mercoledì 30 maggio 2018

Elisabeth Åsbrink, “1947” ed. 2018


                                             vento del Nord
        Storia


Elisabeth Åsbrink, “1947”
Ed. Iperborea, trad. Alessandro Borini, pagg. 291, Euro 18,00

    Chi avrebbe mai detto che il 1947 sia stato un anno cruciale? Forse tutti gli anni sono cruciali, senza che noi che li viviamo ce ne rendiamo conto. Il tempo non va come dovrebbe- è la frase iniziale del libro della scrittrice svedese Elisabeth Åsbrink, una carrellata su quell’anno che si rivela colmo di avvenimenti importanti e dei presupposti per altri avvenimenti che avrebbero avuto luogo in un tempo futuro, quello che abbiamo appena vissuto o che stiamo vivendo adesso.
    Come nel gioco del domino si allineano le tessere del 1947, mese per mese, saltando qua e là nel mondo, segnalando e raccogliendo quello che accade in Egitto o a Malmö, a Washington o a Roma, a Londra, a Parigi, a Buenos Aires, a Londra, a Berlino, in India e in Palestina e in chissà quali altri posti che ho tralasciato. Di certo non ho citato l’isola di Jura dove George Orwell, ammalato di tubercolosi e in un isolamento pressoché totale, sta scrivendo il profetico “1984”. E neppure la nostra Torino dove Primo Levi, frustrato e avvilito per la mancanza di interesse per la più grande tragedia del ‘900 che lui ha vissuto sulla sua pelle, riesce finalmente a pubblicare “Se questo è un uomo” (presso una casa editrice minore perché Einaudi lo ha respinto).
Neppure Norimberga dove ha inizio il processo contro i criminali di guerra- è uno dei molti processi in cui spesso manca la convinzione, quando non mancano i fondi per portarli avanti. Mancano i fondi anche per mantenere agli arresti le centinaia di SS che sono state arrestate. Perché c’è una ambiguità basilare nei confronti di quanto è successo in Germania sotto Hitler- orrore e dubbio, desiderio di giustizia e volontà di dimenticare. La memoria è breve, passato il pericolo immediato delle mire espansionistiche del Terzo Reich il nuovo spauracchio è l’Unione Sovietica di Stalin, dal Nero al Rosso, insomma. E’ l’inizio della Guerra Fredda, della paura di una nuova guerra con l’uso delle armi nucleari. E allora è meglio salvare i cervelli nazisti, laviamo le colpe con una spugna, aiutiamo la fuga dei nazisti facendoli arrivare in Argentina o in Brasile (ma anche negli Stati Uniti) seguendo ‘la via dei topi’ (Svizzera e Vaticano più che consenzienti), mentre un giurista polacco che ha perso la famiglia nei campi di sterminio si batte per far riconoscere la voce ‘genocidio’ nei capi di accusa dei processi e il movimento di estrema destra rinasce nell’insospettabile Svezia.

   Non c’è pace nel mondo, forse la pace è una utopia. Si è appena conclusa una guerra e si accendono focolai di altre guerre. Il figlio di un orologiaio egiziano lancia la jihad di cui continuiamo a subire gli effetti, la Gran Bretagna ‘fa un gran pasticcio’, ‘a big mess’,- per dirlo con le parole di Lord Mountbatten- sia in India (la partizione India-Pakistan del 15 agosto non sarà indolore) sia in Palestina. L’ONU riconosce lo Stato di Israele ma migliaia di profughi vengono respinti (l’accordo permette 1500 ingressi all’anno, cifra irrisoria), il caso della nave Exodus diventa esemplare.

     In mezzo a tutto questo ribollire c’è anche la sorte del padre dell’autrice, un profugo ungherese di dieci anni che deve scegliere se partire per Eretz Israel o restare nella città dove le Croci Frecciate hanno spinto gli ebrei incatenati nelle acque del Danubio.
    E per fortuna, in questo cupo quadro di un anno che pensavamo si godesse la serenità del dopo-guerra, troviamo anche una nota leggera che lo completa: sorge l’astro di Christian Dior, non senza polemiche peraltro. E’ l’ideale della femminilità che rinasce con Dior- troppi metri di stoffa per i suoi abiti, troppo strizzati in vita i corpi delle sue modelle, ma fanno sognare.
    Completo e documentato, “1947” non è un romanzo ma tiene avvinti alla pagina con una scrittura brillante e varia. Un bel puzzle letterario.

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martedì 29 maggio 2018

Anders Roslund & Börge Hellström, Tre secondi ed. 2010


                                                                    vento del Nord
       cento sfumature di giallo
       il libro ritrovato

Anders Roslund & Börge Hellström, Tre secondi
Ed. Einaudi, trad. Anna Airoldi, pagg. 652, Euro 21,00

    Stoccolma. Cinque uomini in un appartamento. In cucina uno è piegato su un secchio. Sta vomitando. Deve vomitare le capsule avvolte nel lattice che contengono ognuna dieci grammi di anfetamine e che ha inghiottito in Polonia: è un ‘mulo’, un trasportatore umano. Nel soggiorno un compratore si accinge a verificare la purezza della droga che deve pagare. Un altro uomo, l’unico che parli sia svedese sia polacco, gli fa delle domande per accertarsi che sia veramente chi dice di essere. Qualcosa lo insospettisce. Senza che lui riesca a fermarlo uno degli altri due uomini presenti ammazza il compratore che, terrorizzato, si è lasciato sfuggire di essere un poliziotto- parola riconoscibile in qualunque lingua.
    Incomincia così, con quello che parrebbe un ‘banale’ omicidio nel mondo della droga, il nuovo thriller della coppia svedese Anders Roslund e Börge Hellström. E invece è un omicidio tutt’altro che banale. Come riflette l’anziano commissario Ewert Grens, qui ci sono ‘un mulo, un cadavere e un polacco…Ergo droga. Criminalità. Europa dell’Est…Ergo crimine organizzato…Ergo mafia.’ Soltanto che, quando, trentacinque anni prima, Grens era entrato in polizia e sperava ancora di cambiare il mondo, mafia voleva dire Italia del sud. O le grandi città americane. Adesso la mafia era ovunque. Grens aveva avuto a che fare di recente con la mafia messicana, quella egiziana, quella russa e quella polacca. Sempre con gli stessi ingredienti, droga, soldi, morte.
Ewert Grens ha la fama di non mollare mai l’osso, di proseguire caparbiamente le indagini anche quando sembrano non approdare a nulla, come avviene ora, per l’omicidio di Västmannagatan 79, un indirizzo che ci perseguita fino alla fine del libro. Perché in quei fatti di Västmannagatan 79 due dei protagonisti stanno facendo lo stesso lavoro: sia il morto sia l’uomo che ha cercato di evitare la sua morte sono infiltrati della polizia. Uniche differenze: il morto era danese e l’altro, Piet Hoffman, è svedese di origini polacche. Il danese aveva un nome in codice maschile, secondo l’usanza in Danimarca; il nome in codice di Piet era Paula: in Svezia, stessa iniziale del nome vero ma un nome femminile per gli infiltrati. Piet Hoffman è riuscito ad entrare nella Wojtek, una società polacca di sicurezza- una copertura per un imponente traffico di droga. Adesso l’ambizione della Wojtek è di accaparrarsi il mercato delle carceri svedesi: 56 penitenziari, 4000 consumatori forti, si inizia con prezzi stracciati per eliminare i rivali, poi si triplicano i prezzi rispetto a quelli esterni, otto o nove milioni di corone al giorno. Piet Hoffman deve farsi arrestare: sarà l’uomo della Wojtek dentro le carceri. Nella sede del governo svedese Piet, nelle vesti di Paula, accetta il rischio: per la Wojtek venderà droga, alla polizia svedese fornirà i dati per sconfiggere la Wojtek.

     Sulla copertina del romanzo Tre secondi appare l’ombra di un uomo nel rosso delle fiamme. Quello che accade ad un infiltrato, se le cose vanno male, è di venire ‘bruciato’, nonostante tutte le garanzie di un pronto intervento per salvarlo che possano avergli fatto. E tuttavia nella trama del libro quell’incendio vorace non sarà soltanto metaforico…Così come i tre secondi del titolo, che segnano l’esiguo margine di tempo che Piet ha, alla fine, per il piano che ha preparato (‘il colpo partì. Gli restavano tre secondi’), sono anche, in qualche maniera che ha a che fare con il come si avverta lo scorrere del tempo, la durata di una storia che dura più a lungo in realtà, ma ha un ritmo così serrato da farci ‘bruciare’ le pagine.
     Roslund e Hellström giocano sui forti contrasti: l’urgenza e la velocità dell’azione e il tempo quasi immobile della prigione; la pace dell’aldilà nel cimitero vicino alle carceri e l’inferno tra le mura di queste; poliziotto integerrimo Grens, che vorrebbe impedire la morte e che è macerato dal senso di colpa per aver involontariamente causato la morte della moglie; la doppia identità e la doppia personalità di Piet/Paula, infiltrato e criminale e anche marito innamorato e padre affettuoso. A volte è impossibile conciliare gli estremi, e allora sopraggiunge la crisi. Quando Piet abbonda con la dose di Tachipirina ai bambini, perché deve scaricarli all’asilo per essere libero di fare quello che deve fare. E si chiede a che punto sia arrivato. Quando Grens ordina al tiratore scelto di sparare- lo fa per salvare delle vite, ma si sente un assassino, come quelli a cui dà la caccia.

E alla fin fine, questo nerissimo, angosciante, claustrofobico thriller diventa un libro sul tradimento e sulla solitudine estrema dell’essere umano che non può fidarsi di nessuno. Alla fin fine tutti tradiscono e vengono traditi, Piet, sua moglie Zofia, Grens stesso. Il peggio del peggio è, poi, quando il tradimento viene da chi dovrebbe rappresentare un modello di onestà e correttezza.
      Solo un criminale parla e si comporta da criminale- è l’osservazione che viene ripetuta nel libro, a proposito della perfetta finzione di Piet nel suo ruolo di spacciatore colto in flagrante dalla polizia. Solo qualcuno che ha conosciuto l’esperienza della prigione può scriverne in maniera così reale e dettagliata: nella coppia dei due scrittori, uno è stato un giornalista che si è occupato di crimini e di problemi sociali, l’altro ha un passato lontano di criminalità e si è impegnato nel recupero di tossicodipendenti. Insieme sono bravissimi. Accade, a volte, che i romanzi seriali tendano a scadere, a diventare ripetitivi, a rivelare mancanza di invenzione. Non così per i romanzi di Rosslund e Hellström. Negli anni passati la casa editrice Cairo aveva già pubblicato due libri con l’ispettore Grens, La bestia e Punizione, entrambi notevoli. Tre secondi è ottimo, migliore ancora degli altri due- per la magistrale costruzione, per l’approfondimento psicologico dei protagonisti, per la capacità di spostare continuamente la messa a fuoco dell’obbiettivo: dai personaggi all’interno del carcere, da qui alla nuova Europa in cui la caduta delle frontiere ha favorito il dilagare del crimine. E sempre, come nei romanzi precedenti, c’è una domanda più ampia che sottende gli avvenimenti della trama- in Punizione riguardava il sistema giudiziario americano, in Tre secondi il quesito è fino a che punto sia lecita la connivenza tra le forze dell’ordine e i criminali.

la recensione è stata pubblicata sulla rivista Stilos








domenica 27 maggio 2018

Durian Sukegawa, “Le ricette della signora Tokue” ed. 2018


                                                Voci da mondi diversi. Giappone


Durian Sukegawa, “Le ricette della signora Tokue”
Ed. Einaudi, trad. L. Testaverde, pagg. 184, Euro 15,30

     Ecco un altro libro, dopo “Hotel Silence” dell’islandese Auður Ava Ólafsdóttir, che sembra una favola e che contiene un significato nascosto.
    Alla periferia di Tokyo, in uno dei tanti piccoli locali di ristoro, un uomo di mezza età, Sentaro, vende dorayaki, un dolce tipico fatto con pan di spagna farcito con an, marmellata di fagioli azuki (per inciso, squisita, sembra un poco la nostra marmellata di castagne, cercate su internet la ricetta per farla in casa, se seguire le direttive della signora Tokue vi sembrano troppo impegnative). I dorayaki si cuociono sulla piastra, Sentaro passa il minimo di tempo indispensabile nella bottega Doraharu: è un pasticcere svogliato, lo fa perché deve saldare un debito con il proprietario. I clienti sono pochi, per lo più le ragazzine rumorose all’uscita dalla scuola.
Poi, un giorno, una signora anziana si avvicina al banco. Ha delle mani che colpiscono l’attenzione, dita rattrappite e deformi. Propone il suo aiuto a Sentaro- non vuole soldi, si accontenterà di poco, il suo an è eccezionale, sono cinquant’anni che lo prepara. Sentaro nicchia- come può farcela, questa vecchia, a cucinare, con quelle mani? Eppure…Sentaro deve ricredersi, l’an della signora Tokue non ha niente in comune con quello industriale di cui Sentaro si è rifornito finora. Le vendite raddoppiano, l’umore di Sentaro pure. Anche se Sentaro vorrebbe che non si facesse vedere dai clienti, la signora Tokue inizia a scambiare quattro parole con le ragazzine, con una soprattutto, che ha dei problemi in famiglia. Finché la padrona del negozio interviene e impone a Sentaro di licenziare la signora Tokue: non sa, forse, Sentaro, che cosa abbia causato la deformità delle sue mani? Come può permettere che tocchi degli alimenti?

    La storia della signora Tokue, che Sentaro e la ragazzina apprenderanno da lei, quando vanno a trovarla, è scioccante. Ci rivela una sconvolgente arretratezza del super moderno Giappone, una ristrettezza mentale che non avremmo creduto possibile, un atteggiamento discriminatorio e penalizzante che non ha motivo di esistere nell’epoca moderna in cui l’informazione dovrebbe servire per cancellare le differenze. Eppure, nonostante le difficoltà della sua vita, il personaggio della signora Tokue è luminoso come una fiaccola, rimpicciolisce i problemi di Sentaro e della giovane studentessa, insegna loro ad affrontare di petto la vita, a trovare gioia nelle piccole cose, a non arrendersi mai, a spostare il proprio obiettivo, se quello che si voleva raggiungere si rivela irraggiungibile. Finalmente Sentaro capisce la mistica della preparazione dell’an che gli era sembrata la stravaganza di una vecchina. Quando lui non vedeva nulla tranne che dei fagioli rossi e la signora Tokue scrutava gli stessi fagioli cercando il sole e la pioggia e il vento che li avevano nutriti, quando diceva che ‘li’ ascoltava- era un insegnamento più vasto quello che lei cercava di impartire. O piuttosto, non c’era in lei alcuna consapevolezza di impartire una lezione. La signora Tokue condivideva la sua visione di una spiritualità immanente in tutto quello che ci circonda e che è di matrice shintoista. A lei era stata di grande conforto, sarebbe potuto esserlo anche per Sentaro e per la ragazzina Makado. C’è una libertà interiore nella signora Tokue che travalica le siepi di agrifoglio che limitano il luogo dove lei abita come fosse una prigione, che la spinge ad aprire la porticina della gabbia dell’uccellino che Makado le ha affidato, che invita Sentaro ad imitarla, dimenticando il carcere in cui ha passato due anni.

     Anche se, in qualche modo, ricorda i libri già letti che ruotano intorno al tema del cibo- “Come acqua per il cioccolato” di Laura Esquivèl o “Chocolat” di Jane Harris-, il romanzo di Durian Sukegawa si differenzia per il drammatico argomento che è il segreto della vecchia Tokue e per un’impronta prettamente giapponese che dà risalto alla religiosità della natura (il simbolo del ciliegio che sta di fronte a Doraharu, con i suoi fiori effimeri ne è un esempio) piuttosto che all’amore.
   Dal libro è stato tratto un film. Ma leggete prima il libro.

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venerdì 25 maggio 2018

Holidays







        In genere, quando mi assento, trovo sempre il Wi-fi e riesco ad aggiornare il blog. Se non fosse possibile, aspettatemi.

Anna Folli, “MoranteMoravia. Una storia d’amore” ed. 2018


                                                                Casa Nostra. Qui Italia
                   biografia

Anna Folli, “MoranteMoravia. Una storia d’amore”
Ed. Neri Pozza, pagg. 297, Euro 18,00

       “MoranteMoravia”. Entrambi i cognomi. Guai a sbagliare, anche solo ad accennare che Elsa Morante era sposata con Alberto Moravia. Una volta che lui le aveva indirizzato una lettera come ‘Elsa Moravia’, perché si trattava di una cosa urgente e temeva il postino non sapesse che abitava con lui, la furia di Elsa era stata feroce. Storia di un amore che, tra alti e bassi, con infedeltà e separazioni, con liti e rappacificazioni, durò tutta una vita. Storia di due giganti della letteratura, diversi quanto lo si può essere. Storia di un ambiente culturale, di un circolo di amici con nomi che diventeranno famosi nel mondo della letteratura, del cinema, dell’arte. Storia d’Italia nel mezzo secolo che va dagli anni ‘30 agli anni ‘80 del ‘900. Il libro di Anna Folli è tutto questo, la biografia intrecciata di due persone che si legge come un romanzo che ha il fascino di una storia vera.

    Il loro primo incontro fu un colpo di fulmine, almeno per la ventiquattrenne Elsa che, al momento di lasciare il ristorante, fece scivolare le chiavi di casa sua in mano di Alberto. Anna Folli, però, prima di raccontare del loro incontro, ci parla dell’infanzia e della giovinezza dei due scrittori- Elsa segnata da una storia famigliare che non poteva non influenzarla per tutta la vita (il padre naturale suo e dei suoi fratelli e sorelle non era il marito della madre, l’Augusto Morante di cui tutti portavano il cognome), Alberto colpito dalla malattia che lo costrinse per lunghi periodi all’immobilità. Il loro amore iniziato del 1936 sarà sempre tempestoso, forse soprattutto per il carattere di Elsa, capace di grandi passioni e di generosità, ma anche suscettibile e ombrosa, con un esacerbato bisogno di autonomia. Da parte sua Alberto si prendeva delle distrazioni, e però era Elsa che amava, di Elsa che aveva bisogno per il suo equilibrio. Era impensabile, per ognuno dei due, stare l’uno senza l’altra. Erano tempi difficili, entrambi erano antifascisti e passarono insieme il durissimo inverno del ’43, nascosti sui monti laziali dove erano fuggiti quando Alberto era stato avvisato che era in una lista di deportazione. Elsa non si staccò mai dal suo fianco- per tutta la vita, d’altra parte, anche quando già Alberto viveva con Dacia Maraini, quando Elsa subiva il fascino di artisti giovani e omosessuali, l’uno o l’altra accorrevano in sostegno di chi dei due ne avesse bisogno.

    MoranteMoravia erano orgogliosi dei loro successi, quando iniziarono ad arrivare. Il Premio Strega per Elsa con “L’isola di Arturo”, per Alberto con “I racconti”. Le traduzioni all’estero, gli inviti. Sono tanti i nomi famosi che balzano fuori dalle pagine del libro di Anna Folli, li ricordiamo e li conosciamo tutti, da Luchino Visconti a PierPaolo Pasolini, da Natalia Ginzburg a Curzio Malaparte. E Anna Folli li riporta tutti in vita, ci pare di vederli e sentirli parlare, nelle lettere e negli stralci di parole riportate da testimonianze.
    Quando ci separiamo da Elsa e da Alberto proviamo una grande tristezza e una cocente nostalgia. Tristezza per le sofferenze di Elsa alla fine, lei che era così bella (il più bel viso che avesse mai visto, secondo Natalia Ginzburg), così radiosa, con una mente così vivace. La morte non risparmia nessuno, ma c’è qualcosa di ingiusto nella sorte di Elsa.
Nostalgia per un passato irto di difficoltà e di prove da superare (anche, banalmente, la fame) ma intellettualmente vivo, per anni in cui si respirava cultura, si discuteva mettendosi alla prova. E i premi non erano già previsti, i libri non erano merce da pubblicizzare sui social, nascevano da un’esigenza interiore che non compiaceva il gusto del pubblico.
Il libro di Anna Folli fa nascere in noi il desiderio di restare in compagnia di Elsa e di Alberto, di leggere o rileggere i loro romanzi- indizio certo che “MoranteMoravia” è un bel libro.

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martedì 22 maggio 2018

Yewande Omotoso, “La signora della porta accanto” ed. 2018


                                                                  Voci da mondi diversi. Africa
               commedia

Yewande Omotoso, “La signora della porta accanto”
Ed. 66thand2nd, trad. Natalia Stabilini, pagg. 256

   Katterijn, un’area elegante di Città del Capo. Quando, vent’anni fa, Hortensia James, che ora ha 85 anni, è andata ad abitare al numero 10, era la prima donna di colore ad essere proprietaria di una casa a Katterijn. Il fatto che suo marito fosse bianco aumentava le chiacchiere e i pettegolezzi. Il fatto che lei, Hortensia, fosse un’affermata disegnatrice di tessuti non era di alcun rilievo. Era iniziata subito una sorta di braccio di ferro, una battaglia combattuta a colpi di parole durante le riunioni della comunità durante le quali un’Hortensia altera e sdegnosa prendeva la palla al balzo per sottolineare il razzismo (troppo spesso celato sotto una certa condiscendenza) delle altre donne. L’antagonista numero uno di Hortensia è la sua vicina di casa, Marion Agostino, 81 anni, architetto. La famiglia di Hortensia viene dalle Barbados, quella di Marion era di ebrei lituani. E se Marion abita al numero 12, il suo sogno è sempre stato di acquistare il numero 10- la prima casa da lei progettata, come un primo figlio per lei che, da bambina, aveva detto ‘vorrei essere una casa’, correggendosi poi in ‘vorrei essere una casa umana’.

    Se le parole fossero coltelli, se gli sguardi potessero uccidere, Hortensia e Marion sarebbero già morte entrambe. E da un pezzo. Ora sono entrambe vedove, e il marito di ognuna ha riserbato loro una sgradevole sorpresa con il testamento. Marion non ha più un soldo e dovrà vendere la casa, Hortensia ha una figliastra di cui non sapeva nulla e deve entrare in contatto con lei secondo le disposizioni testamentarie. Peggio ancora. Succede un incidente, Hortensia è immobilizzata, con il suo caratteraccio nessuna infermiera la sopporta (e lei non sopporta loro), la soluzione che fa comodo a entrambe è che Marion si trasferisca temporaneamente al numero 10.
    La scrittrice sudafricana Yewande Omotoso esordisce brillantemente con questo romanzo lieve e profondo, toccante ed esilarante. Perché la storia delle due donne anziane e litigiose si sposta agilmente tra presente e passato, ricostruisce l’incanto e le difficoltà della storia d’amore di una coppia mista negli anni ‘50 (i genitori inglesi di Peter chiedono apertamente di che colore saranno i loro nipotini), il muro di silenzio eretto dai genitori di Marion sugli eventi europei che li avevano portati in Sud Africa, il successo sul lavoro di entrambe, l’arrivo dei figli- 4, uno dopo l’altro- per Marion e il desiderio insoddisfatto di figli per Peter e Hortensia. Le due donne non smettono di battibeccare solo perché convivono per necessità. E tuttavia gli scontri verbali sono per ognuna l’occasione di indagarsi- perché nessuno dei figli di Marion si preoccupa per lei? perché Peter aveva tradito Hortensia? perché Hortensia è restia a permettere ai discendenti di coloro che un tempo possedevano il terreno su cui è eretta la sua casa di tenere lì una cerimonia funebre? Come ha potuto Marion comportarsi come ha fatto, dire quello che ha detto, ogni volta che aveva a che fare con persone di colore?

    Le difficoltà pratiche ed economiche si risolvono, non è mai troppo tardi per essere onesti con se stessi, ma…si può cambiare il carattere quando si hanno superati gli ‘80? Non poteva che terminare in maniera buffa il bel romanzo di Yewande Omotoso che intreccia con garbo le vicende private delle due protagoniste con la storia del SudAfrica rivissuta attraverso quelle stesse piccole vicende private.

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domenica 20 maggio 2018

Jean-Christophe Brisard e Lana Parshina, “L’ultimo mistero di Hitler” ed. 2018


                                                        Voci da mondi diversi. Francia
      seconda guerra mondiale


Jean-Christophe Brisard e Lana Parshina, “L’ultimo mistero di Hitler”
Ed. Ponte alle Grazie, trad. Zaffarano, Ballardini e Toni, pagg. 401, Euro 19,00

 “Allora è lui? E’ proprio lui?”
   Da!”
  “Ed è tutto quello che rimane?”
   “Da!”

Mosca, 6 aprile 2016. Quello che i  due giornalisti, il francese Jean-Christophe Brisard e la russo-americana Lana Parshina, hanno davanti agli occhi, quello di cui chiedono increduli se si tratti proprio di ‘lui’, è un pezzo del cranio di Hitler conservato in un modesto cofanetto nel più grande archivio russo (sette milioni di documenti). Non è stato facile per i giornalisti arrivare a questo momento, hanno alle spalle un anno di attese e di indagini. E il futuro gli prospetta un altro anno e mezzo di consultazioni, di richieste, di attese estenuanti di permessi, di esami approfonditi prima di arrivare ad un risultato che chiarisca una volta per tutte quello che è ancora possibile chiarire a settantadue anni di distanza: Hitler è veramente morto suicida insieme a Eva Braun il 30 aprile 1945 nel suo bunker scavato a 8,5 m. di profondità sotto la Cancelleria? Si è avvelenato con una fiala di cianuro o si è sparato? I due corpi carbonizzati trovati dai soldati dell’Armata Rossa nel giardino della Cancelleria erano proprio il suo e quello della neo-moglie?
piantina del bunker
        “L’ultimo mistero di Hitler” è un non-romanzo che si legge come un romanzo, un’inchiesta storica che con piglio giornalistico fa luce sugli interrogativi rimasti insoluti per più di mezzo secolo, mentre sul fondo c’è la domanda che Brisard si pone e ci pone: “lo spettro di Hitler smetterà prima o poi di tormentare l’Occidente?”.
i denti di Hitler
E’ come se ci fossero due libri, due storie, nello stesso libro- una più nota e una assolutamente nuova. Mentre in un filone narrativo seguiamo Brisard e Parshina in quella che sembra un’avventura kafkiana all’interno dei palazzi degli archivi moscoviti- le smozzicate risposte russe alle loro domande, permessi lesinati e poi concessi a denti stretti con ferrei limiti di tempo, la stretta sorveglianza come se i due giornalisti potessero inquinare delle prove già ampiamente inquinate (la mancanza di attenzione e la superficialità verso i reperti è stupefacente, pur facendo concessioni ai momenti di fuoco di quei giorni di aprile-maggio 1945), la concessione (anche questa strappata a fatica) di far intervenire il medico legale nonché archeo-antropologo Philippe Charlier perché esaminasse i presunti resti di Hitler, cioè il pezzo di calotta cranica e i denti.
il divano su cui Hitler e Eva Braun si sarebbero uccisi
Ricchissima la documentazione, in questo filone. Leggiamo i verbali degli interrogatori dei sopravvissuti della cerchia più vicino al Führer (estenuanti nella loro ripetitività, possiamo immaginare quanto peggio lo siano stati per loro), del cameriere di Hitler, del suo pilota e del suo assistente personale, del dentista e della sua assistente. Vediamo la piantina del bunker, notiamo la divergenza di due testimonianze sull’ora in cui Hitler si sarebbe ucciso, sul rumore del famoso colpo di pistola, su dove fosse seduto Hitler nell’ultimo istante della sua vita.
Nell’altro filone, invece, Brisard ricostruisce gli ultimi dieci giorni di vita di Hitler nel bunker quando ormai era lo spettro dell’uomo che era stato, un vecchio che doveva tener fermo il braccio sinistro perché non se ne notasse il tremito e che, però continuava a urlare contro i traditori e indugiava prima di permettere, a chi lo volesse, di uscire dal bunker e cercare di mettersi in salvo. Goebbels e la moglie rimasero e chiesero l’aiuto del medico per far morire i sei bambini.

    Ci sono anche due misteri, come ci sono due storie. Il mistero, i dubbi che hanno circondato la fine di Hitler, è stato indubbiamente infittito dalla posizione ambigua presa da Stalin: perché mai Stalin il 26 maggio 1945 disse ai rappresentanti delle superpotenze a Mosca che Hitler, secondo lui, non era morto ma era fuggito? Perché aveva alimentato le voci che fosse a bordo di un sottomarino diretto in Giappone? Perché il 6 giugno disse che il corpo non era stato trovato quando il rapporto sul ritrovamento gli era stato consegnato una settimana prima?
    Esauriente e appassionante, un libro che piacerà anche a chi non ha un particolare interesse per la Storia.

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sabato 19 maggio 2018

Roslund & Hellström, “Punizione” ed. 2008


                                                                            vento del Nord
          cento sfumature di giallo
          il libro ritrovato

Roslund & Hellström, “Punizione”
Ed. Cairo, trad. Katia De Marco, pagg. 414, Euro 18,00

    La polizia di Stoccolma mette in stato di arresto un cadavere. Proprio così. Perché John Schwarz, accusato di gravi lesioni ad un uomo, risulta non essere affatto il cittadino canadese in possesso di regolare permesso di soggiorno come attesta il suo passaporto. Le sue impronte digitali corrispondono a quelle dell’americano John Meyer Frey, condannato a morte a soli diciassette anni e giustiziato sei anni prima, dopo dodici anni di detenzione nel carcere di Marcusville, nell’Ohio. Ora gli Stati Uniti fanno pressioni perché venga estradato- un caso simile non è ammissibile. Gli accordi internazionali vietano questa procedura, ma il governo svedese non vuole inimicarsi la più grande potenza mondiale e trova la pavida soluzione della vergogna: John Schwarz, alias John Meyer Frey, non verrà estradato, verrà espulso, rispedito a Mosca, ultimo paese in cui ha transitato prima di arrivare in Svezia. E c’è molto altro che naturalmente non vi diciamo.
     Se per ‘thriller’ si intende un libro da brividi in attesa della prossima mossa dell’assassino, “Punizione” degli svedesi Roslund e Hellström non è un thriller, perché il brivido c’è, ma arriva come una sorpresa, alla fine. Se per romanzo di indagine poliziesca pensiamo ad una vicenda in cui un ispettore cerca di far luce su un delitto scovando il colpevole, “Punizione” non è un romanzo di indagine poliziesca: John Meyer Frey si è sempre dichiarato innocente dell’assassinio della sedicenne Elizabeth, era stato condannato in base ad indizi, soprattutto perché Eward Finnigan, il padre della ragazza, era segretario del governatore ed acceso sostenitore della pena di morte. Né si era cercato allora, né si cerca adesso un altro colpevole. Eppure “Punizione” è un romanzo che riguarda un’indagine- anche se la soluzione verrà offerta dall’assassino stesso- ed è sostenuto da una forte tensione che non è solo quella del mystery tradizionale, perché arricchita dall’impegno civile ed etico per contrastare la pena di morte. E la lettura si sviluppa su parecchi piani, tutti ugualmente coinvolgenti, ruotando attorno ad una serie di personaggi e ad alcune problematiche su cui il nostro pensiero continua ad indugiare, anche a lettura terminata.

     John Meyer Frey era stato un ragazzo difficile- era stato forse traumatizzato dalla morte prematura della mamma? Dei flashback ce lo mostrano nell’agonia senza tempo della cella di isolamento, in attesa della morte. E poi- ma la narrazione non è consequenziale-, mentre i giorni sgocciolano inesorabilmente, qualcuno si dà da fare per lui: avremo due versioni di quanto avvenne e quella di John è la più lacunosa, e in ogni modo assolutamente sincera perché lui non doveva sapere nulla. Belli i personaggi intorno a lui- il padre, la moglie che non sapeva niente, il bambino. Umani e interessanti anche i poliziotti che si occupano del caso, soprattutto l’ispettore Ewert Grens, con la sua dedizione assoluta alla moglie che da più di vent’anni è in una casa di cura (questo è il terzo libro della serie, perciò il lettore viene solo a sapere dei frammenti di quanto è accaduto). Ewert Grens parte pieno di pregiudizi contro John Shwarz/Meyer Frey che ha preso a calci in faccia un ubriaco che molestava una donna. Poi cambia (non ha forse lui stesso una reazione simile quando ha una reazione violenta nei confronti dello sconosciuto che offende la collega poliziotto?) e in definitiva non se la sente di restituire un uomo alla morte. Perché tutta la trama si concentra sull’abominio della pena di morte, sul desiderio di vendetta che c’è dietro, sulla possibilità di errore. Il finale è a sorpresa, gloriosamente e tristemente, drammaticamente grandioso: uno sberleffo al sistema giudiziario e penale americano. Ancora una volta osserviamo: ma come sono bravi questi scrittori nordici!

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net


    


giovedì 17 maggio 2018

Michel Bussi, “Il quaderno rosso” ed. 2018


                                                    Voci da mondi diversi. Francia
 cento sfumature di giallo

Michel Bussi, “Il quaderno rosso”
Ed. e/o, trad. A. Bracci Testasecca, pagg. 394, Euro 15,30

      Marsiglia. Leyli vive con i suoi tre figli in un bilocale in un casermone che sembra un alveare. Sia Leyli sia la figlia ventenne sono molto belle, sono di etnia peul, vengono dal Mali e sapremo dopo, a poco a poco, quali traversie abbiano passato prima di sbarcare in Francia. Leyli ha un permesso regolare di soggiorno e ha appena ottenuto un lavoro come donna delle pulizie in un albergo Ibis.
    L’azione del nuovo romanzo di Michel Bussi (il più bello e il più impegnato tra i suoi libri) si svolge in quattro giorni e tre notti, con un’azione serratissima tra Francia, Marocco, Libano, Emirati e lunghi flash back sul passato che ci aiutano non solo a capire il personaggio di Leyli ma anche, oscuramente, quello che sta accadendo, pur non togliendo niente alla suspense.
Prima uno, poi un altro uomo vengono trovati uccisi in un albergo della stessa catena, il Red Corner, ma in città diverse. Sono alberghi con stanze a tema, senza una reception, solo telecamere che hanno registrato l’ingresso di una bella ragazza che fissa spudoratamente l’obiettivo. Il suo volto è parzialmente nascosto da un velo, ha occhi scuri e splendidi.
donna peul
Il lettore ‘vede’ il prima e il dopo dei delitti- le scene di seduzione e l’improvviso cambiamento quando l’uomo è pronto per altro, la puntura che sembra un’iniezione e invece è un prelievo di sangue, l’esecuzione spietata dopo sei minuti. Quando un terzo uomo riesce ad evitare di fare la fine degli altri due, la caccia alla ragazza misteriosa non lascia speranza su quello che accadrà. Intanto, però, lo scrittore ha disseminato piccoli indizi sulle motivazioni dell’assassina- stralci di pagine di quello che indoviniamo essere il diario che Leyli tiene nascosto sotto il materasso. E tutte le vittime lavorano o hanno lavorato per la Vogelzug, l’ente che si occupa di fornire aiuto ai migranti. Ci stupisce, però, che anche Petar Velika, il commissario che dirige le indagini, abbia dei contatti non del tutto chiari con la Vogelzug. Ancora più stupito sarà il suo vice, il giovane Julo Flores, quando dovrà ammettere che l’uomo che aveva sempre ammirato non è poi così integerrimo.

    “Non c’è nessuno che sia innocente in tutta questa storia”, dice Leyli ad un certo punto. Perché le vicende drammatiche di una donna- una sorta di Madre Coraggio che lotta per avere il ricongiungimento famigliare, che ha stabilito che l’ora della cena sia il punto fermo di ogni giornata e poco importa se i tavoli sono apparecchiati a migliaia di chilometri di distanza, Skype sa illudere molto bene- sono solo un frammento di un’epopea più vasta, di quello che a noi sembra un fiume inarrestabile di disperati e che invece è solo un rivolo: sono solo i più forti e i più capaci, sono i migliori quelli che arrivano (se arrivano) sulle nostre coste, quelli su cui intere comunità puntano, quelli per cui si raccolgono- no, non soldi, sarebbe troppo pericoloso mettersi in viaggio con una grande quantità di banconote- cauri, le conchiglie che da sempre sono state usate in Africa come i nostri travellers’ cheques.
Ci sono in ballo dei grossi giochi di interesse in questo traffico di umani del secolo XXI, in questa nuova interpretazione della tratta degli schiavi. Nessuno che sia innocente. E’ facile arricchirsi, facile lavarsi la coscienza con l’acqua del mare che è diventato una tomba, una gigantesca e azzurra fossa comune- be’, molti muoiono (intanto i morti hanno un volto solo per chi li conosce e li aspetta speranzoso), ma molti ce la fanno, giusto?
    Michel Bussi ha il coraggio di esplorare un tema scottante e lo fa sotto forma di thriller (intrigante con la varietà delle ambientazioni, il numero dei personaggi, le sorprese e i colpi di scena) con una motivazione di fondo che ci impedisce di condannare il colpevole interamente- la giustizia ‘personale’ si amplia, diventa giustizia per tutti quelli che sono stati trattati come ‘colli’, merce da spedire e da cui ricavare più soldi possibile.

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mercoledì 16 maggio 2018

Joanna Trollope, “Un’amante da sposare” ed. 2007

                                    Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                                                             storia di famiglia  
         love story
      il libro ritrovato

Joanna Trollope, “Un’amante da sposare”
Ed. Corbaccio, trad. Manuela Frassi, pagg. 316, Euro 17,60

Guy Stockdale, giudice di 62 anni, chiede il divorzio per sposare la ragazza trentunenne che è da sette anni la sua amante. Terremoto in famiglia: la moglie tradita e abbandonata cerca sostegno affettivo presso il primogenito Simon. Come conseguenza il matrimonio di questi rischia la crisi; intanto Jack, sedicenne figlio di Simon, scopre l’amore ed esperimenta la prima delusione; anche l’altro figlio di Guy, che è omosessuale, si innamora…Tutto si sistema, alla fine, in modo diverso da come ci si aspetta.

INTERVISTA CON JOANNA TROLLOPE, autrice di “Un’amante da sposare”

    “Tre o quattro famiglie in un villaggio di campagna è la cosa giusta su cui lavorare”, scriveva Jane Austen in una lettera alla nipote Anna. Era il 1814. Quasi duecento anni dopo è questa frase che ricordiamo, leggendo “Un’amante da sposare” della scrittrice inglese Joanna Trollope (nome noto agli amanti della letteratura, perché il romanziere Anthony Trollope è un suo antenato) e pensando alle altre sue opere. E’ sempre un piccolo mondo, quello di Joanna Trollope, molto spesso i suoi personaggi vivono in piccole città, recandosi magari a Londra per lavoro. Quello che interessa alla Trollope, come a Jane Austen, sono i rapporti umani, quelli famigliari prima di tutto. Osservare come interagiscono le persone, come rispondono ai grandi piccoli eventi della vita quotidiana che sono l’esperienza di tutti. Innamoramenti e tradimenti, matrimoni e separazioni, incomprensioni tra genitori e figli, tra fratelli e sorelle, o tra amici. Manca l’ironia leggera che pervade le pagine della Austen, ma c’è la stessa ampia comprensione per i comportamenti umani, con tutte le sue fragilità e debolezze. Non sono più i tempi di una salda morale ottocentesca, ma i personaggi della Trollope sanno che cosa è bene e che cosa è male, e cercano di vivere con onestà verso se stessi e gli altri. Non c’è mai niente di esagerato o di estremo, la Trollope ama mettere in scena la borghesia, la middle-class inglese che ha studiato non necessariamente nelle famose ed esclusive public school- Guy ha studiato legge ed è arrivato ad essere giudice, sia suo figlio sia Merrion, la ragazza di cui Guy si è innamorato, sono avvocati, la moglie di Simon dirige uno studio medico. Vivono in quelle case con giardino così splendidamente inglesi- più bella quella di Guy, più modesta quella di Simon che si è ritrovato molto giovane ad avere già tre figli.

    In questo ambiente sereno la crisi nasce quando Guy annuncia che vuole divorziare. Sarebbe facile attribuire la decisione al rimbambimento senile, liquidare il suo sentimento come il tipico amore dell’uomo anziano per la ragazza giovane. E mentre la Trollope, nel raccontarci dell’infanzia di Merrion Palmer pone le premesse perché la ragazza diventi l’amante di un uomo più anziano che sostituisca il padre che non ha quasi conosciuto, il suo lavoro per spiegare come possa il tranquillo Guy, marito fedele da quarant’anni, padre e nonno, innamorarsi di una giovane donna incontrata sul treno è più sottile. Perché all’inizio il lettore simpatizza, inevitabilmente, con la moglie abbandonata. La prima reazione è la stessa della sessantenne Laura- ma come, è questa la ricompensa per aver dedicato tutta la vita al marito e ai figli? Poi, telefonata su telefonata, dopo comportamenti irragionevoli e ricatti affettivi al figlio primogenito, lentamente cambia la prospettiva da cui osserviamo la situazione: fino a che punto Laura è una vittima impotente? Non ha forse scelto la sua vita? Non ha sempre manipolato gli altri? E non continua a farlo adesso, rischiando di far naufragare il matrimonio del figlio?
   Tutti i personaggi subiscono un cambiamento in quei brevi mesi che passano tra l’annuncio-bomba e la conclusione della vicenda. Tutti vengono portati a confrontarsi con se stessi e ad assumere la responsabilità delle loro decisioni e dei loro comportamenti. Per i più giovani, per la coppia Simon-Carrie, per l’adolescente Jack alle prese con il primo amore, per “l’amante” Merrion, si potrebbe dire che “crescono”, che diventano più adulti con questa esperienza. Difficile dire la stessa cosa per Laura e per Guy che giovani non sono più. Eppure non si finisce mai di crescere e di imparare dalla vita. Imparare anche che amare può voler dire rinunciare a chi si ama. E’ elegante persino la fine, non scontata, di questo romanzo femminilmente raffinato. Stilos ha incontrato la scrittrice inglese.




Nel suo romanzo precedente l’argomento era un rapporto fratello/sorella, questa volta il personaggio principale è un uomo di 62 anni: che cosa l’ha spinta a scrivere dal punto di vista di un uomo?
    Ho un’opinione sui cliché e questo, del marito, la moglie e l’amante, è uno dei più vecchi, è vecchio come il mondo. Io ho l’idea che i cliché esistano quando capitano nella vita degli altri: se un cliché, ad esempio il tradimento sessuale, succede nella tua vita, è come se fosse la prima volta nella storia del mondo. E un romanziere deve ricordarsi di questo pensando ai lettori. E allora ho pensato che avrei trattato uno dei più vecchi cliché, quello del triangolo, e lo avrei capovolto per suggerire ai lettori di guardare diversamente la situazione. Invece del tipico uomo nella posizione del bastardo e quindi della moglie che automaticamente diventa la vittima e l’amante che è la Jezabel che rompe le famiglie, la predatrice sessuale, suggerisco al lettore che qui abbiamo un uomo buono e gentile che ha sopportato decenni di attrito emozionale nel suo matrimonio, con una moglie che ha esercitato il suo potere insistendo che è la vittima della sua ambizione e della sua personalità, mentre l’amante è una donna simpatica e attiva e in gamba. Per vedere dove poi si va a finire.

Lei capovolge la situazione, in quale modo la moglie abbandonata non è più la vittima?
    E’ la vittima nel senso che è spaventoso e tremendo essere abbandonata così tardi nella vita, perché Laura è sulla sessantina. E invece non è una vittima nel senso che se lo è voluto. Le due azioni, o i due codici di condotta nella sua vita, che le rimbalzano addosso sono- la sua persecuzione continua e passiva del marito e il tentativo di trasformare il figlio in un surrogato del marito. Poiché ha detto a se stessa e al mondo che il marito non la capisce, ha deciso di fare del figlio il sostegno emotivo che secondo lei il marito non è. Alla lunga né l’una né l’altra di queste posizioni reggono perché  ingiuste nei confronti degli uomini con cui ha a che  fare.

In che senso parla di persecuzione passiva da parte di Laura?
   La sua è una persecuzione passiva perché il suo atteggiamento non è mai aggressivo: ha una bella casa, si occupa del giardino, non è mai stata infedele, ha tirato su i figli, ha sempre fatto trovare il pranzo in tavola, ma ha minato il marito in maniera sottile facendogli sentire che non la capisce, senza spiegare che cosa vuole, le piacerebbe tornare a lavorare ma è impossibile perché è inconciliabile con l’essere una buona moglie per lui. In modo silenzioso gli ha detto che si è sacrificata per lui, non lo ha fatto in maniera aggressiva, ma lo ha suggerito, accennato con il suo atteggiamento, ed è quello che io chiamerei “persecuzione passiva”, perché al mondo esterno lei appare come la moglie perfetta.

Non sarebbe stato più chiaro il significato se il marito non si fosse innamorato di una ragazza con la metà dei suoi anni, ma di una donna più matura?
    Penso che per la maggior parte degli uomini, anche per i più cerebrali, il sesso è una lingua ed è la lingua dell’amore, il sesso è rassicurante per molti uomini. Non lo sottolineo nel romanzo, ma accenno al fatto che anche a letto Laura era passiva, e Guy è un uomo attraente che ha sempre ammirato le donne e non ha mai tradito la moglie. Questo incontro è per molti modi un incidente e il mio intento nel fare di Merrion una ragazza giovane è creare un dramma. Come scrittrice di romanzi so l’importanza che ha la tensione drammatica, anche perché qui c’è la complicazione dei figli, lei è una donna della loro generazione, e la tensione in un romanzo è quella che fa girare le pagine.

Il titolo in italiano è “Un’amante da sposare”, in inglese la parola usata è mistress, una parola che in passato aveva una connotazione negativa e che è ormai antiquata: perché l’ha usata? Perché Merrion la usa riferendosi a se stessa?
    Sì, è una parola antiquata e implica anche che la donna sia mantenuta dall’uomo. Il motivo per cui ho usato questa parola è curioso: ho pensato ad un tremendo seduttore, James Goldsmith, che viveva apertamente un tipo di vita “europeo”, manteneva una donna, aveva avuto più mogli, parecchi figli e tutti belli. Goldsmith una volta aveva detto: “quando un uomo sposa la sua amante, automaticamente crea un posto vacante”, e io allora avevo pensato, ‘che patetico, che uomo insicuro’ e anche ‘che bel titolo per un romanzo’, e ho tenuto da parte questo titolo per anni. Oggigiorno la parola mistress è antiquata, c’è più qualità in questo rapporto. Al giorno d’oggi non ci sono più le mantenute e la parola più adeguata è lover. Merrion usa ironicamente la parola mistress, per spingere oltre Guy: la loro relazione dura da sette anni, sono al punto in cui un rapporto deve muoversi, lei scherza sull’età di lui, perché per lei parte del fascino di Guy è nel suo essere anziano.

Il romanzo è anche sul significato di essere madri, ci sono tre madri nel libro: Gwen, la madre dell’amante, Laura e poi Carrie, la moglie del figlio Simon. Quali tipi diversi di madre voleva rappresentare con queste tre donne?
    Anche se tutte le madri hanno qualcosa in comune, sono foggiate dall’esperienza della loro infanzia e dalla figura delle loro madri. L’insicurezza e l’insoddisfacente rapporto con gli uomini trasformano Gwen in una madre governata dalla paura e dall’ansia. E’ nervosa, perché desidera proteggere Merrion da quello che lei ha sofferto. Laura, invece, ha avuto l’opportunità di essere una madre generosa. Suo figlio Simon la ricorda come sempre dedita a loro. Ma mentre i figli crescono, lei non progredisce, non diventa meno possessiva, non accetta che i figli crescano e se ne vadano, non tiene presente che i figli ci vengono prestati e non ci appartengono. Quando il suo matrimonio crolla, lei chiede di più dal primogenito e meno dal secondogenito, che è gay. Il suo ruolo di madre si rovescia mentre lei invecchia: un tempo era il bambino Simon che dipendeva da lei, ora è lei a dipendere da lui. Invece Carrie, secondo me, è la più equilibrata, è preparata a lasciare che i figli la vedano così come è, con i momenti di esasperazione e di debolezza. Carrie è pronta ad essere amica dei figli e i figli sono pronti ad essere suoi amici.

Il nipote di Guy, Jack, va dal nonno per aiuto quando è infelice: perché questo episodio è un punto di svolta nel romanzo?
    Perché è emblematico della crisi della famiglia di Simon e Carrie, i genitori di Jack. Jack va dal nonno a cercare aiuto per istinto, perché i suoi genitori sono troppo presi dalla loro crisi. Va da qualcuno in famiglia con cui può confidarsi e mantenere la sua dignità. Qualcuno di cui si può fidare. E questo dà uno scossone alla sua famiglia- spesso c’è bisogno di uno shock per accorgersi di quanto sta accadendo. Fino ad ora il segreto della loro relazione ha protetto Merrion dalla realtà della famiglia, adesso riflette sulle esigenze di ognuno e sulle richieste che ognuno avanza sugli altri- a lei pare allarmante perché non ci è abituata, ha sempre avuto solo sua madre. Quando Guy le telefona che non può andare a Londra da lei perché deve prendersi cura del nipote, questa è per Merrion la prima volta che passa in secondo piano e non si comporta da adulta. Voglio enfatizzare che, per quanto si sia colti, per quanto si sia persone civili, le emozioni primitive sono sotto la pelle, la gelosia, la vendetta, la paura, il desiderio: basta schiacciare un bottone e vengono in superficie.

Questo è anche un romanzo sui diversi stadi dell’amore? Di come l’amore cambia con l’età e di come si debba lavorare sull’amore per seguirne i cambiamenti?
    Certamente: quello che soddisfa a vent’anni, non soddisfa più a 30 o 40 o 60. Uno dei piaceri dell’invecchiare è capire quanto più ampio è il panorama dell’amore. Ad esempio, a 25 anni è impossibile immaginare il piacere di essere nonni.

Ha messo nella storia anche una coppia gay: per allargare il significato dell’amore? Per stare al passo con i tempi?
     In parte sì, ma in parte è anche per dare un’altra prospettiva sull’amore. Mi serviva come un meccanismo per dare un porto sicuro a Laura. Parlando con parecchi uomini sui loro rapporti con le madri, mi è sembrato che gli uomini etero abbiano dei rapporti più complicati con la madre, che i gay siano più a loro agio. Sembra che le madri accettino più facilmente gli amanti gay dei figli. E questo legame gay mi serve nel romanzo anche per togliere un po’ di fuoco dalle coppie eterosessuali.

Alla fine del romanzo siamo preoccupati per il futuro di Guy: dopo tutto è l’unico che resterà da solo. Non era preoccupata anche lei per il suo personaggio?
  Certo che sì, però Guy ora sta meglio con la sua famiglia, prima Laura era sempre in mezzo tra lui e i figli. Tacitamente lei diceva che i figli erano suoi, lui aveva il lavoro. Adesso Guy si sente incluso nella vita dei figli come mai gli era successo prima. E poi Guy è il tipo di uomo che si farà senz’altro dei nuovi amici nel lavoro, non troverà un nuovo amore ma la sua compagnia sarà sicuramente ricercata. Sono più preoccupata per Merrion, perché è un tipo solitario, avrà degli amici ma forse non si sposerà. Avrà successo con la sua professione.

I suoi romanzi sono sempre su rapporti personali e sentimenti: pensa prima ad una situazione oppure le vengono prima in mente i personaggi e la vicenda li segue?
    Prima viene la situazione e poi i personaggi, l’ambiente e la trama. Ho presto in mente un quarto della storia e la fine- so dove vado ma non so come. C’è tutto perché la storia si sviluppi organicamente come la vita, almeno spero.

Il lettore è sempre colpito dalla spontaneità delle voci dei suoi personaggi: li “sente” parlare mentre scrive?
     Sì, mentre scrivo racconto un film che vedo nella mia testa: vedo e sento tutti i miei personaggi.

Non ci sono riferimenti ad avvenimenti storici nei suoi romanzi, le storie di queste persone potrebbero avvenire in qualunque tempo: è una sua scelta?
   I miei romanzi sono ambientati in Inghilterra perché io sono inglese, il riferimento sociale è inglese ma la situazione è senza tempo e “global”: un cuore infranto è lo stesso a Toronto e a Torino.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos