martedì 28 gennaio 2020

Veselin Marcović, “Noi diversi” ed. 2020


                                                   Voci da mondi diversi. Penisola balcanica


Veselin Marcović, “Noi diversi”
Ed. Voland, trad. A. Vuco, a cura di D. Di Sora, pagg. 397, Euro 18,00

   Vladimir e Valentina. Vladja (se il fratello vuole farlo arrabbiare) e Vanja. Le loro vite non hanno niente in comune, tranne quei diminutivi così stranamente simili (a proposito, noi ne veniamo a sapere i nomi solo verso la fine del romanzo). Non si conoscono neppure finchè un giorno Vanja si presenta nell’ufficio di Vladja perché ha letto un suo annuncio sul giornale: per la sua tesi il ragazzo cerca persone che hanno vissuto esperienze straordinarie, quelle che in alcuni casi possono essere definite ‘miracoli’. Oppure coincidenze. Oppure un caso (per lo più malevolo).
      Valentina è afflitta da un male, un’alterazione genetica che capita ad una persona su due milioni. Da quando era piccola a giorni alterni deve fare una terapia sotto lampade blu in ospedale per tenere la bilirubina sotto controllo. E tuttavia la sua pelle è di colore giallo, anche la sclera degli occhi è gialla. Sa che, se è fortunata, arriverà ai quarant’anni. Per chi la incontra sarà sempre la ragazza dall’aspetto strano.

     Vladimir ha subito un trauma da bambino. Nel giro di tre giorni erano morti la cugina e il suo proprio padre. Lo spettacolo del lago che si ammirava dalla sua casa sarà per sempre collegato all’incidente in cui era morta Ana. Come era stato possibile? Qualcuno ne aveva la colpa? Quando Vladimir inizia a pensare, la catena dei ‘se’ non ha fine. E l’idea dell’annuncio mascherava qualcosa di diverso da una statistica per la sua tesi: la speranza al di là di ogni speranza che si presentasse l’uomo con la barba e il fucile che aveva tirato in salvo lui, Vladimir, mentre Ana scivolava sotto la lastra di ghiaccio trasparente. Dopo, l’uomo era scomparso e la colpa era stata addossata a lui, il bambino Vladimir.
      Anche la ragazza strana dalla carnagione gialla è alla ricerca di qualcosa e anche alla base della sua ricerca c’è una coincidenza. Un amante occasionale le ha raccontato di come sua madre giacesse in coma da quando qualcuno era entrato in casa loro di notte e l’aveva colpita con una spranga di ferro. Suo padre, un ubriacone, era stato accusato e aveva scontato tredici anni in prigione. La ragazza strana lavora negli archivi della polizia, fa una ricerca e trova una discrepanza tra i verbali del tempo e quanto l’amante le ha raccontato.
        Sono loro due ‘i diversi’, quelli a cui sono capitate due cose molto rare (e quanto sia eccezionale quello che è successo sul lago ghiacciato lo apprenderemo insieme a Vladimir) che hanno marchiato la loro vita. E noi seguiamo la duplice narrazione, del giovane uomo che non cessa di chiedersi ‘se’ e riesce a ricomporre le fila di quanto accaduto (giova a qualcuno, adesso?) e della ragazza per cui la luce blu ha smesso da un pezzo di essere piena di fascino- anche lei ottiene dei risultati dalla sua ricerca (giova a qualcuno, adesso?).

     “Noi diversi”, dello scrittore serbo Veselin Marcović, è un romanzo ricco di fascino- per le descrizioni così diverse dei due ambienti in cui si muovono i protagonisti, il lago ghiacciato e le ombre scure degli alberi nel mondo di uno, le luci sfacciate della discoteca o quelle più soffuse delle strade della città in cui scivola l’altra cercando di nascondersi, per i racconti introspettivi e tormentati di entrambi, per la duplice ricerca che dà uno scopo alla loro esistenza e nasconde l’ulteriore ricerca del senso della vita, di una giustificazione del destino o del caso. Forse non è un libro facile da leggere, ma la prima riflessione che facciamo è che un ‘vero’ romanzo, un romanzo che non strizzi l’occhio per accattivarsi i lettori, che non sia la stessa storia trita e ritrita, debba cercarsi nella letteratura dei paesi non ancora contagiati dal consumismo.

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Jing Jing Lee, “Storia della nostra scomparsa” ed. 2020


                                                                    Voci da mondi diversi. Asia
       la Storia nel romanzo


Jing Jing Lee, “Storia della nostra scomparsa”
Ed. Fazi, trad. S. Tummolini, pagg. 399, Euro 17,00

     Erano ragazze della Corea del Sud, nel romanzo “Le figlie del mare” di Mary Lynn Bracht, quelle che venivano prelevate con la forza dalle loro case per servire da oggetti di piacere, da schiave del sesso chiamate con l’oltraggioso nome eufemistico di “donne di conforto”, prigioniere in condizioni degradanti dell’esercito di occupazione giapponese.
    Sono cinesi di Singapore quelle del libro “Storia della nostra scomparsa” di Jing Jing Lee che racconta una storia vissuta in parte dal suo bisnonno. Due narrative si intrecciano in questo romanzo di notevole maturità stilistica. O forse le narrative sono tre, e soltanto proseguendo la lettura ci rendiamo conto che la Wang Di giovane, protagonista della terribile vicenda degli anni di guerra, è anche protagonista della vicenda di oggi- la donna anziana sposata con il Vecchio, un marito amorevole più anziano di lei che muore lasciandola sola, a rimpiangere di non sapere nulla del suo passato, del perché scomparisse il 12 di febbraio di ogni anno. Il dodicenne Kevin è la voce narrante dell’altra narrativa- occhiali con lenti spesse come fondi di bottiglia, bullizzato a scuola, condivide la stanza con la nonna che gli rivela un segreto prima di morire.

      Wang Di, la figlia non voluta perché non era un maschio, aveva sedici anni quando, nel 1942, i giapponesi invasero Singapore mettendo in fuga gli inglesi. Aveva i sogni e le speranze di una ragazzina- i genitori avevano iniziato le trattative per cercarle un marito. Un camion di soldati l’aveva portata via insieme ad altre ragazze del villaggio. Sarebbe rimasta per tre anni chiusa in una stanza nella casa bianca e nera, a contare le marchette alla sera- una trentina di soldati al giorno si buttavano su di lei e facevano quello che dovevano fare, nel fine settimana potevano essere il doppio. Come si può resistere, un giorno dopo l’altro? La violenza, la fame, il dolore fisico, le malattie, una gravidanza alla fine. Solo l’amicizia con altre due ragazze, una ancora più giovane di lei che aveva sperato di diventare maestra, la aiuta a vivere giorno per giorno, pur con la consapevolezza che, se fossero state liberate, nessuna di loro avrebbe mai potuto essere riaccolta dalla famiglia. Sarebbero state bollate a vita.

      Le altre due narrative sono una storia di ricerche di un passato scomparso e, in una qualche maniera, si collegano con la narrativa principale. L’anziana Wang Di cerca qualche amico del marito che le sappia dire della sua vita prima che conoscesse lei, degli anni di guerra in cui qualcosa di terribile doveva essergli successo. Qualche amico che sappia dove lui andasse il 12 di febbraio e perché. Anche il ragazzino Kevin è alla ricerca di un tempo e di persone scomparse: è riuscito a decifrare un mucchietto di lettere scritte e mai spedite da sua nonna, c’è ancora tempo per porre un rimedio a quanto è accaduto? Potrà essere di aiuto a suo padre che ogni tanto ‘scompare’, sembra non essere più in mezzo a loro, depresso per la morte della madre?

      Tutta la grande Storia è una storia di scomparse, è vero. Quella raccontata da Jing Jing Lee intreccia le vicende di chi è scomparso fisicamente, per sempre o per un certo periodo di tempo- Wang Di, un bambino, un altro bambino, l’amica di Wang Di nella casa bianca e nera- con quelle di chi scompare per gli altri, ritirandosi in se stesso e diventando invisibile, e con la Storia ufficiale che fa ‘scomparire’ quello che vuole cancellare, come non fosse mai accaduto. Ed è un romanzo molto bello, con le sue varie tonalità, con una protagonista anziana che è passata attraverso l’inferno e un ragazzino precoce dall’aspetto gufesco a cui i grossi occhiali dalla montatura nera (i più economici) sembrano dare la capacità di ‘vedere’ e di capire meglio, di ritrovare quello che è scomparso.

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domenica 26 gennaio 2020

Erika Fatland, "La frontiera" Intervista 2020


                                       vento del Nord
                                       reportage

                                       
    Una intervista per posta elettronica non è la stessa cosa che chiacchierare a tu per tu con una scrittrice, ma la lettura de “La frontiera” mi ha entusiasmato tanto quanto quella di “Sovietistan” e mi ha lasciato con il desiderio di fare delle domande a Erika Fatland, di sentirla parlare ancora del ‘viaggio’, delle sue esperienze, dei paesi che aveva attraversato. Ecco le sue risposte, illustrate dalle fotografie che mi ha inviato, con un’anticipazione sul suo prossimo libro.


La mia prima domanda è una domanda sciocca, fatta da chi ama viaggiare ma non ha mai viaggiato per nove mesi di seguito e quasi mi scuso per fargliela: come è riuscita a fare la valigia? Come ha fatto a tenere puliti indumenti e biancheria durante il viaggio? Molto spesso non ci si ferma abbastanza a lungo in un posto per far asciugare il bucato…


    E’ piuttosto difficile fare la valigia per un lungo viaggio, soprattutto perché avevo bisogno di portare con me indumenti sia per climi caldi che freddi. Per impedirmi di portare troppe cose, in genere viaggio con una valigia relativamente piccola. Per fortuna ci sono negozi dappertutto, perciò, per esempio, prima di avventurarmi nella tundra della Mongolia, ho comperato a Ulan Bator qualcosa di più caldo. La pulizia non è stato un grosso problema. Mi fermavo sempre per due o più notti di seguito e ne approfittavo per lavare le mie cose. Quando affittavo un appartamento tramite Airbnb, mi accertavo che avesse una lavatrice.

Si è mai sentita sola?

     Sì, e spesso. La maggior parte delle sere uscivo per cenare da sola e passavo da sola il resto della sera in un’anonima stanza d’albergo. La connessione wifi era, in genere, molto scadente e non potevo neppure parlare tramite Skype con la mia famiglia a casa. Viaggiare da soli significa passare tanto tempo in compagnia di se stesso, ma significa anche riuscire a conoscere tante nuove persone. Spesso la gente è restia a parlare con un gruppo di viaggiatori, è più facile e più spontaneo quando ce n’è uno solo. Ho incontrato molte persone straordinarie e ho stretto nuove amicizie durante il viaggio.


E non ha mai avuto paura per la sua sicurezza personale? Non è facile per una donna viaggiare da sola. Ha mai avuto la sensazione, viaggiando nei paesi orientali, che il suo aspetto, così diverso da quello dei locali, in un certo senso la proteggesse?

     In termini statistici la cosa più pericolosa che si possa fare nella maggior parte dei paesi è salire su un’automobile. In Cina, ad esempio, ogni anno più di 250.000 persone restano uccise in incidenti d’auto. Ho avuto raramente problemi in quanto donna viaggiando da sola, e però le situazioni più difficili erano sempre su un’automobile. D’altra parte, spesso l’unica maniera di arrivare a destinazione era salire a bordo di un’auto di cui non conoscevo il guidatore. Non ho mai sperimentato situazioni veramente pericolose, ma, mentre la stai vivendo, non sai mai come una certa situazione andrà a finire. Non so se il mio aspetto fisico mi sia servito di protezione, di certo mi rendeva impossibile mescolarmi in una folla.


C’è stato qualche paese, tra di questi, in cui essere donna faceva differenza? Differenza nella maniera in cui la gente la trattava, per esempio?

       Ho sperimentato spesso che gli uomini mi sottovalutano perché sono una donna. In realtà può anche essere un vantaggio perché finiscono per dirmi cose che non avrebbero detto ad un altro uomo. Adesso sto lavorando ad un libro sui paesi alle falde dell’Himalaya e ho viaggiato in quell’area per otto mesi. In Pakistan ho visitato molti villaggi tremendamente conservatori, ma avevo un vantaggio in quanto donna straniera. Alla guida che mi faceva anche da interprete a volte non veniva permesso, come uomo, di entrare nelle case e a volte perfino nei villaggi, ma io, in quanto donna, non ero una minaccia ed ero la benvenuta ovunque. Ad uno scrittore uomo non sarebbe mai stato concesso di parlare con le donne nelle parti conservatrici del Pakistan, ma io potevo parlare sia con gli uomini sia con le donne.

Ha scritto che attraversare un confine è una delle cose più affascinanti: può cercare di spiegarci perché?

      Ormai è raro che attraversiamo confini. In Europa la maggior parte dei confini sono scomparsi e, quando ci avventuriamo più lontano, in genere prendiamo l’aereo. Attraversare un confine è estremamente affascinante perché non si va molto lontano, solo qualche centinaio di metri forse, e, all’improvviso, una volta che si è passati attraverso il controllo dei documenti e si arriva dall’altra parte, tutto è diverso: l’aspetto della gente e il modo in cui è vestita, la lingua, l’alfabeto, i riferimenti storici, la moneta, la politica…Solo il paesaggio resta uguale.

E tuttavia ci ricorda anche tutte le tragedie connesse con i confini: i confini sono più o meno  lunghe fila di cimiteri?

     La maggior parte delle guerre sono state combattute per questioni di confine. Guardiamo il confine della Russia, è cambiato di continuo per secoli, spesso come risultato di una guerra. È ironico che i confini non cambino sempre dopo una guerra ma rimangano gli stessi, soltanto più insanguinati.

Nel libro Lei dice che quasi certamente non è stata soltanto la Russia ad influenzare i paesi confinanti ma anche viceversa. In che maniera? Riesce a pensare ad un esempio, oppure questa è una delle domande senza risposta che il viaggio le ha lasciato?

      Prendiamo la Mongolia, ad esempio. I russi parlano ancora del ‘giogo tartaro’, anche se l’invasione dei mongoli avvenne quasi 800 anni fa, molti russi ritengono ancora Gengis Khan responsabile per aver ritardato lo sviluppo naturale della Russia.

Penso che ci sia di certo qualche paese, tra quelli attraversati, dove le piacerebbe tornare, per conoscerli meglio oppure semplicemente perché se ne è innamorata. Quali sono?
     Ho un debole per il Caucaso, specialmente per la Georgia. Ci sono stata due volte e spero andrò ancora molte altre volte. Mi sono piaciuti molto anche i paesi baltici, anche se non sono lontani come la Mongolia o la Corea del Nord e sono di certo meno esotici. Capisco perfettamente perché Thomas Mann amasse tanto la Penisola di Neringa in Lituania.


Non ci capita mai di pensare alla Norvegia come ad un paese che confina con la Russia. È semplicemente perché non sono mai state in guerra tra di loro, perché la Norvegia non è mai stata occupata? E- tornando alla domanda fatta prima- la Norvegia è stata influenzata dalla Russia? Oppure- la Russia è stata influenzata dalla Norvegia?

    In Norvegia l’ombra della Russia, il nostro grande fratello, non è mai lontana. Nel nord l’influenza è reciproca e lo è stata per centinaia di anni. A Kirkenes, ad esempio, la città più vicina al confine russo, tutti i cartelli stradali sono sia in norvegese sia in russo. Anche se è una vicinanza pacifica, la politica estera della Norvegia ne è sempre stata pesantemente foggiata. Il confine con l’Unione Sovietica è sto il motivo principale per cui la Norvegia è entrata nella NATO fin dal 1949.

La mia ultima domanda non è una domanda, ma un piccolo rimprovero: come può dire che la cucina georgiana è buona come quella italiana? Sono inorridita. Sono stata in Georgia e alla fine del viaggio non ne potevo più di mangiare khachapuri. Davvero, non è possibile fare un paragone…

       Adoro il khachapuri e non penso me ne stuferei mai ma, naturalmente, Lei ha perfettamente ragione. Non è giusto paragonare la cucina georgiana con la cucina italiana. L’Italia è un paese molto più grande della Georgia, ha più regioni e diverse tradizioni culinarie. Non credo che potrei mangiare cibo georgiano ogni giorno, ma so per certo che non avrei problemi a mangiare cibo italiano ad ogni pasto (tranne che a colazione- niente supera una colazione scandinava!)


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venerdì 24 gennaio 2020

Ismail Kadaré, “Aprile spezzato” ed. 2019


                                                  Voci da mondi diversi. Penisola balcanica


Ismail Kadaré, “Aprile spezzato”
Ed. La Nave di Teseo, trad. F. Celotto, pagg. 222, Euro 19,00

     È un romanzo breve, “Aprile spezzato” dello scrittore albanese Ismail Kadaré, poco più di 200 pagine. Eppure, se si avesse voglia di contare quante volte la parola ‘sangue’ appare su queste pagine, il numero sarebbe duplicato, forse anche triplicato. Perché è la legge del sangue che domina sull’Altopiano, una vasta area circondata dalle montagne, abitata da gente che è rimasta ancorata alla vecchia legge suprema del Kanun. E il corpo di norme del Kanun ruota intorno alla faida, in un susseguirsi senza fine di assassinii la cui origine e la cui motivazione si perdono nel tempo, sono state dimenticate, a volte hanno causato la fine di un’intera famiglia nella serie concatenata del io-uccido-te-uno-dei-tuoi-uccide-uno-dei-miei.
     È il 17 di marzo di un anno non precisato. Gjorg uccide l’uomo della famiglia dei Kryeqyqe che ha ucciso suo fratello. Se solo avesse potuto, Gjorg non lo avrebbe ucciso. Gli ripugnava essere uno strumento di morte. E poi, sapendo quale sarebbe stato il suo destino, non voleva morire. Intanto, sempre per adempiere alla legge, deve avviarsi verso la kulla d’Orosh, per consegnare al principe (che non è un vero principe, anche se tutti lo chiamano così) l’imposta del sangue. Strano viaggio, questo del giovane Gjorg, uno stravolgimento del solito viaggio di formazione, piuttosto un viaggio di preparazione alla morte.
E, durante il viaggio, fa un incontro che gli sarà fatale. Una coppia di sposi- lui uno scrittore, lei una donna molto bella- sono pure loro in viaggio, in una carrozza nera che, da un certo punto in poi, viene paragonata ad una bara (funesto presagio). Sono in luna di miele, anche se lei non era affatto convinta della scelta dell’Altopiano selvaggio come destinazione. Ed è sempre più perplessa, mentre procedono e il marito novello le spiega (in tono un po’ didattico, a dire il vero) le leggi ineludibili della gente del posto. Le sembrano incomprensibilmente assurde, di una crudeltà irragionevole. Non capisce come queste leggi possano regolamentare ogni aspetto della vita, come perfino i raccolti dipendano dalla legge del sangue: che senso ha coltivare i campi se la tua vita ha una scadenza prefissata?
      C’è però un altro risvolto della legge del sangue ed è la visita al castello del principe che lo rivela. I soldi. Quell’imposta del sangue richiesta per ogni morto ammazzato su cui si basa la ricchezza di Orosh, per cui è necessario che si continui a morire, perché la catena della legge del sangue non venga interrotta. E naturalmente viene malvisto chiunque ne scriva facendo risaltare la mercificazione della morte mentre, d’altra parte, chi- come lo scrittore in viaggio di nozze- parla soltanto dell’aspetto tragicamente romantico del kanun, viene accusato di cinismo.

     La tregua concessa a Gjorg è scaduta. È finita l’ultima sua licenza per vivere in questo mondo. Se riesce, può soltanto raggiungere una delle centosettantaquattro torri di rifugio sparse nell’Altopiano, cupe e ostili, con feritoie lunghe e strette. Sarà come essere murato vivo.
C’è però un desiderio di vita e di  amore, il ricordo della donna della carrozza che- lui non lo sa- non lo ha dimenticato. E il mese di aprile sarà per sempre spezzato.
     Vale la pena di conoscere meglio Ismail Kadaré, lo scrittore albanese a cui è stato conferito il Man Booker Prize 2005 per la sua opera. “Aprile spezzato” che leggo con grande ritardo (la prima edizione italiana è del 1993) è l’epopea tragica di un popolo arcaico, nonchè una riflessione sulla morte e sulla vita.

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mercoledì 22 gennaio 2020

Ana Johns, “La donna dal kimono bianco” ed. 2020


                                  Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
         love story


Ana Johns, “La donna dal kimono bianco”
Ed. Tre60, trad. Maria Carla Dallavalle    , pagg. 352, Euro 16,00

      C’è una statua di bronzo che rappresenta una bambina con le trecce, sulla punta di Shelter Island, vicino alla base navale di san Diego. È seduta, ai piedi porta un paio di scarpette rosse, guarda fisso il mare. Dall’altra parte dell’Oceano, a Yokohama, c’è la stessa statua. Ritrae una bambina giapponese, adottata da una coppia americana. In questa statua c’è tutto il significato della storia del romanzo “La donna dal kimono bianco” di Ana Johns.
     Stati Uniti, adesso. Il padre di Tori Kovač, giornalista di indagine, sta morendo. Un padre molto amato che l’ha amata molto, che le raccontava splendide storie, tante del tempo in cui- era giovanissimo- aveva prestato servizio militare in Giappone. Le diceva di aver avuto un’altra vita, prima. Di aver anche amato un’altra donna, tanto tempo prima di aver conosciuto la madre di Tori. Una lettera, rispedita al mittente, aprirà per Tori la porta su quell’altra vita.

     Giappone 1957. Naoko è innamorata, con tutto l’entusiasmo e l’ardore dei suoi diciassette anni. Sa che la sua famiglia si opporrà al suo matrimonio con Hajime. Il pretendente che suo padre ha scelto per lei è figlio di un uomo importante per i suoi affari. Mentre Hajime ha gli occhi azzurri, è americano, è il nemico.
      “Sayonara”, “Il mondo di Suzie Wong”, “Madama Butterfly”- sono tante le storie di amanti segnati dalle stelle in cui ‘lei’ ha il fascino esotico della donna orientale. Nell’immediato dopoguerra, quando gli americani erano la forza di occupazione in Giappone, queste storie d’amore furono comuni- che cosa ci si poteva aspettare? Ragazzi giovani, lontani dagli affetti di casa, ragazze di una bellezza insolita. E l’attrazione per l’insolito, per il diverso, era in entrambe le direzioni. Furono emesse disposizioni che ostacolavano le unioni interrazziali. Chi riuscì a sposarsi e poi ritornò in America con la moglie giapponese, dovette affrontare le leggi americane sui matrimoni misti. Le spose giapponesi che restavano in patria furono, d’altro canto, fortemente discriminate. Diecimila bambini nacquero prima, durante e dopo l’occupazione e moltissimi furono abbandonati negli orfanotrofi o dati in adozione, come la bambina con le scarpette rosse.

     Il romanzo di Ana Johns segue un doppio filone, con due donne che raccontano la loro storia. Quella di Naoko, nel 1957, è la sua storia d’amore, esaltante e infelice, con dei risvolti drammatici e una forte denuncia contro fabbriche d’angeli e la ristrettezza mentale di una vecchia cultura. Quella di Tori è un’altra storia d’amore, per suo padre, per non perderlo del tutto nella morte senza averlo interamente conosciuto. Perché Tori parte per il Giappone. Alla ricerca non sa neppure lei di chi. Ha in mano una lettera, un corto filo rosso. Ha in mente le descrizioni da favola di una casa con il tetto ricurvo, di una grande ancora. Ha al collo un sciarpa di seta rossa e bianca- lei non lo sa, ma sarà il suo segno di riconoscimento, come i suoi occhi azzurri, identici a quelli del padre.
      Due immagini molto giapponesi ricorrono di frequente nel libro e, in qualche modo, sono collegate l’una all’altra. Una è il kimono bianco del titolo, che non è un kimono comune, ma uno shiromuku, un kimono con un copricapo triangolare per una cerimonia di nozze- la madre di Naoko lo porterà alla figlia perché lo indossi: il cuore grande di una mamma tutto capisce e tutto accetta.  L’altra sono le statuine dei Jizo che indossano un berrettino e un bavaglino rosso e che servono per avvisare Ojizo-sama, il monaco che aiuta ad arrivare nell’aldilà i neonati che lo stano aspettando- sono diffuse nei cimiteri di tutto il Giappone.

      Questa seconda immagine, con il filone della storia che rappresenta, finisce per prevalere sulla prima e impedisce al romanzo di essere una banale storia d’amore condita da esotismo. E il romanzo che era iniziato con leggerezza romantica si ombreggia di tinte più cupe e ci ricorda i mali dei pregiudizi e delle discriminazioni.
Un’appendice molto interessante aggiunge il dettaglio che la storia di Hajime è, in parte, quella del padre della scrittrice, e fornisce spiegazioni su usanze della cultura giapponese- un romanzo che piacerà a chi sogna di andare in Giappone, a chi ci è stato e ne ha nostalgia.

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martedì 21 gennaio 2020

Dashdorj TSERENDAVA's demonstration of his personal technique of throat ...



                             Musica per un libro

Dashdorj Tserendava è il cantante mongolo di musica di gola che Erika Fatland ha incontrato e di cui ci parla in "La frontiera". Vale la pena di ascoltarlo.


lunedì 20 gennaio 2020

Erika Fatland, “La frontiera” ed. 2019


                                                     vento del Nord
                   reportage


Erika Fatland, “La frontiera”
Ed. Marsilio, trad. Culeddu, Putignano e Scali, pagg. 660, Euro 21,00

       Siete pronti a ripartire? Vi siete ripresi dal viaggio nei cinque ‘stan’ in cui ci aveva accompagnato la scrittrice e antropologa norvegese Erika Fatland? Sarà sempre lei, Erika, la nostra guida lungo i 60.932 km. del confine russo, nei quattordici paesi accomunati dall’avere lo stesso ingombrante e a volte problematico vicino e, se è pur vero che la Russia ha inciso pesantemente nella Storia e nell’identità dei popoli confinanti, è valida anche la domanda nell’altra direzione, come si chiede Erika: quanto e in quale maniera i paesi confinanti hanno creato e plasmato la Russia di ieri e di oggi?
    Il viaggio si annuncia affascinante. Lo sarà. Perché la parola confine, “granitsa” in russo, significa ‘margine netto’, e quando si attraversa un confine, si esce da una realtà per entrare in un’altra. Ci vuole elasticità mentale e disponibilità ad assorbire idee e realtà sempre diverse.
     Il viaggio si annuncia lungo. Lo sarà: Erika Fatland ha impiegato nove mesi per seguire la rotta del passaggio a Nord-est, lungo quei due terzi del confine russo che corrono lungo la costa, da Vladivostok a est fino a Murmansk a ovest, e poi dalla Corea del Nord in Mongolia, attraverso il Mar Caspio e poi il Mar Nero e il Caucaso, su, ancora più su, attraverso l’Ucraina, la Polonia, i paesi Baltici, la Finlandia (‘Tornare a Helsinki per me era davvero come tornare a casa’), fino agli ultimi 196 km. del confine tra Norvegia e Russia.
      Il viaggio si annuncia non facile e non agevole. Lo sarà. Ci sarà il treno moderno e veloce della Cina, ma ci saranno soprattutto treni lenti attraverso paesaggi bellissimi ma anche monotoni, minibus scassati, di quelli che ti lasciano la schiena a pezzi, taxi che chissà se ci portano a giusta destinazione, traghetti che, sì, dovrebbero partire, ma non si sa quando, e faremo anche l’esperienza del kayak in Norvegia.
grattacielo Ryugyong a Pyongyang
      Il viaggio si annuncia ricco di informazioni, di storie e di immagini. Lo sarà. “La frontiera” di Erika Fatland è, sulla carta, come il grand tour che segnava il completamento della formazione per i giovani dell’800, una straordinaria esperienza. Di più ancora. Nonostante il titolo, “La frontiera”, nonostante l’itinerario che costeggia questa frontiera, nonostante il sentimento di tristezza che dovremmo provare perché, citando Kapušinski, “Infiniti sono i cimiteri per tutte le vittime che hanno difeso un confine”, noi avvertiamo invece una sorta di esaltazione, l’impressione di un abbattimento delle frontiere, di un’estensione della conoscenza, di un orizzonte che si sposta di continuo davanti al nostro sguardo. Ci pare di essere come uno degli uomini in volo nei dipinti di Chagall (il viaggio di Erika tocca anche Vicebsk, patria del pittore- “dà le vertigini pensare a tutto quello che è scomparso, un intero popolo, una intera cultura, cancellati dalla mappa”) e guardare dall’alto i 330 metri del più alto albergo non utilizzato del mondo in quello stato di proibizioni e di controllo totale che è la Corea del Nord, le distese mongole un tempo percorse dalle armate di Gengis Khan,
tendendo l’orecchio al canto di gola che è una modalità espressiva prettamente mongola, e poi sorvolare Astana, la nuova capitale del Kazakistan con le geniali costruzioni di Norman Foster, arrivare alla segretissima (in epoca sovietica) base spaziale Bajkonur da cui partirono i vari Sputnik e dopo raggiungere le bellissime Odessa e Leopoli. E andare oltre ancora. E ascoltare. Ascoltare di storie lontane e vicine con cui Erika Fatland ci strega. Vicende belliche e aneddoti, storie terribili di deportazioni di massa, di carestia e di fame, di condizioni di vita tuttora primitive, di paura e anche di sogni.
Astana

       “La frontiera” è un libro più ambizioso di “Sovietistan” e deve essere stato più difficile scriverlo, proprio per la vastità del territorio percorso durante il viaggio. C’era talmente tanto da dire che a tratti avvertiamo il peso di tutte le note storiche che riguardano quei quattordici paesi di frontiera e ci sembra che le informazioni (assolutamente necessarie) prendano il sopravvento sugli scambi di chiacchiere che nascono dagli incontri casuali e che tanto rivelano sulle consuetudini e gli stili di vita.
    Erika Fatland dice di ritrovarsi ad avere, alla fine del viaggio, più domande che risposte. Noi lettori, alla fine del libro, ci ritroviamo più curiosi di sapere di più, di una curiosità che non sapevamo di avere.

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sabato 18 gennaio 2020

Antonio Manzini, “Ah l’amore l’amore” ed. 2020


                                                                   Casa Nostra. Qui Italia
                                                                   cento sfumature di giallo


Antonio Manzini, “Ah l’amore l’amore”
Ed. Sellerio, pagg. 334, Euro 15,00

      Sala operatoria dell’ospedale di Aosta. Ma no, non stanno operando Rocco Schiavone. Rocco Schiavone è già stato operato, gli hanno tolto un rene, trapassato da una pallottola. A Rocco è andata bene, si sta riprendendo. E invece il paziente sul tavolo operatorio, il ricco imprenditore Riccardo Sirchia (stesse iniziali di Rocco, che coincidenza), muore. Un caso di malsanità? La sacca del sangue per la trasfusione non era quella del suo gruppo sanguigno. Mentre incomincia il linciaggio mediatico del chirurgo, Rocco fiuta la possibilità di un omicidio. Il premio dell’assicurazione sulla vita di Riccardo Sirchia era altissimo: a chi poteva fare gola? E inoltre l’impresa stava attraversando un periodo difficile. Riccardo Sirchia lascia una vedova, un figlio adulto e un figlio illegittimo, un bambino.
    Si accendono di giallo i corridoi dell’ospedale, in questa nuova puntata della serie con Rocco Schiavone. Fuori scende una pioggia sottile, nell’aria una tristezza che ben si accompagna all’atmosfera dell’ospedale e all’umore di Rocco che ha cambiato le Clarks con le ciabatte ma è irascibile come sempre, intollerante con il poveraccio che condivide la stanza con lui, incurante degli ordini dei medici- si rifiuta di mangiare i pasti che gli porta l’infermiera, si nutre di caffè e panettoni che trova al bar, fuma di nascosto sulle scale anti-incendio. E poi, però, ha quei suoi momenti di tenerezza, quelli che ha già tirato fuori con Gabriele (il ragazzo che continua ad ospitare con la madre in casa sua), quelli che lo fanno diventare straordinariamente gentile e compassionevole con il vecchio generale che si è infilato nel suo letto per sbaglio, perché non c’è più con la testa. Sono i momenti alla Dr. Jekyll e Mr. Hyde di Rocco, quelli in cui le sue asperità si smorzano e sembrano essere solo la sua barriera di difesa dal dolore. Perché Marina, la moglie morta, è ancora lì che gli parla, perché la notizia che c’è un acquirente per la casa di Roma lo rabbuia, perché dimenticare è impossibile.

    Rocco è sicuro che qualcuno abbia cambiato le etichette sulle sacche del sangue e le ricerche seguono il filo rosso dei meandri dell’ospedale, vagliano le riprese delle telecamere interne- è un mystery insolito, questo, con un’indagine così circoscritta. Ed è insolito perché- sono l’aria festiva di fine anno, ‘anno nuovo, vita nuova’, che alimentano le varie storie d’amore che contrastano con l’umore nero di Rocco e la malattia e la morte nell’ospedale? “Ah l’amore l’amore”- ci sono ben tre storie d’amore nel romanzo, e più diverse di così l’una dall’altra non sarebbe possibile. 
Quella di Antonio Scipioni (nominato vicecommissario in attesa che Rocco torni in servizio) è una storia da commedia buffa, con un girotondo di ben tre donne e per di più imparentate tra di loro; quella del buon pugliese Casella, così goffo e timido e impacciato, è come lui e ispira tenerezza;  anche quella del nostro Rocco, infine, è come lui, selvaggia e sfrenata.

   La trama ‘gialla’ di “Ah l’amore, l’amore” è un poco esile ma buona e convincente,  mentre il finale di sesso e sentimento non mi è parso adeguato al romanzo, anche se percorso da una comicità e da un filo di ironia che lo salvano dagli eccessi. E però leggere un romanzo di Antonio Manzini assicura sempre momenti di piacevole distrazione.

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