasformate in sette segrete (con quali intenti? chi ne faceva parte?), dal padre che gli ha affidato l’incarico, uomo di grande potere che possiede addirittura un jet privato e che è pronto ad una giustizia privata, dal presunto autista che diventa la spalla di Philip e che nasconde un fucile ad alta precisione nel bagagliaio. A tutto questo, ai pericoli in agguato per Philip che rischia la vita, si aggiunge la sua incertezza per un possibile tradimento della moglie- un sottile filone di cui si poteva fare a meno ma che aggiunge un tocco personale e intimo alla figura del protagonista.

     Un bel romanzo, “Il cercatore di tenebre” di Femi Kayode (è singolare che il titolo italiano sia l’esatto opposto di quello originale Lightseekers: i due estremi si toccano?). Un romanzo  tout court, perché c’è un’indagine- diversa dalle solite-, ma soprattutto ci sono un’ottima caratterizzazione e una splendida  ambientazione: apprendiamo molto della Nigeria, della società, della cultura, della sua economia. Un romanzo per ampliare i nostri orizzonti.

Nelle pagine dei ringraziamenti l’autore dice che il video virale di quattro studenti della University of Port Harcourt, linciati e bruciati vivi, continua ad ossessionarlo e che spera che il suo libro contribuisca alla prevenzione di crimini violenti commessi dalla folla.

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lunedì 24 gennaio 2022

Pierre Martin, “Madame le Commissaire e la vendetta tardiva” ed. 2021

                                               Voci da mondi diversi. Francia

                                          cento sfumature di giallo


Pierre Martin, “Madame le Commissaire e la vendetta tardiva”

Ed. Superbeat, trad. Roberta Scarabelli, pagg. 269, Euro 18,00

        Suona bene, ‘madame la commissaire’, per indicare una donna che ricopre una carica che in passato era prerogativa esclusivamente maschile. E Isabelle Bonnet non ha niente da invidiare agli uomini, quanto a coraggio, sangue freddo, e anche (perché no?) abilità di tiro o di altre mosse del tipo di arte marziale.

    Madame la Commissaire non è ancora del tutto uscita da una bruttissima avventura per salvare il Presidente da un attentato, vuole andarsene da Parigi, vuole (ed ottiene) tornare a Fragolin, un paesino in Provenza dove lei è nata. Non avrà più l’onore di essere a capo della squadra speciale della Police nationale, ma le importa poco, dirigerà, come semplice commissario, un ufficio di polizia con compiti speciali, occupandosi di vecchi casi irrisolti della zona. È più che chiaro che è un incarico creato a sua misura per lei, che cosa c’è di più tranquillo e di meno pericoloso di un ‘caso freddo’? eppure…


    Tanto per cominciare Madame la Commissaire si imbatte in un cadavere che- permettetemi di giocare con le parole- sarà anche freddo come tutti i morti ma è un caso caldissimo- soffia il Mistral, Isabelle non riusciva a dormire ed era andata a fare una passeggiata sulla spiaggia. Per imbattersi nel morto su cui l’assassino aveva lasciato un segnale ben chiaro della sua motivazione. Non tocca a Isabelle scoprire il colpevole, ma tant’è…

   Il ‘cold case’ che lei e il sous-brigadier Apollinaire hanno selezionato riguarda un delitto avvenuto dieci anni prima in un bosco nelle vicinanze e, a ben vedere, qualche somiglianza c’è con quello commesso sulla spiaggia, non per quanto riguarda l’arma (un forcone), ma per una scritta sulla sua fronte che a suo tempo non era stata considerata perché in parte cancellata dalle piogge ed ora resa visibile con le nuove tecniche digitali.

    Non è tutto qui. Un altro uomo viene trovato morto nella vasca da bagno e anche in questo caso l’assassino ha lasciato una firma singolare il cui significato riporta a quelle sul cadavere in spiaggia e sull’uomo del bosco.

E poi, per aggiungere un poco di pepe alla trama, c’è anche l’uomo sotto protezione che viene fatto arrivare da Parigi in gran segretezza: qualcuno lo vuol togliere di mezzo perché è il testimone chiave in un processo importante. Madame la Commissaire deve cercargli un alloggio sicuro a Fragolin (chi mai potrebbe venire lì a cercarlo?) e sorvegliarlo 24 ore su 24.


    Pierre Martin (pseudonimo di uno scrittore tedesco- dopo Jean-Luc Bannalec, questo è il secondo scrittore tedesco che sceglie uno pseudonimo francese, sarebbe interessante sapere perché siano così gettonati i cognomi francesi) è molto abile nell’intrecciare i tre filoni e nell’equilibrare le personalità dei suoi personaggi- Isabelle, vivace e spregiudicata ma mai sopra le righe, il sottobrigadiere che ci fa pensare ad un cane fedele, allampanato e un poco stravagante (forse aderisce all’iniziativa ‘calzini spaiati’ e non solo un giorno all’anno, il 5 febbraio), la proprietaria del negozietto di souvenir, il sindaco, la moglie del morto del bosco affetta da demenza e la figlia di cui ogni traccia era scomparsa dalla casa. 

Calissons

Nel finale (a sorpresa), la trama accelera, ci saranno sparatorie e altri morti- Fragolin non è affatto un posto così tranquillo, così idilliaco.

    Un thriller perfetto per un paio di ore rilassanti, perché, nonostante la drammatica tematica di fondo, è vivace, divertente, non è cruento (Madame la Commissaire distoglie lo sguardo e i peggiori dettagli ci vengono risparmiati), e ci porta in casa il soffio del Mistral, il profumo delle erbe di Provenza e di più di un piatto di cucina provenzale.

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sabato 22 gennaio 2022

Daniela Krien, "I confini incerti del fuoco" Intervista 2022

                                   Voci da mondi diversi. Area germanica

     Quando era stata programmata, doveva essere un’intervista in presenza. Poi…Omicron. Giustamente la scrittrice ha deciso di non rischiare. E ormai ringraziamo anche la nuova tecnologia che, durante il primo lockdown, ci ha fatto scoprire la possibilità di supplire ai mancati incontri di persona.

La scrittrice tedesca Daniela Krien, autrice de “I confini incerti del fuoco”, ed io ci siamo ‘viste’ su zoom.

copyright Maurice Haas

Dopo aver letto due dei suoi romanzi mi pare di aver capito che quello che Le interessa è soprattutto esplorare i rapporti- tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra amici. Ha questo in mente quando inizia a scrivere un romanzo?

     Sì, è così. La mia tematica principale, nello scrivere ma anche nella vita, è vedere come funzionino i rapporti con gli altri, mi interessano i momenti di crisi nella comunicazione e anche la soluzione di queste crisi o eventuali mancanze di soluzioni: la domanda è, perché non si è arrivati ad una soluzione? È un tema che non finisce mai, quello dei rapporti in generale, nei confronti dei genitori, dei figli o degli amici.

E come è iniziato questo interesse? Quando ha incominciato a scrivere?

    Scrivo da sempre, ho iniziato a scrivere da bambina e già nei primissimi racconti trattavo dei rapporti tra persone o meglio tra animali, perché i protagonisti dei miei scritti di allora erano animali con caratteristiche umane. Il tema era già là, e in tutta la mia vita ho cercato anche di imparare mentre scrivevo. C’è sempre stato un processo per capire il mondo e le cose. Avevo poco più di trent’anni quando ho scritto il mio primo romanzo, il primo testo in cui ho veramente creduto, quello che ho ritenuto fosse adatto per una pubblicazione. Tutto quello che avevo scritto prima era importante per me, ma non aveva superato la mia critica. Invece ho deciso di provare con quel romanzo ed è andata bene.

Ho pensato che il titolo, Der Brand (L’incendio), abbia anche un significato metaforico. Incomincia come un vero e proprio incendio che distrugge una casa e poi si diffonde, minacciando di distruggere un rapporto.


    Sì. Il fuoco è una metafora a vari livelli. All’inizio è un fuoco reale, poi diventa una metafora per la crisi nella coppia e poi per la crisi all’interno della società da cui Peter si isola. Infine diventa anche una metafora per un vero e proprio incendio, per la città di Dresda, incendiata dal terribile bombardamento del 14 e 15 febbraio 1945 che influenza la storia famigliare di Rahel per l’esperienza del trauma della madre. È un motivo portato avanti da una generazione a quella successiva. Il motivo del fuoco ritorna in vari punti di tutto il romanzo.

Fino a che punto il luogo, la fattoria dove Rahel e Peter passano la vacanza, li aiuta ad esaminare che cosa è andato storto nel loro rapporto?

    Certamente il luogo li aiuta in molti modi. Vivono in una solitudine che li obbliga ad avvicinarsi. Ci sono solo loro due. Per Rahel è piacevole, d’altra parte aveva già cercato un luogo nelle montagne bavaresi, una casa solitaria, quella che poi aveva preso fuoco. Questo è un posto diverso ma l’isolamento è analogo. La natura è importante, ha un effetto curativo, Peter e Rahel vanno a fare camminate da soli, vanno a nuotare nel lago da soli. È un paesaggio calmante, piacevole. Le colline sono dolci e tutto ha un effetto riposante che li spinge a riavvicinarsi.


I sentimenti di Rahel verso i due figli sono diversi. Quasi certamente la figlia ha sofferto per essere stata lasciata con la nonna quando era piccola. Ci sono parecchi accenni al fatto che i sentimenti di Rahel come madre siano cambiati nei confronti del secondogenito perché lei era più matura. C’entrava anche il fatto che il secondo figlio fosse un maschietto?

    Entrambe le cose hanno il loro ruolo. Quello tra Rahel e il figlio Simon non è un rapporto problematico, Simon è sempre stato con i genitori, non è stato lasciato per un anno intero affidato ad altri, il suo rapporto con loro è intatto. I rapporti tra madre e figlia sono diversi. Crescendo, il loro rapporto si è sviluppato in conflitto tra madre e figlia, uno scontro tipico di due persone dello stesso sesso, due donne con tratti caratteriali simili sono destinate allo scontro. Simon, se mai, entra in conflitto con il padre. E poi Rahel ha dei rimorsi nei confronti della figlia e si arrabbia con se stessa perché riconosce i suoi errori.

 Mi ha interessato moltissimo lo sfondo del romanzo, mi hanno interessato i riferimenti alla storia di Dresda e delle due Germanie. Sono rimasta scioccata dalla scritta sui muri “Bomber Harris, do it again” che applaudiva all’impresa del noto bombardiere che guidò l’attacco su Dresda nel febbraio del 1945. Che cosa volevano dire, con quella scritta?


    È difficile rispondere, anche io sono rimasta scioccata da quella scritta, “Bomber Harris, do it again”. Una certa gioventù tedesca è formata di radicali di sinistra che hanno un rapporto malato con la nazione. La scritta vorrebbe dire augurarsi che la Germania sia distrutta. Ovviamente è un messaggio estremo. Se si potesse parlare con loro, non penso che intenderebbero così, ma sono parole che fanno riflettere. Si evidenzia un rapporto difficile con il proprio paese. C’è poi il problema delle colpe incredibili di cui si è resa responsabile la Germania durante la guerra. Colpe da cui non si guarisce e per cui non c’è perdono, sono macchie che restano. La Germania dovrebbe giungere ad una autocoscienza sana, le parole ‘Bomber Harris, do it again’ lo confermano. Dopo la guerra la Germania non è riuscita a sviluppare un’autocoscienza che non fosse destinata o a esaltarci o a umiliarci. Perciò sono nati dei movimenti di giovani che scrivono questo tipo di cose.

Mi rendo conto che quello che sto per chiederLe esigerebbe tempo per una lunga risposta, ma sarebbe interessante sapere di più sulle difficoltà che hanno avuto i tedeschi dell’Est, gli Ossi, per adattarsi allo stile di vita occidentale, dei Wessi. Può forse trovare un modo per riassumere una risposta?


    La vita che abbiamo avuto dopo la caduta del muro è stata totalmente diversa da quella che avevamo avuto prima, non aveva proprio niente in comune con quella. Eravamo cresciuti all’interno di un regime collettivista e garantista: il prezzo che si pagava era la mancanza di libertà. Dopo la caduta del muro ognuno doveva stare in piedi da solo. È stato tutto molto difficile perché il processo di adattamento era monodirezionale. Non si trattava di una vera riunificazione, la DDR è stata azzerata e abbiamo dovuto adattarci alla vita dell’Ovest. Le biografie dei cittadini della DDR hanno perso valore. I cittadini della Germania dell’Est sono rimasti feriti e queste ferite sono ancora aperte.

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mercoledì 19 gennaio 2022

Daniela Krien, “I confini incerti del fuoco” ed. 2022

                                  Voci da mondi diversi. Area germanica


Daniela Krien, “I confini incerti del fuoco”

Ed. Corbaccio, trad. A. Petrelli, pagg. 228, Euro 16,90

 

     Sono mesi che Rahel ha prenotato una casa in una località isolata della Baviera per passarvi tre settimane di vacanza con il marito Peter. Sta già preparando le valigie quando la raggiunge una telefonata: un incendio ha distrutto la casa. Nella sfortuna un’altra telefonata offre una soluzione fortunata anche se colorata di tristezza. La più cara amica della madre di Rahel deve accudire il marito che è ricoverato in ospedale. Potrebbero Rahel e Peter occuparsi della fattoria mentre loro non ci sono? Peter non farà i salti di gioia, ma a Rahel il posto piace, ci ha passato tanto tempo con la madre quando era bambina.

    Peter è professore di germanistica all’Università, Rahel è psicologa. Non si può dire che siano una coppia in crisi. Sposati da una trentina di anni, con figli adulti, sono in una condizione comune a coppie che si sono amate ma che conoscono un momento di stanchezza, di consuetudine, di affievolimento o di spegnimento dell’attrazione fisica. Per Peter c’è stato un episodio increscioso all’università dopo il quale è stato il bersaglio di duri attacchi sui social, non si è sentito appoggiato da Rahel, ne è stato deluso, si è allontanato da lei. La nuova condizione di solitudine agreste, i nuovi compiti giornalieri diversi dalle loro normali attività- i cavalli, l’orto, la cicogna, i gatti, la grande casa rurale-, i figli che arrivano in visita inaspettata (la figlia con anche due bambini piccoli), la preoccupazione per il marito della vecchia amica, li porterà a rivedere il loro rapporto, a ricominciare (forse) in modo nuovo, a riaccendere una scintilla.


   Apprezziamo la tersità dello stile della scrittrice tedesca, prima di tutto. E, poi, la ricchezza di spunti di riflessione che ci offre la vita di questa coppia non giovane. Sono tutti spunti sfumati, che non distolgono la nostra attenzione dai sentimenti dei personaggi coinvolti. La grande Storia nella città di Dresda, dove Rahel e Peter vivono. Dresda interamente ricostruita, sempre bellissima ma di certo non uguale alla splendida Firenze sull’Elba di prima della guerra, di prima del bombardamento che viveva ancora nel ricordo della madre di Rahel che aveva corso con scarpe leggere sull’asfalto infuocato e che aveva perso i genitori quella notte. Era per quello che era rimasta emotivamente instabile, sfarfallante fra nuovi amori? Rahel non aveva mai saputo chi fosse suo padre e solo ora, nella fattoria degli amici della madre, le balena un sospetto. Quando la figlia arriva in visita (o in fuga dal marito?), chiede a Rahel se è possibile che abbiano ereditato dalla nonna l’irrequietezza sentimentale. E Rahel, proprio lei, la psicologa che dovrebbe sapere queste cose, si domanda fino a che punto la figlia abbia risentito dell’essere stata affidata, poco più che neonata, alla nonna paterna, perché lei e Peter avevano altro da fare e non potevano occuparsi di lei.


     Il contrasto tra le due Germanie, poi, le allusioni agli Ossi e ai Wessi, alle difficoltà di cambiare mentalità dopo la riunificazione (si chiama supermercato e non più cooperativa- fa notare la figlia a Rahel), a gettarsi nel consumismo, a sganciarsi da certi schemi rigidi che possono aver contribuito allo scandalo universitario in cui è stato coinvolto Peter. C’è forse un filo di nostalgia per la semplicità di un’altra vita, anche se mai si tornerebbe indietro?

    Con discrezione, con delicatezza, quasi in punta di piedi, Daniela Krien esplora la difficoltà e la unicità dei rapporti famigliari, tra genitori e figli (fino a che punto i traumi subiti o l’anaffettività si riverberano da una generazione all’altra? quanto è difficile capire le scelte dei figli non approvate dai genitori?), tra marito e moglie, sia nella coppia sposata da tanti anni sia in quella che è ancora in rodaggio (ci possono essere segreti in una coppia? Si può tradire e poi ritornare dal coniuge?). E allora quell’incendio all’inizio del romanzo diventa una metafora per altre fiamme che non si sa dove possano sconfinare e da cui si rischia di venire scottati, all’interno della famiglia. 

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a breve seguirà intervista con la scrittrice  



martedì 18 gennaio 2022

Yasmina Khadra, “Le rondini di Kabul” ed. 2021

                                               Voci da mondi diversi. Medio Oriente

    la Storia nel romanzo

Yasmina Khadra, “Le rondini di Kabul”

Ed. Sellerio, pagg. 228, Euro14,00

 

   Ogni cosa al mondo ha una fine e nessun male è eterno. Si fa fatica ad avere fiducia in questa profezia che Yasmina Khadra (pseudonimo dello scrittore algerino Mohamed Moulessehoul) cita nella prefazione di questo romanzo, ripubblicato ora a vent’anni dalla sua apparizione sui nostri scaffali.  Ne è la prova il fatto stesso che sia stato ripubblicato, che non abbia perso la sua attualità, che potremmo assistere oggi alle scene sconvolgenti che leggiamo su queste pagine, perché  a volte ritornano, e no, non sono fantasmi ad essere tornati, ma i talebani a Kabul, e con loro gli spettri del passato, più spaventosi ancora. Sembravano in fuga da questi spettri, le persone che abbiamo visto sugli schermi correre per cercare di salire sugli aerei in partenza dall’aeroporto di Kabul nei giorni recenti. Li abbiamo visti aggrapparsi ai carrelli, alle ali degli aerei- e non potevano non sapere che quella era una morte certa. Forse migliore di quella che li aspettava restando.

    Due coppie sono le protagoniste de “Le rondini di Kabul”. Il guardiano del carcere Atiq e la moglie Mussarat, ammalata di tumore, e una coppia borghese- lui, Mohsen, studiava scienze politiche all’università e lei, Zunaira, avrebbe voluto diventare magistrato. Somma ironia, un carceriere in un paese che è tutto un carcere, un’ammalata terminale in un paese distrutto e moribondo, un futuro diplomatico in un Afghanistan isolato dai paesi democratici, un magistrato dove regna sovrana la sharia.


   C’è una differenza abissale tra le due coppie, sia nel loro modo di vivere la realtà che li circonda, sia nel sentimento che li unisce. Atiq e Mussarat fanno parte del sistema, il lavoro di Atiq lo rende quasi un privilegiato e lui ormai si è incallito davanti alle miserie di quei prigionieri destinati ad essere brutalmente giustiziati. Alla moglie è legato dalla gratitudine- lei gli ha salvato la vita in passato, ora tocca a lui prendersi cura di lei. Per Mohsen e Zunaira il mondo si è capovolto. Erano più che benestanti e ora hanno perso tutto, resta loro l’amore, lo stesso che li lega da quando erano studenti. E condividono l’orrore verso le squadre dei guardiani della morale, verso la sistematica uccisione della felicità, dell’allegria, dell’arte, della musica. Quando Zunaira indosserà l’odiato burqa, sarà per il motivo opposto per cui dovrebbe indossarlo, per protesta, per esprimere lo sconforto davanti a quell’operazione strisciante di persuasione dei talebani, capaci di attirare seguaci con l’oscuro fascino malvagio della violenza- a questo sono destinate le esecuzioni pubbliche come la lapidazione dell’adultera. Significa trasformare la violenza in spettacolo, autorizzarla, incoraggiare il sentimento di esaltazione del sentirsi giudici onnipotenti. E quando Mohsen- Mohsen!- scaglia una pietra, è la fine. La fine della bontà, la fine dell’amore con la moglie.


    La ruota gira, la trasformazione di Atiq e di Mussarat avviene in direzione opposta, perché forse c’è ancora uno spiraglio per l’umanità, anche se il finale sembra non lasciare alcuna speranza. Torneranno a volare le rondini su Kabul?

   Un romanzo che ha la stessa potenza di vent’anni fa, e lo constatiamo con una profonda amarezza, con una certa incredulità, incapaci di comprendere come la Storia sia un serpente che si mangia la coda. Irrimediabilmente.  




sabato 15 gennaio 2022

Wayétu Moore, “I draghi, il gigante, le donne” ed. 2022

                                                                Voci da mondi diversi. Africa

         romanzo autobiografico

Wayétu Moore, “I draghi, il gigante, le donne”

Ed. e/o, trad. T. Lo Porto, pagg. 284, Euro 11,99

     Quattro, cinque, sei anni. Wayétu, che viene chiamata affettuosamente Tutu, è la sorellina di mezzo, di cinque anni, e questo libro, autobiografico, incomincia con la storia della loro fuga da Caldwell, in Liberia, all’inizio della guerra civile del 1989. Le bambine fuggono con il padre, insegnante all’Università di Monrovia, con la nonna e la baby-sitter. La mamma è in America con una borsa di studio Fullbright.

    Come si riescono a spiegare la fuga precipitosa, la guerra, le atrocità, a delle bambine? Le si trasformano in favole dal sapore di leggenda, perché le favole, dopotutto, sono piene di mostri cattivi tanto quanto di principi buoni. Per le bambine il Presidente Doe è il drago Hawa Undu, che una volta era un principe buono, e adesso c’è un nuovo principe, che si chiama proprio Prince Charles Johnson, che combatte contro di lui per prendere il suo posto. È solo la piena fiducia nel papà amorevolissimo che spinge Tutu e la sorella maggiore a correre nella foresta, dando la mano a lui che porta sulle spalle la più piccola. È perché lo dice il papà che deve essere vero che tutte le persone sdraiate sulla strada stanno dormendo perché sono stanche, e che quel suono profondo che si sente è il rullo dei tamburi.

Prince Johnson

    La prima parte del libro è la fuga nel ricordo della scrittrice, vista con gli occhi di una bimba di cinque anni. Fame, sete, piedini che fanno male, gambette stanche, posti di blocco, paura, facce minacciose che chiedono a quale etnia appartengano, incontro con qualcuno che è loro amico, un soldato che si impietosisce, paura, la domanda che riaffiora puntuale sulle loro labbra, “Andiamo dalla mamma?”, la decisione di andare nel villaggio di Lai, al di là del lago Piso, dove vive la famiglia della nonna. Ancora fame, malaria, incertezze. Finché arriva un angelo salvatore, una ragazza soldato: ci si può fidare?

    C’è una seconda e poi una terza parte nel romanzo, ed è anche la varietà dei toni ed un cambio di voce narrante che rendono il libro non solo interessante ma anche emozionante e vivo. E alla paura che pervade la prima parte si sostituisce la sofferenza, nella seconda. L’America in cui arriva Tutu non è la terra dell’uguaglianza in cui speravano, forse è rimasta la stessa da cui sono partiti i neri liberati fondatori della Liberia. Tutu si sente diversa perché la fanno sentire diversa. È guardata con sospetto ed è apertamente e gratuitamente ingiuriata quando entra con le amiche, ragazzine come lei, in un negozio. Come se fosse scontato che sono delle piccole ladre. Loro sono le ragazze negre. Più tardi gli uomini che la corteggiano le dicono che è molto bella, ma aggiungono che è bella perché non è come le altre donne africane. Il che vuol dire che la sua bellezza viene giudicata secondo i canoni bianchi.

Lago Piso

    Cambia il punto di vista nella terza parte- il racconto diventa quello di Mam, la madre di Tutu, la metà di una coppia perfetta in cui l’uomo smentisce qualunque pregiudizio sugli uomini africani. Era stato il marito ad incoraggiarla ad accettare la fantastica opportunità della borsa di studio in America. Lui si sarebbe occupato delle bambine, lui avrebbe letto loro delle storie la sera, lui le avrebbe telefonato se una delle bimbe si ammalava. E Mam, fuori di sé dall’ansia quando aveva smesso di ricevere loro notizie, era partita per andare a cercarli. Là, nella tana del leone. Un’altra storia di coraggio, di paura, ma anche di buona sorte, che si ricongiunge alla prima con cui il libro è iniziato.

     Un libro molto bello, un capitolo di storia della Liberia che pochi di noi conoscono, un racconto di guerra e di amore, di episodi di incredibile violenza (da adulta, in America, Tutu vedrà su youtube il filmato delle torture inflitte dal Principe al drago) e di atti di generosità inaspettati.

     Da leggere. Da leggere e da rileggere.

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mercoledì 12 gennaio 2022

Keren David, “Le cose che ci fanno paura” ed. 2022

                                                  Libri per ragazzi (ma non solo)

Keren David, “Le cose che ci fanno paura”

Ed. Giuntina, trad. Lucrezia Pei, pagg. 255, Euro 15,00

 

    Mi pare bello, a inizio di un nuovo anno, dopo che si è concluso un secondo anno buio di pandemia, segnalare un romanzo per ragazzi, perché sono loro il nostro futuro, perché è per loro che dobbiamo lottare per un mondo migliore.

    Due ragazze di quattordici anni, Evie e Lottie, sono le protagoniste de “Le cose che ci fanno paura”. Inglesi, londinesi, ebree anche se non sanno che cosa significhi essere ebree, sanno solo che lo sono al 50% perché la loro mamma lo è- ma non ne ha mai parlato.

    La parola passa dall’una all’altra, in capitoli alterni. La prima a parlare è Evie e lo fa da un palcoscenico, durante una gara di uno spettacolo comico. Evie non lo sa, ma gli ebrei sono famosi per le loro barzellette, per le freddure, per una spontanea inclinazione alla comicità (pensiamo a Woody Allen, tanto per fare un nome) e le sue prima battute sono per la singolarità dell’accentuata differenza tra lei e la sorella, le due gemelle meno identiche del mondo. Lei piccola e grassottella, Lottie alta e filiforme, lei ricciuta e bruna, Lottie dai lunghi capelli chiari, lei estroversa e ridanciana, Lottie seria e compunta, lei frequenta una scuola statale, Lottie un collegio esclusivo. Se la diversità delle gemelle per il momento è spunto di scherzi, in seguito sarà ancora più accentuata nei loro diversi interessi e finiremo per renderci conto che è una maniera per aiutarci a comprendere come non esiste una sola maniera di interpretare la realtà e non c’è una sola scelta giusta, che diversità significa maggiore ricchezza.


    A poco a poco la scrittrice introduce gli altri personaggi, il padre che fa l’autista per Uber, la madre che è una conduttrice radiofonica e si deve attenere a strette direttive, l’amica musulmana di Evie, le amiche snob e razziste di Lottie, Hannah, compagna di scuola di Lottie, presa di mira per il suo aspetto e soprattutto perché ebrea (ma non si dice apertamente), il bel ragazzo per cui Evie ha preso una cotta (le passerà immediatamente quando vedrà il testo dei volantini che lui distribuisce), l’amica della madre con il figlio Noah che sarà ospite in casa loro- sono fuggiti dalla Francia perché…possiamo sospettarlo e poi lo sapremo con certezza.

   È come se qualcosa che ribolliva sotto la superficie ora venisse a galla. Una frase detta dalla madre delle gemelle alla radio scatena un’ondata di odiosi attacchi antisemiti sui social, i commenti su Hannah non sono più solo bisbigliati, finché l’antisemitismo fa più che bussare alla loro porta, entra con violenza in casa loro con un mattone scagliato contro una delle finestre e ferendo Evie.


     Sono proprio i due nuovi amici, Noah e Hannah, a portare le gemelle ad una nuova consapevolezza, raggiunta in maniera diversa ma che passa, per entrambe, attraverso la conoscenza della Storia e delle vicende della loro famiglia da cui, per un eccesso di amore, erano state protette. E invece si deve sapere, si deve far sapere agli altri, si deve portare testimonianza per impedire che l’ignoranza e l’oscurantismo trionfino.

    La bellezza del messaggio finale del libro (molto ben scritto, con  personaggi molto veri in cui i giovani lettori riconosceranno se stessi o i loro amici) è che nessuno deve essere discriminato, qualunque sia la sua provenienza, a qualunque popolazione appartenga, qualunque sia la religione che professi.

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