venerdì 29 maggio 2020

Gail Honeyman, “Eleanor Oliphant sta benissimo” ed. 2018


                                      Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                                                               il libro dimenticato

Gail Honeyman, “Eleanor Oliphant sta benissimo”
Ed. Garzanti, trad. S. Beretta, pagg. 344, Formato Kindle euro 9,99

    Non è vero che Eleanor Oliphant sta benissimo. Lo capiamo nelle prime tre pagine- è lei, in prima persona, che parla di sé e della sua vita. Ha quasi trent’anni, lavora in un ufficio come contabile, pensa di essere stata assunta perché faceva pena: si era presentata al colloquio di lavoro con un occhio nero, due denti mancanti e un braccio rotto. Arriva ogni mattina alle 8,30, non parla mai con nessuno, nell’intervallo pranzo mangia da sola facendo due cruciverba, per cena si prepara pasta al pesto e insalata, va a letto alle dieci, legge un’oretta e poi spegne la luce. Al mercoledì parla al telefono con la madre. Al venerdì compra una pizza, del vino e due bottiglie di vodka- il lunedì è lento ad arrivare. Ha sentito i colleghi di lavoro dire di lei, ‘è una malata di mente’. Non lo è, e però ha una brutta cicatrice che le deturpa metà del volto. Qual è il problema di Eleanor Oliphant, della sua totale incapacità di relazionarsi con gli altri, della sua assoluta solitudine?

    Sapremo tutto a poco a poco, con una piena rivelazione solo alla fine, dopo di che Elizabeth sarà libera di iniziare una nuova vita. Grazie all’aiuto di Raymond, il tecnico informatico che è suo collega, che dapprima Eleanor disprezza, perché ha un aspetto poco pulito, è trasandato, ha sempre scarpe da ginnastica ai piedi. Un giorno Raymond ed Eleanor soccorrono un uomo anziano che ha avuto un malore per strada. Se fosse stato per Eleanor, che lo aveva liquidato come un ubriacone, il vecchio sarebbe rimasto lì, disteso per terra. Raymond, invece, gli aveva prestato i primi soccorsi e aveva chiesto ad Eleanor di chiamare un’ambulanza.
     La ‘crescita’ di Eleanor segue due percorsi paralleli- uno è ‘il sentiero fiorito che porta alla rovina’, come dice Shakespeare, una storia di auto-illusione d’amore che non può che finire molto male; l’altro è difficoltoso, Eleanor avanza a piccoli passi, quasi trascinata suo malgrado da Raymond, un personaggio perfin troppo bello per essere vero.

     Avevo letto giudizi esaltanti di questo romanzo, “caso editoriale”, “indimenticabile”, “imperdibile”, e, anche se un po’ scettica, mi aspettavo molto. Una cosa è vera, di tutto quello che è stato scritto: che “Eleanor Oliphant” è un libro che si legge d’un fiato. Non necessariamente, però, perché è un capolavoro. È costruito e pensato per adescare la lettrice (è chiaro che si rivolge ad un pubblico di lettrici dal cuore tenero) anche se in maniera intelligente, stuzzicandola con la storia di un trauma, di abusi famigliari, di anafettività. Il romanzo è, tuttavia, superficiale, pieno di luoghi comuni e di improbabilità, e la tensione narrativa si regge sul mistero che circonda l’infanzia di Eleanor.
     Detto questo, è un romanzo di piacevole lettura che verrà presto dimenticato.



mercoledì 27 maggio 2020

Gill Hornby, “Miss Austen” ed. 2020


                           Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
   biografia romanzata

Gill Hornby, “Miss Austen”
Ed. Neri Pozza, trad. A. Zabini, pagg. 278, Euro 18,00

      È il 1840. Cassandra Austen, sorella di Jane, arriva alla canonica di Kintbury. Il reverendo Fowle è morto da poco, la figlia Isabella deve traslocare per lasciar posto al nuovo curato e Cassandra vuole esserle vicino in questo momento doloroso- dopo tutto sono ‘quasi’ parenti: Cassandra era stata fidanzata di Tom, zio di Isabella, morto in una disgraziata avventura di mare. Ma c’è un altro intento nella visita di Cassandra. Sia lei sia la sorella Jane erano state molto amiche della madre di Isabella con cui avevano intrecciato una fitta corrispondenza. Jane è morta da ormai più di vent’anni e i suoi libri hanno acquistato una certa fama (e ne acquisteranno sempre di più), l’anziana Cassandra deve mettere le mani sulle lettere prima che finiscano sotto occhi indebiti. Non sa quali confidenze Jane possa aver fatto all’amica e non può permettere che, se divulgate, qualsiasi ombra possa calare sulla memoria della sorella.
     Leggendo “Miss Austen”, basato sulla corrispondenza della famosa scrittrice (nessuna delle lettere riportate nel libro è, però, originale), ci pare di leggere un romanzo di Jane. Non solo proviamo una sensazione estraniante sentendo ‘leggere’ dai protagonisti, ad alta voce, stralci dei suoi romanzi, ma vi ritroviamo la stessa atmosfera, la stessa piccola vita di una canonica in un villaggio nella dolce campagna inglese.
Jane Austen
Di più. Incontriamo dei personaggi- persone vere che Jane e Cassandra Austen hanno veramente frequentato- che sembrano essere la copia di altri, inventati, che conosciamo benissimo dalle opere di Jane e che, adesso, ci paiono più reali ancora di questi. È come un gioco di specchi o di ombre- viene da chiedersi chi sia vero e chi sia la copia romanzata. Il mondo femminile con tutte le sue limitazioni, di cui abbiamo letto nelle pagine di Jane, rivive qui, sia nei ricordi-flashback di Cassandra sia nei nuovi avvenimenti che rivelano quanto poco sia cambiato nell’arco di mezzo secolo. Il matrimonio- e non il matrimonio romantico, privilegio di poche, ma il matrimonio come unica possibile soluzione per una vita dignitosa per una donna senza molti mezzi- è ancora il centro del romanzo. “Ho sempre affermato l’impossibilità dell’amore senza denaro, eppure deve essere ancora possibile sperare che, con il denaro e il trascorrere del tempo, possa svilupparsi l’amore…”- è la riflessione disperata di Jane (così come la ricorda la sorella) dopo aver accettato una proposta che poi rifiuterà nel giro del giro di ventiquattr’ore. No, Jane non si era lasciata comprare, il matrimonio senza amore non faceva per lei. Solo l’amore avrebbe potuto alleggerirle il sacrificio di dover rinunciare alla scrittura, se questa fosse stata incompatibile con i nuovi doveri. Essere nubili e ricche- se solo fosse possibile- sembra essere una sorte migliore che essere assoggettate ad un uomo, rinunciando a se stesse.
Cassandra
    Tra presente e passato entriamo nell’intimità delle due sorelle, di Cassandra che si sente legata per tutta la vita ad una promessa di fedeltà eterna, di Jane, così intelligente e critica, così interamente dedicata alla creazione letteraria da non cercare un affetto diverso da quello della sorella, amica, confidente. Sono donne, quelle che animano il romanzo, che sanno ben poco della realtà dell’amore, e forse il destino, che riserva a Cassandra un futuro di vedova senza mai essere stata moglie, la protegge anche dalla delusione di legarsi ad un uomo con cui ha ben poco in comune tranne l’attrazione fisica.
     Un soffio di novità arriva, invece, con Isabella, la figlia affranta all’inizio del libro. Affranta perché orfana, senza soldi e senza casa, obbligata a pregare le sorelle perché la ospitino. Ed ecco che, in una scena (ispirata ad un romanzo di Jane) che sembra quella di una commedia in cui le serve sono più realiste delle padrone, la mossa furba di una domestica spalanca la porta del matrimonio per Isabella. Proprio perché è orfana, può accettare il corteggiamento di un uomo degnissimo che però suo padre considerava inferiore, un medico- la borghesia lavoratrice avanza!
     Un romanzo piacevole per rivivere le atmosfere degli ineguagliabili romanzi di Jane Austen.

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la recensione sarà pubblicata su www.stradanove. it



domenica 24 maggio 2020

Constantine Pleshakov, “L’ultima flotta dello zar” ed. 2008


                                                       Voci da mondi diversi. Russia
                                                                    guerra

Constantine Pleshakov, “L’ultima flotta dello zar”
Ed. Corbaccio, trad. F. Roncacci, pagg. 398

     Sono cinque le grandi battaglie navali che hanno segnato la Storia- quella di Lepanto, di Trafalgar, dello Jutland, delle Midway e di Tsushima. Di quest’ultima (non ultima cronologicamente) sappiamo poco in Europa Occidentale: anni fa il poeta scozzese Douglas Dunn scrisse un lungo poema dal titolo “The Donkey’s Ears” (le Orecchie dell’Asino, con riferimento alle due punte gemelle dell’isola di Tsushima) su questa battaglia, chiamandola ‘la Trafalgar dell’Est’. Perché ebbe luogo nello stretto di Corea coinvolgendo Russia e Giappone, mettendo fine alle pretese espansionistiche della Russia sulla Corea e consegnando invece al Giappone l’egemonia sull’Asia continentale orientale che sarebbe durata fino al 1945. Ne “L’ultima flotta dello zar” (il titolo originale, “The tsar’s last Armada”, richiama alla memoria le vicende della memorabile sconfitta dell’Invincibile Armata spagnola nel 1588) Constantine Pleshakov racconta la Storia di quegli anni, il 1904 e il 1905, che culminarono con la prima sconfitta di una potenza europea da parte di una nazione asiatica e che videro germogliare in Russia i semi della rivoluzione operaia e contadina contro il sacrificio di uomini richiesto dalle imprese marinare in Oriente.
la Suvorov, nave dell'ammiraglio russo
     Pleshakov inizia da lontano- è lunga la rotta da San Pietroburgo al mar del Giappone. Inizia presentandoci ‘gli attori’ della Storia, lo zar Nicola II che aveva finalmente avuto, nell’agosto del 1904, il tanto desiderato figlio maschio dopo le prime quattro bambine, l’ambiente della sua corte e soprattutto l’ammiraglio Zinovij Petrovič Rožestvenskij, un personaggio affascinante, un gigante, degno avversario della sua controparte giapponese, l’ammiraglio Togo Heihachino. Sono nomi a noi sconosciuti, ma, mentre quello di Togo rifulgerà di gloria dopo la vittoria, su quello di Rožestvenskij si addenseranno delle ombre. Gli verrà addossata la responsabilità della sconfitta, verrà messo in dubbio che fosse veramente incosciente dopo essere stato gravemente ferito, che avesse precedentemente dato ordini chiari per scongiurare la resa. Eppure Rožestvenskij uscì a testa alta dal processo, senza mai mostrare cedimenti, prendendosi anche colpe che non aveva. Per ritirarsi poi a vita privata.
Zinovij Petrovič Rožestvenskij
    La flotta russa salpò da Tallin, allora Reval, sul mar Baltico il 28 settembre 1904. La rotta prevedeva passare dal canale della Manica e poi scendere verso sud costeggiando l’Africa doppiando il Capo di Buona Speranza prima di risalire verso nord-est. Le navi furono però obbligate ad una lunghissima sosta di due mesi in Madagscar prima di proseguire verso l’Oceano Indiano (ed era già marzo 1905) per entrare a maggio nell’Oceano Pacifico. Mesi lunghi, lunghissimi, a trattare porti di scalo con gli alleati francesi, a domare marinai che approfittavano di ogni sbarco per gozzovigliare, a cercare rifornimenti di carbone, a riparare avarie, a combattere contro le malattie fisiche e psichiche della ciurma. E intanto era arrivata la notizia della caduta di Port Arthur e dell’annientamento della Prima flotta del Pacifico: era da quasi un anno che i giapponesi aspettavano Cane Pazzo, come era soprannominato Rožestvenskij, e il suo rivale Togo aveva avuto tutto il tempo di riparare le sue navi mentre il rivale fremeva a Nosy Bé in Madagscar prima di decidere di proseguire senza attendere la Terza Squadra del Pacifico.
Togo Heihachino
    I tre possibili stretti per arrivare nel Mar del Giappone, a Vladivostock, erano tutti pericolosi, si prestavano tutti ad agguati. Cane Pazzo decise di tentare quello di Tsushima. Alle 13,49 del 14 maggio 1905 la Suvorov, la corazzata dell’ammiraglio Rožestvenskij sparava il primo colpo contro la Mikasa di Togo. Alle 14,30 la Suvorov era già esclusa dalla battaglia, Rožestvenskij era stato gravemente ferito e si era riusciti a trasportarlo sulla torpediniera Bujnij. Il 15 maggio la resa: delle 38 navi dell’Armada russa soltanto tre avrebbero raggiunto Vladivostock.
    Documentato, incalzante, appassionante, un libro che colma una lacuna, una lettura per chi ama la Storia, per chi ama il mare, per chi ama le grandi sfide.

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sabato 23 maggio 2020


                                                                   vento del Nord
     cento sfumature di giallo
      il libro dimenticato

Henning Mankell, “Prima del gelo”
Ed. Mondadori, trad. Carmen Giorgetti Cima, pagg. 413, Euro 7,99 (formato Kindle)

   Due fatti veri in apertura e chiusura del romanzo “Prima del gelo” di Henning Mankell (pubblicato nel 2003, è uno dei tanti libri dimenticati, in attesa su uno scaffale): il 18 novembre 1978 a Jonestown, nella Guayana nordoccidentale, persero la vita 990 membri del Tempio del Popolo, un movimento religioso statunitense fondato dal pastore Jim Jones. Tutti avvelenati con il cianuro in un suicidio collettivo; l’11 settembre 2001 Kurt Wallander e sua figlia vedono in diretta- come tutti noi- gli aerei entrare nelle Torri Gemelle.
    Fine agosto 2001. Una telefonata anonima riferisce alla polizia di Ystad di aver visto dei cigni in fiamme sul lago di Marebo, nel Sud della Svezia. Poco dopo un vitello muore in una fattoria della zona: qualcuno gli ha dato fuoco. Non è finita. Scompare un’anziana etnografa che sta mappando gli antichi sentieri di questa area. Scompare anche Anna, l’amica di Linda, la figlia di Kurt Wallander che tra una decina di giorni prenderà servizio nel corpo di polizia. Anna aveva appena raccontato a Linda di aver rivisto suo padre di cui non aveva più saputo nulla da quando se n’era andato di casa, abbandonando la moglie e la figlia piccola. Un uomo che riappare e due donne che scompaiono. L’etnografa (anzi, parti di lei) verrà ritrovata in uno scenario agghiacciante. Anche Anna riapparirà ma i dubbi su che cosa abbia fatto e chi abbia incontrato, su chi ‘sia’ lei in realtà, aumentano. Finché scompare un’amica comune di Anna e Linda, mamma single di un bambino piccolo.
suicidio collettivo di Jonestown
      La trama di questo vecchio romanzo di Mankell non è di quelle che preferisco. Tuttavia Mankell è sempre Mankell, la sua scrittura è sempre un piacere e c’è molto di altro, oltre alla trama, che suscita la nostra attenzione e che ci fa pensare. È come se ci fossero due diverse narrative in “Prima del gelo”. Una, la principale, quella che ci tiene in sospeso fino all’ultimo sulla sorte dei personaggi coinvolti e della stessa Linda (non è un bel presagio, per la sua carriera, essere già a rischio di vita prima ancora di incominciare), è quella che interessa Mankell più da vicino- i pericoli del fanatismo, qualunque ne sia la matrice.
L’altra narrativa è più personale, più psicologica, e riguarda il rapporto padre e figlia, madre e figlia, che osserviamo attraverso due modelli differenti- la famiglia Wallander in cui, dopo la separazione,  Kurt ha conservato con Linda un legame stretto anche se fatto di contrasti e baruffe, e la famiglia disgregata di Anna il cui padre l’ha abbandonata da piccola, un’assenza che lei, Anna, ha riempito con una presenza immaginaria. 
Ci sono poi i flashback di Wallander che pensa a suo padre che dipingeva quadri sempre uguali, che ricorda colleghi morti di cui era amico. Quando Kurt Wallander porta la figlia nella radura del bosco in cui ogni albero rappresenta uno dei ‘suoi’ morti, quello che le comunica è un messaggio di vita eterna attraverso la natura, l’antidoto migliore contro le morti atroci che devono fronteggiare.
     Un libro che completa la panoramica dello scrittore scomparso, anche se non è uno dei suoi migliori.



giovedì 21 maggio 2020

Victor Serge, “Il caso Tulaev” ed. 2005


                                           Voci da mondi diversi. Russia
la Storia nel romanzo
il libro dimenticato

Victor Serge, “Il caso Tulaev”
Ed. Fazi, trad. Robin Benatti, pagg. 417, Euro 17,50

       Lo scrittore Victor Serge non è veramente russo. Ovvero lo è, in quanto figlio di genitori russi fuggiti dalla Russia nel 1880 perché oppositori del regime zarista, ma nacque a Bruxelles nel 1890 e conobbe la sua terra d’origine solo all’età di ventotto anni. E- come lui stesso ci avverte- la verità creata dal romanziere non dovrà essere in alcun modo confusa con quella dello storico e del cronista: “Il caso Tulaev” è perciò pura invenzione letteraria. Come mai, allora, ci sembra così reale, molto più di altri romanzi a cui può essere paragonato, “1984” o “Buio a mezzogiorno”? forse perché non ha un protagonista principale. Se c’è un eroe, ne “Il caso Tulaev”, è l’assassino del suddetto Tulaev, che appare solo nel primo e nell’ultimo capitolo.
     Il libro inizia con due acquisti diversi- per aspetto e per significato intrinseco- in una triste Mosca del 1938 dove, al Gran Mercato, si trova merce di ogni tipo, per lo più molto scadente, uscita dai fondi di qualche cassetto e messa in vendita da disperati. Il giovane Kostia, operaio in un cantiere della metropolitana, compera (con gli ultimi soldi che ha in tasca) un quadretto che ritrae un volto dolcissimo di donna che lo incanta, mentre Romachkin, vicecapo dell’ufficio salari del Trust delle Confezioni di Mosca, un ometto grigio che meglio di ogni altro conosce la falsità dei presunti aumenti di salari, che ha la fissazione dei numeri (come si fa far combaciare quelli della propaganda e quelli della realtà?), compera una pistola. La bellezza da una parte, la morte dall’altra.
Seguono due azioni, anche queste una l’opposto dell’altra, entrambe soggette al caso. Passeggiando lungo il muro del Cremlino, Romachkin incontra per caso l’uomo con i baffi che sbucava dalle fotografie sui giornali, sulle gigantografie attaccate ai palazzi di quattro piani. Romachkin si trova a due metri da lui. Potrebbe ucciderlo. Non lo fa e, tornato a casa, regala la pistola al suo vicino di stanza, Kostia. Che, camminando in una strada stretta, una sera di neve, sente il rumore di un’auto che accosta, sente l’autista salutare l’uomo che ne è sceso chiamandolo per nome, ‘compagno Tulaev’. Tulaev, quello delle deportazioni di massa, quello delle purghe nelle università. E Kostia spara.

     Succede quello che tutti sanno che sarebbe successo. Qualcuno deve essere punito. Non importa chi, deve essere una punizione esemplare e si scelgono cinque capri espiatori di estrazione diversa- un intellettuale, un alto commissario di polizia, un contadino-soldato, un vecchio bolscevico e un troskista. Arrestati, fatti confessare loro malgrado quello che non hanno fatto. “Vedete compagni, se il partito lo vuole, non domando di meglio che assumermi la responsabilità di tutto”, dice uno di loro, uno fedele fino in fondo, convinto fino in fondo che “il comitato centrale avesse sempre ragione, che l’ufficio politico avesse sempre ragione, che il capo avesse sempre ragione”. E se, da una parte, uno dei cinque confessa di odiare l’Occidente, di detestare il mondo in cui vive e però di amarlo più ancora di quanto lo detesti, un altro, ben consapevole della realtà in cui vivono, si chiede invece quanti fucilati ci vorranno ancora per alimentare la terra russa e poi- “chi fucilerà i giudici se sono stati ingiusti?”.

    La risposta, cinica, terribile, inevitabile, viene alla fine, dopo che non-giustizia è stata fatta, dopo che abbiamo seguito le storie di tutti i personaggi da un angolo all’altro della Russia attraverso carestie e arresti e deportazioni e scomparse e morti. La lettera di Kostia che si autoaccusa viene letta e bruciata, “Il processo Tulaev è chiuso”, dice il procuratore. “Moriamo tutti, senza sapere perché abbiamo ucciso tanti uomini”.
      Un romanzo corale di grande potenza. La perfetta ricostruzione di un clima di menzogna, di terrore e, nello stesso tempo, di fede invincibile in un’idea.



martedì 19 maggio 2020

Magda Szabó, “Via Katalin” ed. 2016


                                            Voci da mondi diversi. Europa dell'Est
                                                           romanzo di formazione
          seconda guerra mondiale

Magda Szabó, “Via Katalin”
Ed. Einaudi, trad. Bruno Ventavoli, pagg. 198, Formato Kindle Euro 6,99

         All’improvviso si accorsero che l’invecchiare aveva disgregato quel passato che gli anni dell’infanzia e della giovinezza consideravano così compatto e solido: il Tutto era caduto a pezzi e, anche se non mancava nulla, perché quei frammenti contenevano ogni cosa successa fino a quel giorno, niente era più come prima.
   Niente è più come prima. Non lo sono loro, i ragazzi di un tempo, Irén, Blanka, Henriett e Bálint. Non lo è via Katalin, dove abitavano: ‘allora’ le case si allineavano lungo il lato sinistro della strada, a ridosso della collina, e si riusciva a vedere il Danubio tra gli alberi al di là della carreggiata, adesso hanno costruito nuove case anche sul lato opposto. È importante che il titolo del romanzo di Magda Szabó sia il nome della strada, e non quello di una casa, come avviene spesso per i romanzi inglesi- abbiamo subito la percezione che la trama del romanzo coinvolgerà più persone e che, qualunque cosa avvenga, riguarderà tutti loro e che, se qualcuno morirà, sarà anche la strada a morire.

     Tre case, dunque, non una. Adiacenti una all’altra, con i giardini divisi da staccionate attraverso cui i bambini potevano passare con facilità. La casa degli Elekes (lui uno studioso, preside e insegnante, lei disordinata e inaffidabile, la figlia Irén brillante a scuola, la minore, Blanka, bella e bionda, un poco ‘lenta’), quella del dentista Held che ha una sola figlia, Henriett, e quella del Maggiore Bíró (vedovo, padre di Bálint, amato da tutte le ragazze). La maggior parte della vicenda è raccontata in un alternarsi di una voce in prima persona- quella di Irén- e di quella di una terza persona onnisciente. Ma, mentre il tempo torna indietro e poi si srotola inesorabile verso i momenti più drammatici per arrivare ad un ‘dopo’ di una tristezza infinita, noi pensiamo all’immagine di Blanka come ci è apparsa all’inizio, sempre bella ma un poco pazza, che chiama ‘Henriett’ tutti gli animali randagi che raccoglie, che urla al mare ‘via Katalin’ e nessuno capisce perché pianga. Henriett che, dopo che i suoi genitori erano stati portati via, nel 1944, era rimasta nascosta in casa del Maggiore per essere uccisa dal Soldato di guardia alla casa della sua famiglia che era stata requisita. Chi aveva inchiodato le assi che separavano i giardini, impedendo la fuga di Henriett che aveva voluto soltanto dare un’ultima occhiata alla sua casa? Ma la differenza tra i morti e i vivi è solo qualitativa e Henriett, fragile quanto lo sono Blanka e lo stesso Bálint adorato da tutte, non lascia mai Via Katalin, neppure da morta, non può allontanarsi dai suoi amici, si aggira in mezzo a loro e si stupisce quando non sembrano riconoscerla (in tempi molto più recenti Alice Sebold ha usato questo espediente in “Amabili resti”).

    Se vogliamo leggere “Via Katalin” come uno splendido romanzo di formazione, le dolorose tappe verso l’età adulta delle tre ragazze e di Bálint incominciano con una guerra di cui quasi non si rendono conto finché gli Held non tornano più a casa (si erano mai resi conto, i loro vicini, che gli Held fossero ebrei?). E poi Henriett muore, proprio la sera in cui Irén e Bálint avrebbero dovuto scambiarsi gli anelli di fidanzamento. E poi Bálint, per una falsa delazione, viene mandato via dall’ospedale dove lavora come medico. E Blanka deve andarsene di casa, in lacrime e con una valigia: suo padre non vuole più vederla. Può sopravvivere l’amore in mezzo a queste tragedie? L’amicizia, l’amore, la famiglia, il lavoro, tutto ha perso il suo smalto, tutto si è sfaldato, ha perso consistenza- come Henriett.
    Un libro bellissimo, come tutti quelli di Magda Szabó.







sabato 16 maggio 2020

John Lanchester, Il muro” ed. 2020


                           Voci da mondi diversi: Gran Bretagna e Irlanda
         distopia


John Lanchester, Il muro”
Ed. Sellerio, trad. Federica Aceto, pagg. 285, Euro 16,00

    E poi ci fu il Cambiamento. Quello che gli Altri chiamano, con una parola swahili, Kuishia, la Fine. Non ci viene mai detto chiaramente, nel romanzo “Il muro” di John Lanchseter, che cosa fu o che cosa causò il Cambiamento. Anche perché Kavanagh, il protagonista e io narrante, non lo sa. Non c’è possibilità di comunicazione tra le due generazioni, di quelli che sono nati prima e quelli che sono nati dopo il Cambiamento. Il problema è il senso di colpa, che è poi una colpa generazionale. “I vecchi si sentono responsabili di aver mandato a puttane il mondo in modo irrecuperabile, e poi di aver permesso che noi nascessimo in un mondo del genere”. 
C’è un muro di silenzio tra genitori e figli, così come c’è un muro, anzi ‘il’ Muro che corre lungo le coste della Gran Bretagna per difenderla dall’invasione degli Altri. Che arrivano di continuo dal mare, per lo più dal Sud. Ogni tanto questi assalti riescono, molti degli Altri muoiono uccisi dai Difensori, alcuni riescono a fuggire ma non hanno speranza: tutti gli abitanti della Gran Bretagna sono microchippati, gli Altri, quando vengono presi, hanno la possibilità di diventare Aiutanti- a metà strada tra schiavi e collaboratori domestici di ‘prima’, solo i più benestanti se li possono permettere.

    Kavanagh ha appena iniziato i due anni obbligatori di servizio come Difensore sul Muro. Deve affrontare, lassù sul Muro, il freddo- una morsa implacabile-, il vento, l’acqua, la vista senza fine del nastro di cemento, in turni di dodici ore che passano con una lentezza esasperante. Ti ci abitui- ti dicono. Non puoi rilassarti o distrarti o, men che mai, appisolarti se sei di turno di notte. Perché, se succede qualcosa e gli Altri fanno un’azione di sorpresa (il tranello è nelle ore o nelle condizioni climatiche che paiono meno probabili), ammesso che tu riesca a scamparla, ti aspetta un’altra fine: verrai calato in mare su una barca, abbandonato al tuo destino. In pratica diventerai anche tu un Altro, uno di quelli che, spinti dalla disperazione, provano il tutto per tutto.

     In questo romanzo di formazione della distopia il protagonista passa attraverso tutte le tappe della crescita- vede la morte accanto a sé e, quasi con stupore, uccide lui stesso, scopre quanto sia adattabile un essere umano, quanto arrivi a preferire la certezza di una routine sempre uguale anche se non piacevole all’incertezza di un futuro che non sa scegliere. In queste condizioni di vita estreme, di perenne difesa da un pericolo senza volto, scopre il valore dell’amicizia e quello dell’amore. Prende addirittura in considerazione la possibilità di Figliare con la compagna di sorveglianza che glielo propone. Perché ci sono dei vantaggi a diventare un Figliatore, se si riesce a superare lo scrupolo di quanto sia da irresponsabile mettere al mondo un bambino in questo mondo.
     Sembra una creazione di pura immaginazione, il romanzo di John Lanchester. La tecnica adottata dallo scrittore è quella del paradosso- ma è veramente paradossale il mondo del dopo-Cambiamento che ci descrive? Non è piuttosto il mondo degli incubi che ci assalgono quando abbassiamo la guardia, quando smettiamo di scherzare sulle stagioni che non esistono più, sui ghiacciai che scintillano nei ricordi della nostra infanzia, sulle lucciole che non punteggiano più le notti estive? O quando leggiamo notizie di incendi devastanti, di foreste abbattute, di polveri sottili che soffocano? O quando ci indaghiamo sulla pandemia che continua a falciare le sue vittime?
Anche l’idea del Muro, che difende i privilegi di quelli che hanno dalle invasioni di quelli che non hanno, non è forse, estremizzata, l’immagine di una realtà di cui abbiamo letto? Qualche nostro politico potrebbe trarne ispirazione. O forse no, per fortuna, perché gli uomini politici sono improbabili lettori.
     “Il Muro” non ha né la potenza rappresentativa né la ricchezza dei dettagli o la capacità visionaria di “Coraggioso nuovo mondo” o di “1984” o del “Racconto dell’Ancella”. Non ha l’andamento crudele di favola moderna con dei protagonisti bambini come “Mara e Dann” di Doris Lessing e neppure la disperazione totale de “La strada” di McCarthy. E tuttavia è lo specchio distorto del nostro tempo, ricco di riferimenti all’attualità che non possiamo non cogliere.
“Andrà tutto bene” disse. Volevo credergli, ma il fatto che avesse sentito il bisogno di dirlo significava che non era vero.
   Strano, trovare questa frase in questo libro e la riflessione che segue- la stessa che faccio io quando la leggo sui muri o sugli striscioni o nei post sui social.

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giovedì 14 maggio 2020

Ferdinand von Schirach, “Un colpo di vento” ed. 2009


                                            Voci da mondi diversi. Area germanica
                                                                      legal thriller
     Il libro ritrovato

Ferdinand von Schirach, “Un colpo di vento”
Ed. Longanesi, trad. Irene Abigail Piccinini, pagg.237, Euro18,00

Titolo originale: Verbrechen


Beck rimase in piedi ancora due secondi, poi cadde anche lui, sbatté la testa contro la panchina formando una stria rossa. Rimase lì, con gli occhi sgranati; sembrava fissasse le scarpe dell’uomo. L’uomo si raddrizzò gli occhiali. Accavallò le gambe, si accese una sigaretta e aspettò l’arresto.

  Un medico di 72 anni uccide la moglie con l’ascia. Una ragazza uccide il fratello rimasto infermo dopo un incidente. Un giovane fa a pezzi un uomo che ha trovato morto in casa, pensando che sia stata la sua ragazza ad ucciderlo, invece è morto d’infarto. Un killer di professione ammazza due skinheads per legittima difesa e la fa franca (dopo aver appena eseguito un omicidio su ordine). Un uomo viene assolto dopo aver ferito la sua ragazza: voleva mangiarla. Ci riproverà.

      Sono questi alcuni dei casi che l’avvocato penalista Ferdinand von Schirach ha raccolto nel libro “Un colpo di vento”. Il titolo originale è una sola parola, il verbo Verbrechen, ‘commettere un delitto’, non  adatto per quello italiano, ma di certo più immediatamente esplicito del poetico Un colpo di vento e più adeguato allo stile scarno ed essenziale del libro. Che è una raccolta di casi giuridici un po’ estremi, perfetti per essere raccolti tra le due citazioni in apertura e chiusura del libro. La prima è: ‘La realtà della quale possiamo parlare non è mai la realtà “in sé”’, del fisico Werner Heisenberg; la seconda è presa dalla serie di quadri di Magritte, ‘Ceci n’est pas une pomme’- niente è mai quello che appare, o almeno non solamente quello, né le persone né i fatti.
    L’anziano medico che uccide la moglie, per esempio. Lei, Ingrid, era un’arpia, a detta di tutti. Era impossibile non provare compassione per il povero Friedhelm Fahner. Ma non poteva divorziare? No, questa soluzione non c’era nel mondo di Fahner. Quando aveva sposato Ingrid, anzi ancora prima, lui aveva giurato che non l’avrebbe mai lasciata. Perciò non c’era altra via d’uscita. Fu condannato a soli tre anni: avrebbe passato la notte in carcere e di giorno avrebbe lavorato come commerciante di frutta.

    C’è un altro caso di omicidio che, come questo, ci fa dubitare di tutte le nostre idee fisse sul crimine e sulla colpa e sulla pena che deve essere comminata in base alla colpa. Perché forse è giusto e necessario indagare anche su quello che c’è dietro l’azione criminale. Uccidere non è bene, ma è sempre male assoluto? C’è una gradazione nel male, anche quando si tratta di un delitto, quando si pone fine ad una vita umana? Così quale pena dare  alla giovane Theresa Tackler che ha ucciso il fratello? Theresa è cresciuta insieme a Leonhard, gli ha fatto quasi da mamma dopo che la madre è morta. Erano loro due contro il mondo, con un padre che li ignorava. Poi c’era stato l’incidente e Leonhard era rimasto gravemente handicappato.  C’è l’amore che si accontenta del respiro della vita e c’è quello che fa delle scelte per chi non le può più fare. Un Leonhard in sé, un Leonhard pensante, avrebbe accettato di vivere così, destinato ad un continuo peggioramento?
     Ogni storia che von Schirach ci racconta si svolge secondo un modello unico. A volte von Schirach interviene nel racconto in prima persona, quando deve dare spazio alla parte che lui stesso ha avuto nel caso delle persone di cui ha assunto la difesa. Per lo più ci vengono detti i retroscena, quello che è accaduto ‘prima’ e che ha portato al crimine. E’ come se l’avvocato stesso ci concedesse di ascoltare le confidenze del suo assistito, di modo che la nostra visione dei fatti è dal punto di vista di questi. Nello stesso tempo comprendiamo che è così che l’avvocato vuole che vengano esposti i fatti in tribunale, davanti a una giuria a cui si debbono fornire tutti gli elementi per valutare l’entità del crimine commesso. Anche noi lettori diventiamo parte di quella giuria e veniamo manipolati, con finissima e gesuitica intelligenza, verso la decisione auspicata dall’avvocato difensore. Lo stile dell’esposizione è quello dei migliori oratori: chiaro, essenziale, di una logica stringata, senza concessioni a divagazioni o barocchismi. Ci conduce là dove ci vuole condurre- a meditare su che cosa sia la colpa, su chi sia veramente colpevole, sul valore e la funzionalità della pena (punizione? redenzione?), sulla possibilità della giustizia.

   Non è sufficiente leggere solo il primo, o il secondo dei casi, per farsi un’idea corretta del libro. E’ solo leggendolo interamente che vediamo che ogni caso è un tassello di un quadro la cui immagine ci inquieta con la domanda nascosta dietro il quadro della mela di Magritte: questa non è una mela. Bene, ma allora che cosa è?



martedì 12 maggio 2020

Graham Greene, “The human factor”


                              Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                                                              spy-story


Graham Greene, “The human factor”
Ed. New Ed., pagg. 290, Euro 12,63, formato Kindle 8,49

       Una spy-story scritta da Graham Greene non è una banale spy-story. Non c’è niente dell’atmosfera seduttiva e affascinante delle imprese di 007 o dei libri di Le Carré. Già il titolo, “The human factor”, lascia intuire qualcosa di diverso, quel fattore umano di cui la ‘vera’ spia non dovrebbe curarsi- e infatti più di un personaggio del romanzo non se ne cura affatto e considera la morte come un danno collaterale, un incidente di percorso se qualcuno muore per sbaglio. Ma c’è Maurice Castle, il protagonista del romanzo. E Maurice Castle è diverso.
     La trama prende avvio piuttosto lentamente ed è anche abbastanza prevedibile, ma Greene sa come tenere il lettore incollato alle sue pagine, l’atmosfera di dubbio e di incertezza finisce per avvolgerlo e il dialogo è superbo.
    C’è una fuoriuscita di notizie dal settore dei Servizi in cui lavora Maurice Castle con il collega più giovane, Davis. Siamo in piena Guerra Fredda, il mondo è diviso in due blocchi, il Comunismo è il nemico numero Uno e l’ambito di cui si occupano Castle e Davis è l’Africa. Maurice ha vissuto in Sud Africa, ne odiava l’apartheid, è riuscito ad andarsene di là in maniera avventurosa portando con sé la donna di colore che amava e il figlio di lei a cui vuole bene come fosse suo.
Maurice si reca spesso a comprare dei libri in una piccola libreria, acquista sempre due copie dello stesso volume- gli piace discutere delle sue letture con un amico, ma chiunque abbia letto dei libri di spionaggio pensa a messaggi in codice.
     Oltre a Maurice, che ha superato l’età del pensionamento e che pensa prima di tutto alla sicurezza della moglie e del figlio, e a Davis, giovane, sventato e innamorato della segretaria (ma forse anche qualunque altra donna gli andrebbe bene), c’è tutta una galleria di personaggi che hanno ben poco delle spie dell’immaginario- Dinfrey, un animo tormentato quanto Castle, che vorrebbe dare le dimissioni ma non riesce a decidersi, un capo che è incapace di prendersi la responsabilità di decisioni estreme, l’odioso dottor Percival che ‘non si aspettava’ che delle gocce da lui sciolte in un bicchiere d’alcol avessero un effetto così prontamente letale.

    È un mondo di uomini soli, quello che ci dipinge Graham Greene. Un mondo fatto di silenzi perché i mariti non possono tornare a casa alla sera e parlare con le mogli del loro lavoro, un mondo senza amici in cui anche i valori più importanti sono ambigui. La gratitudine: fino a che punto ci si deve spingere per gratitudine? Deve durare in eterno, la gratitudine? Che onere possiamo e dobbiamo accettare per gratitudine? E la parola ‘tradimento’: non si finisce forse per tradire sempre qualcuno o qualcosa? Tradire non è necessariamente il contrario di essere leali. E poi c’è il fattore umano, l’elemento imponderabile, quello che si tralascia di mettere in conto quando si programma una strategia. Che peso ha, il fattore umano? Non lo stesso per tutti, purtroppo, in qualunque circostanza.
     Sono questi interrogativi che rendono sempre speciali, sempre validi, sempre spunto di riflessioni tutti i romanzi di Graham Greene.
Ho trovato in casa una vecchia copia in inglese (ereditata da una zia). Di certo è uno dei romanzi di Greene che la casa editrice Sellerio riproporrà.

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