mercoledì 29 maggio 2019

Laura Forti, “L’acrobata” ed. 2019


                                                                 Casa Nostra. Qui Italia
                                                                 Diaspora ebraica
         storia di famiglia

Laura Forti, “L’acrobata”
Ed. Giuntina, pagg. 112, Euro 12,00

      Fa veramente l’acrobata, il pagliaccio in un circo, il nipote a cui si rivolge la nonna nelle sue mail raccontandogli un secolo di storia attraverso la storia della sua famiglia in poco più di cento pagine dense, dense di fatti, di dolori, di morti, di fughe, di abbandoni e di nuovi inizi. Eppure abbiamo subito la sensazione che il nipote non sia l’unico acrobata sulla scena. Sono stati acrobati i bisnonni, funamboli su una corda tesa tra la Russia e l’Italia e poi il Cile. Un’acrobata la nonna che sta scrivendo, in equilibrio tra Cile e Stati Uniti e Svezia. Un acrobata suo padre Pepo, quello che ha messo più a rischio la sua vita e ha pagato i suoi ideali con la morte.
     Una fotografia che balza fuori non da un cassetto, ma da un file che si apre sul computer, è l’inizio della corrispondenza che è in realtà un lungo monologo. “E’ lui mio padre?”, aveva chiesto il nipote indicando un ragazzo con un grosso maglione di lana, seduto sulla neve, gli occhi seri, una ruga sulla fronte. “Forse è arrivato davvero il momento che io ceda, che ti racconti”, perché “i ricordi sono come schiaffi, sono zavorra e c’è il rischio che ti facciano affondare”, ma “che può essere una persona senza ricordi?”.

    Pesano i ricordi. E quelli della nonna, che incominciano da lontano, dalla fuga dalla Russia bianca dei suoi propri genitori, convergono tutti verso un giorno, il 15 di giugno 1987. Che cosa è successo quel giorno? Non è facile per la nonna raccontarlo. Eppure non c’è ricordo della nonna che non riserbi un frammento della sua mente al figlio perduto, alla costante domanda se qualcosa sarebbe potuta andare diversamente. E’ come se il figlio, il padre di “totopajazo.com”, avesse preso su di sé la responsabilità di mettere fine a tutte le ingiustizie, al continuo peregrinare della sua famiglia. In Italia dapprima. Poi Mussolini e le leggi fasciste li avevano costretti ad un nuovo esilio. Il Cile, dunque. Con il terribile terremoto del 1939, subito dopo il loro arrivo. Ancora in fuga, ancora in esilio, dopo il golpe del 1973. È da questo momento, con la serie di scuole militari frequentate da Pepo, che  questi prende il cammino che lo porterà alla tragica fine. A quel 15 giugno 1987.
"L'acrobata" sul palcoscenico
      C’è tutto il dolore del mondo concentrato in queste pagine di Laura Forti. Il dolore taciuto, quello che i pagliacci con una lacrima dipinta sul viso color gesso camuffano con i loro lazzi e una pallina rossa sul naso. Il dolore dei pogrom, delle discriminazioni, delle fughe e della paura. Il dolore di sentirsi senza identità e di doversene ricreare una in ogni nuovo approdo. Il dolore della perdita- aveva dovuto lasciare indietro una figlia, la nonna che scrive, e poi aveva sentito il figlio allontanarsi da lei su un percorso dove lei non poteva seguirlo. Perché Pepo non era fuggito ancora per mettersi al sicuro? Perché era rimasto a Santiago? Per lui, per suo figlio, per totopajazo, per interrompere le fughe e gli abbandoni. Per non lasciarlo da solo nell’ingiustizia e nel pericolo.
     “Grazie per quelle lacrime, totopajazo.”, sono le parole che chiudono questo libro che nasce dalla storia vera del cugino della scrittrice. Esemplare.

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domenica 26 maggio 2019

You-jeong Jeong, “Le origini del male” ed. 2019


                                                           Voci da mondi diversi. Asia
cento sfumature di giallo


You-jeong Jeong, "Le origini del male"

Ed. Feltrinelli, trad. Massimo Gardella, Euro 17,50

    Rosso. Rosso come il sangue. E’ il colore che domina tutta la prima parte del thriller psicologico “Le origini del male” della scrittrice coreana You-jeong Jeong. La copertina del libro, d’altra parte, è significativa e molto inquietante. Una piscina in cui l’acqua sembra sangue, la testa di un nuotatore che, con la cuffia e gli occhialetti rossi, si mimetizza con l’acqua, grossi tentacoli mostruosi che escono dall’acqua, formando dei gorghi.
   Yu-jin, ventisei anni, si sveglia una mattina coperto di sangue. Sangue dappertutto intorno a lui. Sangue sulle scale. Al piano di sotto, in una pozza di sangue, il corpo della madre con la gola tagliata.
A questo punto, chi non legge volentieri i thriller cruenti (e questo, con tutto questo sangue, sembra esserlo) è tentato di interrompere la lettura. E invece resta preso dalla curiosità di sapere che cosa è successo e, anche quando sa- ben presto- chi sia il colpevole, è spinto ad andare avanti, a cercare di capire le motivazioni del personaggio, a ricostruire il passato.
     Yu-jin non ricorda nulla della notte trascorsa. Soltanto che è sgattaiolato fuori di nascosto. Poi, a poco a poco, pezzo dopo pezzo, i frammenti dei vaghi ricordi acquistano nitidezza e si ricompongono. Svelando tutto l’orrore. Da moltissimi anni Yu-jin segue una terapia farmacologica perché soffre di epilessia e tuttavia i farmaci gli causano feroci mal di testa e un certo qual annebbiamento. All’insaputa della madre lui, ogni tanto, quando vuole essere più lucido (come nei giorni precedenti in cui doveva affrontare l’esame di ammissione a giurisprudenza), sospende le medicine. La madre, però, sa quali furie possa scatenare nel figlio la mancata assunzione dei farmaci. Il figlio non sa che la madre sa molto più di lui, che lo tiene sotto controllo senza che lui se ne accorga, che trema sempre per lui.

      L’interesse della trama è nel seguire passo dopo passo la sempre maggiore consapevolezza di Yu-jin, il suo lasciare emergere il passato con la tragica morte del padre e del fratello, scoprire la verità sul suo male ed affrontare la realtà dei sentimenti della madre per lui. Sua madre, avrebbe preferito che lui morisse? Le erano sfuggite proprio queste parole. Amava di più suo fratello? Era per quello che aveva adottato il ragazzo che assomigliava a suo fratello come una goccia d’acqua?
E, soprattutto, il dramma della stessa esistenza di Yu-jin pone l’angosciosa domanda: esiste un gene del male? Se sì, deve essere considerato come una malattia? E come si può gestire la persona che ne è afflitta?
      A tratti tremendamente lucido, a tratti allucinante, macabro, spaventoso, il romanzo di You-jeong Jeong non è una lettura facile. E’ raggelante. E’ un page-turner con una costruzione perfetta. Per chi non è facilmente impressionabile.

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sabato 25 maggio 2019

Alex Michaelides, “La paziente silenziosa” ed. 2019


                                          Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
cento sfumature di giallo

Alex Michaelides, “La paziente silenziosa”
Ed. Einaudi, trad. S. Pezzani, pagg. 340, Euro 15,30

   In un gioco di parole, mai come per questo thriller psicologico “La paziente silenziosa” dovrò essere silenziosa anche io, dicendo il meno possibile, per lasciare che il lettore gusti appieno il finale. Che però non sarà del tutto una sorpresa, se si è sull’avviso di stare in guardia, di cogliere ogni minimo indizio ‘sospetto’ nel gioco che fa parte del godimento della lettura di un libro di indagine poliziesca- la sfida per il nostro acume: siamo abbastanza attenti e perspicaci da capire chi è il colpevole?
      Ne “La paziente silenziosa” nessuno ha alcun dubbio: Alicia Berenson, pittrice affermata, ha ucciso (sparandogli addirittura in faccia) il marito Gabriel, fotografo. Non può essere stato nessun altro: lui era legato ad una sedia, lei era lì, in piedi, la pistola in mano. E, dopo, non aveva più detto una parola. Aveva solo dipinto un ultimo quadro prima di essere internata in un ospedale per malati di mente. Un quadro rivelatore a cui aveva dato il titolo di Alcesti, come la protagonista della tragedia di Euripide che si offre di morire al posto del marito, viene ‘salvata’ e riportata indietro dall’Ade da un dio misericordioso per chiudersi però in un totale silenzio. Silenzio a parte, che cosa ha in comune l’eroina greca con Alicia? Un giovane psicologo, Theo, è attratto da questo caso singolare, riesce ad entrare nello staff dell’ospedale con il preciso intento di aiutare Alicia, di riuscire a farla parlare.

     C’è più di una narrativa ne “La paziente silenziosa”- quella molto intima del diario di Alicia, il resoconto del lavoro ospedaliero di Theo, e la storia di due coppie che, in qualche maniera strana, sembrano essere l’una il doppio dell’altra. Alicia e Gabriel, Theo e Kathy. Il passato di un’infanzia a dir poco difficile sia per Alicia sia per Theo, bellezza e carriera sfolgorante per Gabriel e Kathy. Mentre Theo sembra cadere nella trappola più scontata e pericolosa per uno psicologo- essere sedotto dalla sua paziente- noi ci domandiamo quale sia il vero volto di ognuno di questi personaggi. Perché ha scelto di tacere, Alicia? Perché si identifica con Alcesti, se questo è il titolo che ha dato al quadro? E perché, se è per quello, ha deciso Alcesti di non parlare più al ritorno dall’Ade, nella tragedia di Euripide? Gli altri interpreti del dramma di Alicia, il cognato e il direttore della galleria d’arte dove Alicia esponeva i suoi quadri, non sono più limpidi dei personaggi principali. Siamo portati a dubitare di tutti e di tutto quello che dicono, in questo gioco di specchi.

    Lo scrittore (figlio di padre greco-cipriota e di madre inglese) è straordinariamente abile nel manipolare il lettore, nel giocare con gli indizi che semina come sassolini lungo la trama, nel confondere le tracce con le sue narrative parallele che finiscono per riunirsi alla fine, quando tutto si chiarisce. Non prima, però, di aver dato una stretta di vite alla nostra ansia.
     Ben scritto, anche se un poco ingenuo e scarsamente credibile in alcuni punti, un insolito thriller psicologico che, di certo, si fa leggere d’un fiato.

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martedì 21 maggio 2019

Jane Gardam, “Figlio dell’Impero Britannico” ed. 2019


                                    Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                                                           romanzo 'romanzo'


Jane Gardam, “Figlio dell’Impero Britannico”
Ed. Sellerio, trad.A. Bracci Testasecca, pagg. 389, Euro 15,00

       Venivano chiamati ‘orfani del Raj’, orfani dell’Impero Britannico, i figli dei funzionari britannici di servizio in Oriente. Perché avevano sì e no cinque anni quando erano mandati per nave in quella che era una sconosciuta Madre Patria per essere affidati ad una famiglia ed in seguito frequentare una scuola. Spesso finivano per dimenticarsi dei veri genitori. A volte si trovavano bene con i genitori ‘adottivi’. A volte- come nel caso di Edward Feathers, protagonista del romanzo di Jane Gardam- erano anni da incubo, da essere cancellati dalla memoria.
    Edward Feathers, rimasto orfano di madre alla nascita, ignorato dal padre, strappato dalle braccia della ragazzina che si era presa cura di lui laggiù, in Malesia, non affrontava mai il ricordo di ‘mamma Dibbs’. Sarà solo alla fine del romanzo che ne sapremo di più di quegli anni condivisi con due cugine e un altro bambino che piangeva sempre. I traumi infantili non impediscono a Edward di studiare, di diventare avvocato, di fare fortuna e di ritornare come giudice a Hong Kong. C’è un detto scherzoso, riassunto in un acronimo- FILTH-, Failed In London Try Hong Kong. Cioè, se non riesci a fare carriera a Londra, prova con Hong Kong. In più, filth significa ‘immondizia’…Old Filth è il soprannome con cui è conosciuto Edward Feathers. Famoso e molto stimato, peraltro. Una leggenda di cui tutti hanno sentito parlare, anche in Inghilterra.

     Old Filth è tornato da poco con la moglie Betty a vivere in Inghilterra, dopo il pensionamento, dopo che Hong Kong ha smesso di essere una colonia. Ha quasi ottant’anni e la moglie muore all’improvviso. È spaesato senza avere a fianco la donna a cui aveva fatto promettere che non lo avrebbe mai lasciato- quanti abbandoni, quante perdite aveva già subito. I genitori, la ragazzina malese, il compagno di scuola che era diventato più che un amico, un quasi-fratello tra le maligne insinuazioni degli insegnanti, l’intera famiglia dell’amico che lo aveva ‘adottato’ e con cui Edward passava tutte le vacanze finché, davanti a quella prova durissima che è la perdita di un figlio in guerra, gli avevano chiuso le porte in faccia. No, lui non era un altro figlio. No, lui non poteva condividere il loro dolore. Presente e passato si alternano. I ricordi si affollano senza ordine nella mente di Old Filth. Paesaggi e profumi anche. Sentimenti. L’odio viscerale per l’altro giudice, Veneer, che- singolare coincidenza- è il suo nuovo vicino di casa. E che, ironia della sorte, diventerà il suo unico amico. Adesso che Betty non c’è più. Betty di cui sapeva così poco- se ne accorge dal necrologio.
     Old Filth si mette di nuovo al volante. Vuole rivedere le cugine. Rivisitare il posto dove era di servizio durante la guerra. E’ il viaggio di iniziazione al contrario che terminerà dove è incominciato. E il romanzo- bellissimo- non è solo la riflessione di un uomo anziano giunto alla fine della vita, non è solo la considerazione- a tratti velata di rimpianto e nostalgia- per quello che è stato, ma anche una riflessione sulla fine di un’epoca. E allora gli orfani del Raj non sono più soltanto i bambini cresciuti lontani dai genitori votati ad un ideale più grande ma anche tutti i britannici che si sono ritrovati rimpiccioliti. Geograficamente ed economicamente. E nell’immaginario collettivo.

     “Figlio dell’Impero Britannico” è il primo di una trilogia. Seguono “L’uomo col cappello di legno” e “Last friends”. Avevo già letto il secondo, e lo avevo amato molto. La nuova edizione è una felice ristampa della Sellerio. Ognuno dei tre romanzi si può leggere come romanzo a sé- Jane Gardam fa quello che Lawrence Durrell aveva fatto nel “Quartetto di Alessandria”: la trama di ogni libro è la stessa, ma diversa perché al centro di ogni romanzo c’è un diverso personaggio che però ha un ruolo più o meno importante anche negli altri. Un punto di vista differente, una sensibilità differente, storie nascoste che vengono rivelate.
    Romanzo molto bello su un uomo sul finire della vita e sul tramonto di un’epoca. Da leggere. Aspettando il secondo e il terzo.

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lunedì 20 maggio 2019

INTERVISTA A HALLDORA THORODDSEN, autrice di “Doppio vetro” 2019


                                             Vento del Nord
                                           love story
                                       

      Nelle occasioni come quella del Salone del Libro di Torino, quando gli scrittori presenti sono tanti e le interviste vengono fatte in un grande albergo, mi capita di fare un gioco con me stessa, scrutando i volti e gli abbigliamenti delle persone che vedo intorno a me, cercando di indovinare chi sia chi- molte sono facce note, molte sono nuove, quali saranno gli scrittori o le scrittrici? Da dove verranno? Halldóra Thoroddsen non passava inosservata, difficile capire il perché, difficile anche capire il paese di origine, avrebbe potuto anche venire da uno dei paesi dell’Europa dell’Est. Un particolare la tradiva: indossava uno spolverino leggero, troppo leggero per questo maggio insolitamente freddo e piovoso. Si aspettava un clima più caldo? Oppure, venendo dall’Islanda, per lei questo era già caldo a sufficienza?

      L’amore in tarda età: perché viene guardato con un filo di derisione? Di che cosa hanno paura i figli della donna che è la protagonista del suo romanzo? Anche il figlio di Sverrir, quando arriva dall’America, sembra guardare la donna dall’alto al basso, quasi fosse una donna di strada.
       Penso che l’immagine che abbiamo di una donna anziana è quella di una nonna generosa. Non sappiamo che ruolo dare ad una persona anziana, continuiamo a pensare che nella terza età non sia possibile innamorarsi. Molto probabilmente siamo rimasti attaccati all’immagine che si aveva di un anziano tanto tempo fa, quando era inconcepibile l’amore in tarda età, avere ancora degli interessi da vecchi. E’ qualcosa di nuovo. Per il figlio dell’uomo, che viene dall’America, la faccenda è ancora più complicata perché sua madre è separata da suo padre, il protagonista maschile della vicenda. Il figlio avverte una sorta di gioco di potere, nella sua testa permane l’idea di una famiglia felice che non c’è più, anche se suo padre non aveva mai chiarito la situazione, non aveva mai divorziato. Questo è un dettaglio del carattere del protagonista- il non aver messo definitivamente fine al suo matrimonio, il lasciare che sia la donna a gestire i sentimenti. Per le generazioni più vecchie i sentimenti sono sempre affidati alle donne.

Perché la protagonista del libro non ha nome, mentre invece conosciamo quello dell’uomo?
    La protagonista del mio libro è la donna. Ho pensato che volevo mettere non ‘una’ donna al centro del romanzo, ma molte donne. Ci deve essere un uomo nella storia, se no non avrebbe senso, ma per questo l’ho lasciata senza nome: perché volevo che lei fosse ‘l’idea’ della donna.

Dapprima la donna non vuole cedere a questo sentimento, poi accetta l’invito di Sverrir. Che cosa le fa cambiare idea?
      La donna ha la sua vita e deve scegliere se vuole vivere un certo tipo di vita, la sua, o cambiare, per amore. Si deve fare sempre un sacrificio per quello che vuoi o che ami e lei ha paura che, alla sua età, questo cambiamento la disturberà troppo. Nella prima metà del libro c’è questo conflitto dentro di lei: vuole e non vuole.

Prima di questo incontro, qualcuno dice alla donna che i vedovi leggono sempre gli annunci mortuari per poi farsi avanti: sono meno capaci, gli uomini, di cavarsela da soli? Lo sono per motivi pratici o perché devono sempre esercitare il loro ego, comandare qualcuno, oppure perché hanno meno risorse interiori?
     Penso che gli uomini di quella generazione morirebbero davanti ad un frigorifero, sono del tutto incapaci di fare qualunque cosa se erano abituati ad avere una moglie. Di certo sono più incapaci delle donne. Quindi è prima di tutto per motivi pratici che cercano una donna. È la donna che si prende cura dei sentimenti, la donna è più equipaggiata per fare amicizie e mantenerle.

La prima volta che Sverrir si siede accanto alla donna per parlare, è appena uscito dalla biblioteca e ha in mano “Morte a Venezia”. È un messaggio per il lettore? Dobbiamo capire che Sverrir non è un vedovo senza risorse ed è per questo che piace alla donna?
   No, non c’è un messaggio speciale per il lettore. Ho cercato di far capire che Sverrir è un uomo curioso della vita, che gli interessa la letteratura. Mi piaceva il libro di Mann, mi piaceva la parola ‘morte’ nel titolo. Sverrir non è così vulnerabile come tanti altri uomini, dopotutto era un chirurgo, è abbastanza simile alla donna, anche se lei è più appassionata di letteratura- è per questo che Sverrir piace alla donna. Sverrir è anche piuttosto simile a suo marito nella maniera in cui lui non parla di sentimenti. Entrambi sono semplici, non sono persone analitiche, sono pratici, un po’ come tutti gli uomini, del resto.

Le ultime pagine del libro sono molto tristi. Ci sentiamo felici per la luce che ha illuminato l’ultima parte della vita della donna. È uno dei significati del libro, carpe diem, afferra quello che la vita offre perché la fine di tutto si avvicina veloce?
     All’inizio ho pensato alla tendenza che abbiamo di collocare tutto in scompartimenti, nella vita: bambini- età di mezzo- posto di lavoro, e lasciamo fuori gli anziani. Il sistema in cui viviamo crea anime sole e isolate. Scrivendo questo libro volevo mostrare come viviamo in una società che ci mette in scompartimenti e come invece dovremmo rimettere tutto insieme creando una continuità. Dobbiamo cambiare la maniera di trattare le persone: gli anziani hanno un ruolo, hanno i ricordi del passato, sarebbe bene che potessero parlare con più persone. Avevo in mente un ideale di continuità e interezza, al posto dell’isolamento di ogni fascia di età.

Pensa che questo isolamento degli anziani, questa loro mancanza di un ruolo, si avverta in modo diverso in paesi e in culture diverse? Forse si avverte di più in paesi in cui la famiglia non ha più forti legami?
     Sì, probabilmente è vero che il ruolo degli anziani è diverso nelle varie culture. A Londra c’è un Ministero della Solitudine che si prende cura degli anziani e dei disabili. In molte società moderne questo è un grosso problema. Probabilmente se la famiglia ‘tiene’, se i legami famigliari sono forti, questo problema è meno avvertito. Ed è comunque per questo che per la donna l’unica maniera per uscire dalla solitudine era innamorarsi, era l’amore romantico.


Nel libro ci sono bellissimi passaggi di pura poesia, ad esempio quando la donna guarda fuori dalla finestra. È stato difficile condensare così tanto in poche pagine? Per quello ricorre alla poesia? Perché è questo che fa la poesia, dopotutto, no? Dire tanto in poche parole.
     È il mio stile, io sono una poetessa, la poesia mi ha insegnato a tagliare i contorni e lasciare l’essenza.
Le righe in corsivo che intervallano la storia, sono lì perché volevo avere l’adesso fuori della vicenda, volevo indicare quello che succedeva in quel momento.

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recensione e intervista saranno pubblicate su www.stradanove.it



domenica 19 maggio 2019

Halldóra Thoroddsen, “Doppio vetro” ed. 2019


                                                     vento del Nord
       love story

Halldóra Thoroddsen, “Doppio vetro”
Ed. Iperborea, trad. Silvia Cosimino, pagg. 106, Euro 15,00

     I doppi vetri alle finestre sono un’esigenza fondamentale, se si vive in Islanda. Nel romanzo “Doppio vetro” di Halldóra Thoroddsen questi vetri che sono una barriera contro il freddo sembrano acquistare anche un altro significato- sono uno schermo di difesa per l’anziana protagonista, difesa da coinvolgimenti con la vita che non si sente più in grado di affrontare, sono un filtro attraverso cui osservare quanto accade in quel mondo che inizia ad apparire sfuocato e non più ‘suo’. E il suo stare alla finestra è il suo essere soprattutto spettatrice e non più attrice nello spettacolo della vita. Le oche che passano in volo. Le luminarie in cielo accese dai brevi giorni invernali. “Dalla finestra a nord: glauco mare mugghiante, una nave entra nella baia.” Uno storno che zampetta. Una coppia che continua a baciarsi incurante dei fiocchi di neve.
     E’ vedova, ha dei figli. Non avrebbe mai immaginato che il marito, così allegro e sempre in forma, se ne potesse andare prima di lei. Come si misura il tempo quando si è anziani? Il tempo è misterioso, sembra scorrere lento oppure passa in un attimo.
Come il tempo di questo breve romanzo di Halldóra Thorodssen. Difficile da quantizzare. Quanto tempo passa tra il giorno in cui lei si accorge che un uomo con l’aria distinta la guarda a quello in cui lo stesso uomo le chiede se può sedersi al suo tavolo? Lui ha in mano il libro “Morte a Venezia”, lei ha visto il film. Forse non è la maniera più allegra per iniziare a conoscersi, parlare di Aschenbach e la sua rincorsa della giovinezza. Lui si chiama Sverrir e ha 75 anni. Lei ne ha 78. “E’ una storia vecchia, un uomo incontra una donna.” “essere innamorati alla sua età è un penoso canto del cigno.” E, però, lei “è affamata di altri giorni ancora.” E’ curiosa di tutte le novità. E perché rifiutare l’invito di lui? Perché rinunciare a sentirsi ancora viva, anche se “sull’orlo della fossa”?
    Con delicatezza, con poesia, con leggerezza, con un sorriso sulle labbra che lascia intendere che non si deve prendere tutto troppo sul serio, Halldóra Thorodssen ci parla di un amore in tarda età.
Anzi, la parola ‘amore’ non viene mai detta. Sono solo i giovani, come quelli che continuano a baciarsi sotto la neve, che parlano d’amore, che si fanno illusioni. Alla donna e all’ex chirurgo (separato dalla moglie e con figli in America) è sufficiente stare bene insieme, condividere le giornate, un appartamento in un residence per anziani. Perché no? Perché i figli di lei cercano di ostacolarla? Perché devono pensare che dia segni di senilità? E poi tutto passa in un soffio. Un passo dopo l’altro. Scompaiono gli amici di sempre. Uno dopo l’altro. Se ne andrà anche lei. E il breve romanzo di Halldóra Thoroddsen diventa non solo un canto del cigno dell’amore ma anche un canto del cigno della vita, una piccola lezione sull’invecchiare, sul come accettare che arrivi il momento- “E’ pronta a deporre le armi e il potere”. E ad andarsene, stanca.
   Un piccolo grande libro.

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a breve seguirà l'intervista con la scrittrice
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venerdì 17 maggio 2019

INTERVISTA AD ANNETTE HESS, autrice de “L’interprete” ed. 2019


                            Voci da mondi diversi. Area germanica
                            seconda guerra mondiale

     Quello con Annette Hess era stato l’incontro che avevo programmato per primo, al Salone del Libro di Torino. Sono una figlia della guerra e il suo libro sul primo processo ai criminali nazisti in cui la giuria era tedesca mi aveva coinvolto in maniera profonda. Ero ansiosa di parlare con Lei, di farle delle domande che mi chiarissero alcuni punti su cui continuavo a pensare.

Il titolo originale “Deutsches Haus” mi sembra più complesso di quello italiano. Ci leggo un tono ironico, qualcosa che ha a che fare con l’ideale delle 3 K, Kinder- Küche- Kirche, una facciata di perbenismo e bontà e innocenza. Sbaglio?

    Il titolo in tedesco è una metafora per il quadro della Germania in quell’epoca, esattamente come ha detto Lei, le 3 K- Kirche, Küche, Kinder. In Germania, in qualsiasi cittadina c’è una Deutsches Haus ancora oggi. Quindi è una metafora per dire che ancora oggi possiamo trovare questa forma di razzismo. E sì, è vero, il titolo “Deutsches Haus” ha un significato più complesso di quello italiano.

Chi è la vera Eva? Un’interprete con una storia simile a quella del libro?
    Cinque anni fa ho ascoltato 400 ore di registrazione del processo di Francoforte. Non avevo ancora l’idea di scriverne e sono rimasta colpita dall’interprete dal polacco che, con il suo modo di fare tranquillo, ha dato sicurezza ai testimoni. Il secondo modello per Eva è stata mia madre che è nata nel 1942 e che negli anni ‘60 era ignara e ingenua, inconsapevole, proprio come è il personaggio di Eva all’inizio. Mia madre ha preso coscienza dell’Olocausto solo negli anni ‘80.

Se mettiamo a confronto il processo di Norimberga del 1945 e il processo di Francoforte del 1963, osserviamo che l’impatto dei due processi fu molto diverso sui tedeschi. In quale misura e perché?

     È impossibile confrontare il processo di Norimberga con quello di Francoforte. Il primo era il processo dei vincitori contro i vinti, ed era contro i grandi criminali, i mostri, mentre il processo del 1963 fu un processo di tedeschi contro tedeschi e nei confronti di ufficiali di grado inferiore. Fu un processo che molti tedeschi non volevano perché a quel punto tutti dovevano ammettere la propria parte di colpa. Tutti erano stati parte di questo ingranaggio.

Come dobbiamo interpretare la scelta del silenzio da parte di chi aveva vissuto in prima persona il nazismo? E non parlo di chi aveva avuto un ruolo attivo, ma di tutti gli altri.
     Fa parte della storia del paese in quel periodo. La Germania era in ginocchio, Berlino era distrutta, solo il 20% delle case era rimasta in piedi e quindi non c’era il tempo per riflettere o parlare, altrimenti la Germania non sarebbe ripartita: c’è stato silenzio e rimozione per vent’anni. È più facile fare così che guardare in faccia il trauma ed affrontarlo. Per noi, i nipoti di chi ha partecipato in prima persona, è più facile interrogarsi di quanto lo sia stato per la generazione di mio padre.

Il processo di Francoforte fu conosciuto in seguito come ‘processo Mulka’ dal nome di uno degli imputati. Nel suo libro non si fanno i nomi degli imputati, li si identifica con attributi di animali. Mi sembra un messaggio esplicito. Era più efficace tacere del tutto i loro nomi?
SS Robert Mulka
    Non volevo un romanzo documentario anche perché, se scrivo nomi e do riferimenti, si possono trovare anche su Google. Non era la mia intenzione, non volevo contribuire al tipo di fascino che queste figure hanno, il fascino del male che suscita desiderio di emulazione, come succede per i nomi di Mengele e Eichman che hanno un qualche seguito ancora oggi.

Il personaggio di Eva, con il suo risveglio e l’affiorare dei ricordi, ci commuove e ci fa tenerezza. Quello di sua sorella è molto più ambiguo. Che cosa rappresenta Annegret?
     Annegret rappresenta le conseguenze del trauma non elaborato che porta ad un malessere psichico. E’ quello che è successo con i bambini della guerra di ieri e che succede con quelli della guerra di oggi. Questi bambini hanno, in seguito, la necessità di farsi curare. Annegret aveva più o meno 8 o 9 anni all’epoca della guerra e capiva di più quello che succedeva. Si trovava in una situazione di impotenza e questo spiega come si comporta con i bambini.

E il bigottismo di Jürgen?

    Anche lui ha questa colpa, la situazione estrema in cui ha vissuto la sua infanzia lo lega alla gestione della sua sessualità. Mio padre è stato il modello per Jürgen- qualcuno che cerca di essere pragmatico senza esprimere i propri sentimenti. E poi era un figlio del suo tempo nel rapporto con la donna e nell’accettare il ruolo della donna proprio di quell’epoca.

Mi è piaciuto molto il finale che sembra voler togliere il fardello dell’espiazione dalle spalle dei figli dei colpevoli. Quanto è difficile trovare l’equilibrio tra dimenticare e accettare quello che è successo?
     Bisogna parlarne e fare domande. Ho parlato con i miei genitori, ho parlato con loro anche di mio nonno, che era nella polizia all’epoca e che di certo ha preso parte ai crimini dell’epoca. Nel mio libro, però, ho cercato di non giudicare, perché puntare il libro contro qualcuno non funziona. È necessario cercare di capire la vita di allora e le condizioni che si trovavano ad affrontare. Vorrei sottolineare un dettaglio: Ludwig aveva deciso di andare ad Auschwitz per avere una casa e un lavoro dove potesse abitare ed avere una vita normale. Molte scelte erano state dettate da necessità quotidiane e contingenti, banali.

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intervista e recensione saranno pubblicate su www.stradanove.it



giovedì 16 maggio 2019

Annette Hess, “L’interprete” ed. 2019


                                                       Voci da mondi diversi. Area germanica
                                                          seconda guerra mondiale

Annette Hess, “L’interprete”
Ed. Neri Pozza, trad. Chiara Ujka, pagg. 314, Euro 18,00

     Francoforte 1963. Il 20 dicembre inizia il processo- intestato dapprima come ‘processo Francoforte Auschwitz’ e in seguito come ‘processo contro Mulka ed altri’- contro 22 criminali nazisti. Il processo Eichmann (tenuto in Israele) è del 1961. Quello di Norimberga del 1945. L’importanza enorme del processo di Francoforte sta nel fatto che questo è il primo processo per i crimini dell’Olocausto davanti ad una corte tedesca: sono passati vent’anni dai fatti in giudizio, nel 1961 è stato eretto il muro di Berlino- un shock per la popolazione tedesca che, più che mai, vorrebbe dimenticare, rimuovere il passato, come non fosse mai successo.
     La protagonista del romanzo “L’interprete” di Annette Hess è Eva Bruhns, poco più che ventenne, l’interprete per l’appunto, che viene chiamata a tradurre le deposizioni dei testimoni polacchi in assenza dell’interprete già nominato che non ha avuto il permesso di arrivare dalla Polonia. Eva si è sempre occupata di testi tecnici, la sua prima prova è, a dir poco, disastrosa. Non ha la minima idea di che cosa il testimone polacco stia parlando, non capisce bene il dialetto in cui si esprime. Persone rinchiuse, dove? Illuminate??? Ma che vuol dire? E’ tentata di rifiutare l’incarico, poi accetta. Per tanti motivi. Perché qualcosa dentro di lei le dice che deve sapere, forse anche perché è come il frutto proibito: sia i genitori, sia il fidanzato Jürgen sono decisamente contrari, anche se per diversi motivi. I coniugi Bruhns gestiscono una trattoria, la Deutsches Haus (che è il titolo originale del romanzo), e ben presto capiamo- da occhiate che si scambiano, da mezze parole (‘dobbiamo dirglielo?’)- che loro devono aver vissuto in prima persona gli eventi di cui si parla in tribunale, che sanno cose che hanno tenuto nascoste e di cui non vogliono parlare.
Fritz Bauer, pubblico ministero
E non sono gli unici. Perfino gli imputati si trincerano dietro i ‘non sapevo, non ho visto nulla, io non c’ero, il testimone ricorda male’. Annette Hess sceglie di dare un nome alle vittime e ai testimoni, chiama invece gli imputati con dei soprannomi che li definiscono- la Bestia, il chimico, l’infermiere, l’uomo con il profilo da becco d’aquila-, come non fossero degni di un nome e poi sono accomunati dai loro crimini, non hanno la singolarità del dolore delle loro vittime che hanno firmato con il sangue le assi delle baracche di Auschwitz.
     E’ una sorta di duplice processo, quello di Francoforte 1963. Contro i criminali nazisti e contro il processo di rimozione collettiva della colpa. Contro chi ha commesso i crimini in prima persona e chi è rimasto a guardare, contro chi minimizza e chi vuol dimenticare. Contro un altro muro, diverso da quello di Berlino. Il muro del silenzio.

     E allora il romanzo di Annette Hess (non perfetto, alcuni punti vorremmo fossero più approfonditi) si fa complesso e terribilmente doloroso. Per alcuni testimoni il peso della rievocazione è insopportabile (uno di loro si è aggrappato alla vita fino al giorno in cui ha deposto testimonianza, poi basta), un giovane procuratore ebreo-canadese si inventa un passato non suo e crolla sotto il senso di colpa per non aver condiviso la sorte degli ebrei di Europa, mentre Eva Bruhns (è un caso che i genitori le abbiano dato il nome della donna che fu l’amante e poi la moglie di Hitler?) si riappropria del suo, di passato- e, per quello che la riguarda, questo diventa un romanzo di formazione particolarmente duro perché passa non attraverso una morte ma milioni di morti. I ricordi vaghi che balenavano ad intermittenza nella mente di Eva si fanno più precisi, ricordi di una bimbetta che viveva in una casa con il tetto a punta ed era stata scottata dal ferro per capelli troppo caldo di un parrucchiere che aveva un numero tatuato sul braccio. Il silenzio in casa le diventa insopportabile, il negazionismo e il bigottismo del fidanzato pure. Le colpe dei padri ricadono sui figli? Tocca ai figli espiarle? Tocca a loro il fardello del dolore della colpa se altri non se ne fanno carico?
     Bello il finale a Varsavia su cui riflettere. Bello un romanzo che ci chiede di non dimenticare.

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a breve seguirà l'intervista ad Annette Hess
recensione e intervista saranno pubblicate su www.stradanove.it