domenica 20 ottobre 2024

Elena Fischer, “Paradise Garden” ed. 2024

                          Voci da mondi diversi. Area germanica

                                             romanzo di formazione

Elena Fischer, “Paradise Garden”

Ed. Gramma, trad. Susanne Kolb, pagg. 272, Euro 18,05

 

      Mia madre è morta questa estate.

   Quattordici anni è un’età di merda per perdere la madre.

Due frasi così, in apertura del libro, sono un pugno nello stomaco. Un altro pugno che ci fa piegare in due arriva subito dopo, durante il funerale ‘nel giorno più caldo dell’anno’, mentre la bara viene calata nella fossa. Se lei sperava che la mamma comparisse al suo fianco, la prendesse per mano e la portasse via- be’, la mamma non era comparsa. È comparso invece il mio primo ciclo. Può esserci qualcosa di più terribile che diventare donna con il soprassalto di sentire il sangue scorrere sulle gambe e avere appena perso la mamma che avrebbe potuto spiegare e rassicurare?

   La mamma si chiamava (o si chiama, perché la sua assenza è una presenza costante a fianco della figlia) Marika e lei, la figlia che è l’io narrante, Billie. Soltanto a sette anni, a scuola, aveva scoperto che il suo vero nome era Erzsébet. La mamma diceva che Billie era un diminutivo, ma molto più tardi lei verrà a sapere che è tutto un altro nome, che c’è una canzone intitolata con questo nome. E che la canzone deve aver avuto un significato per il cuore della mamma.


    Non abbiate timore che “Paradise Garden” sia un libro sdolcinato, come i libri per l’infanzia del passato dove bambini orfani scoprivano il nonno ricco o si addentravano in giardini segreti. Potrebbe esserlo ma non lo è, perché la voce di Billie ride anche se vorrebbe piangere mentre ricorda tanti episodi di vita passata, perché Marika è una madre giovanissima e tremendamente simpatica, perché  anche se in Marika e Billie c’è qualcosa di Pollyanna (la protagonista del famoso romanzo per bambini di Eleanor Porter che trova sempre qualcosa di positivo in tutto), ci divertiamo a leggere della polvere di stelle che questa mamma spargeva su tutto, trasformando in un divertimento andare a cercare i prodotti scaduti e scartati del supermercato quando i soldi erano finiti, fare la doccia calda approfittando dell’ingresso gratuito in piscina, far apparire la più grande avventura tuffarsi dal trampolino di dieci metri, fingere di essere in villeggiatura mettendo le sedie sul ballatoio quando faceva molto caldo. La mamma raccontava che se n’era andata da casa, in Ungheria, perché sua madre la picchiava, che era stata la prima ballerina al teatro di Budapest, che il padre di Billie l’aveva lasciata. Era tutto vero?

   La nonna, cattiva come quella delle fiabe, bussa alla loro porta, dice di essere ammalata e di avere bisogno di cure. Nella piccolissima casa in cui mamma e figlia abitano, la nonna si prende la stanza di Billie e tira fuori tutte le sue statuette di Gesù e le Bibbie (due, in caso una vada persa). È la fine dell’idillio. E poi succede il peggio, la vita di Billie ha una svolta, il romanzo ha una svolta.


    Fino a questo momento l’ambientazione era stata il condominio di periferia degradata, oltre a Billie i personaggi erano stati la madre e la nonna, l’amica ricca e ‘traditrice’ di Billie e gli amici poveri e generosi che erano anche i vicini di casa, l’unico spostamento era stato il viaggio vagheggiato e mai fatto con i soldi vinti per una risposta giusta ad un quiz radiofonico, adesso tutto cambia e il romanzo diventa, fino ad un certo punto, un romanzo ‘on the road’ con Billie che, pur non avendo la patente, si mette al volante e parte. Per dove, non lo sa neppure lei di preciso. Ha un bagaglio minimo, l’importante è che abbia il quaderno su cui prende appunti perché vuole diventare una scrittrice.


    “Paradise garden” era il nome del gelato più grosso che la mamma aveva comperato per Billie, quello che Billie ha perso è il Giardino dell’Eden, si chiama Sal Paradise il protagonista del romanzo “On the road” di Kerouac che Billie sta leggendo- è una traccia per noi lettori? Per Billie che vuole trovare suo padre, che sognava il mare caldo del Sud dell’Europa e invece arriva sul mare del Nord? è il Paradiso quello che trova in quell’isola semidisabitata e un poco selvaggia? Di certo mette insieme le tessere del puzzle della vita di sua madre. Ognuno ha la sua storia. Mia nonna ha una storia, ce l’ha mia madre e ce l’ho anche io.

    Un libro sfaccettato, che parla dell’amore, dell’essere genitori e dell’essere figli, dell’urgenza di trovare se stessi cercando le proprie radici. Un libro in cui l’eccesso di sentimento si stempera nell’umorismo, forse velato di lacrime ma anche di tenerezza e di gioia di vivere. Nonostante tutto.



venerdì 18 ottobre 2024

Murakami Haruki, “La città e le sue mura incerte” ed. 2024

                                           Voci da mondi diversi. Giappone



Murakami Haruki, “La città e le sue mura incerte”

Ed. Einaudi, trad. Antonietta Pastore, pagg. 560, Euro 21,80

 

     Ormai lo sappiamo. Prima di iniziare a leggere un romanzo di Murakami Haruki dobbiamo abbandonare la presa della ragione, dobbiamo affidarci alla  sua scrittura senza farci tante domande. Solo allora siamo pronti alla lettura.

     “La città e le sue mura incerte” è diviso in tre parti. La prima è un rifacimento di una novella del 1980 che aveva lo stesso titolo del romanzo. È la storia soffusa dell’incanto del primo amore di un ragazzo diciassettenne e una ragazza che ha un anno meno di lui. Poi lei scompare e lui, per cercarla, entra nella città che avevano passato ore insieme ad immaginare, in ogni minimo dettaglio. Nella seconda parte il protagonista, che ormai ha superato la quarantina, abbandona il suo lavoro e accetta l’incarico di direttore di una biblioteca in una piccola città. Nella terza parte, infine, la storia riprende il filo dentro la città dalle alte mura con un nuovo personaggio che aveva addirittura disegnato una mappa della città fantastica dopo averla sentita descrivere dal direttore della biblioteca.

    La storia dei due adolescenti ha la dolcezza della scoperta dell’amore, fatto di passeggiate, di soste sulle panchine del parco, di parole, parole, parole. Lei racconta della città con alte mura, aggiungendo dettagli che rendono credibile l’incredibile.


Quando lei scompare e lui entra nella città per cercarla, noi lettori siamo messi alla prova. C’è un Guardiano che sorveglia le mura, nessuno può uscire, chi entra deve abbandonare la sua ombra, unicorni tristi si aggirano per le strade e sono gli unici che possono uscire e rientrare. Quando muoiono, il Guardiano provvede a bruciarli. Il ragazzo viene assunto nella biblioteca, il suo compito è fare il Lettore di Sogni. I sogni che gli vengono consegnati in lettura hanno la forma di uova e, per poterli leggere, ha dovuto accettare che i suoi occhi venissero feriti (non ci viene mai spiegato come e perché, possiamo solo immaginare che i sogni non possano essere letti con una capacità visiva perfetta). Ci arrovelliamo anche sul significato dell’ombra che finirebbe per morire se non si ricongiunge al suo proprietario, che cerca di convincerlo a fuggire con lei. E pensiamo a Peter Pan a cui Wendy cuce la sua ombra, a Schlemil ne “La storia straordinaria di Peter Schlemil” di von Chamisso che vende la sua ombra al diavolo per acquistare la ricchezza.

    Nella seconda parte siamo in una città reale e il collegamento con la prima parte sembra è un’altra biblioteca- sembra allora che sia la biblioteca, il valore dei libri, il centro della narrazione. La realtà non è poi così semplice neppure in questa città isolata e con pochi abitanti. Il precedente direttore, che passa le consegne al protagonista, è un tipo stravagante. Indossa sempre un basco nero (e fin qui passi, anche se un basco in quella località del Giappone nessuno lo aveva mai visto) e una gonna a portafoglio sopra una calzamaglia nera. Ci spiegherà lui perché e quando ha iniziato a vestirsi così- è una storia molto triste. C’è dell’altro ancora, riguardo al vecchio direttore, dell’altro che, ancora una volta, è una sfida per la nostra ragione. Nella biblioteca, peraltro, incontriamo un altro personaggio che ha la sua dose di stranezza- un giovane con la sindrome del Savant, che ha, cioè, grandi limiti cognitivi ma anche capacità al di fuori della norma, ad esempio legge, legge sempre e legge di tutto e ricorda tutto.


     È questo giovane, che il protagonista chiama Yellow Submarine dalla scritta sulla sua felpa, che ci riporta nella città dalle alte mura dove il cerchio si chiude.

    “La città e le sue alte mura” è un romanzo che ci lascia perplessi. Come ho detto prima, siamo abituati all’atmosfera sospesa dei libri di Murakami, al passare dal mondo reale a quello immaginario attraversando un confine trasparente, a dialogare con personaggi che solo i protagonisti riescono a vedere, a cercare significati che possono essere diversi per ogni lettore, ma questa volta c’è molto di ‘già letto’, la narrativa è lenta e spesso ripetitiva. Ciò non toglie che non possiamo fare a meno di domandarci perché mai, anno dopo anno, il Comitato del Nobel dell’Accademia svedese non conferisca l’ambito premio a Murakami Haruki.



martedì 15 ottobre 2024

Han Kang, “Atti umani” ed. 2017

                                                      Voci da mondi diversi. Corea

                                                     guerra

premio Nobel 2024

Han Kang, “Atti umani”

Ed. Adelphi, trad. Milena Zemira Ciccimarra, pagg. 205, Euro 11,40

 

      Era il 18 maggio 1980. “5/18”- è con questa numero che si ricorda la data del massacro di Gwangju, nella Corea del Sud. Un bagno di sangue. Da 1000 a 2000 le vittime, forse di più. Come sempre, in questi casi, è impossibile sapere il numero esatto. Nell’ottobre del 1979 c’era stato un primo colpo di stato con l’assassinio del presidente Park Chung-hee, seguito da un secondo colpo di stato a due mesi di distanza: Chun Doon-hwan aveva instaurato un regime dittatoriale che aveva suscitato proteste e manifestazioni da parte di professori e studenti a partire dal marzo 1980. Si chiedevano riforme democratiche e l’abolizione della legge marziale. Seguì una violenta repressione in seguito alla quale aumentarono le proteste fino a culminare nei fatti di sangue del 18 maggio a Gwangju. L’esercito soffocò la rivolta con atti di tremenda crudeltà e il 27 maggio i carri armati entravano in città. Era stata una ‘piccola Tienanmen coreana’.

Chun Doon-hwan

    La Storia di quei giorni (poco conosciuta in Occidente) è lo sfondo del romanzo “Atti umani” della scrittrice Han Kang, vincitrice del premio Nobel 2024. È un libro grondante sangue e dolore, un racconto a più voci e in tempi diversi, perché un episodio così drammatico non si esaurisce nei giorni in cui accaddero i fatti ma lascia una ferita aperta, una memoria mai sopita delle violenze subite, della perdita di chi ci era caro, un susseguirsi di domande senza risposta su che cosa si sarebbe potuto fare per cambiare il corso del destino.

   Il libro è composto da sette ‘quadri’ con sette personaggi ed inizia con un ragazzino di quindici anni, Dong-ho (il suo nome riapparirà spesso in queste pagine, diventa il simbolo della rivolta e della spietatezza dei militari che non esitano a infierire su donne e bambini) che cerca il suo amico. Sua madre, che comparirà in quadro più avanti, aveva cercato di farlo tornare a casa prima che l’esercito entrasse in città. Non ci era riuscita e passerà il resto della sua vita a piangere il figlio e a sentirsi in colpa. Con Don-Ho entriamo nella palestra dove vengono portati i corpi di quelli che sono stati uccisi, solleviamo il lenzuolo che ricopre i cadaveri, restiamo inorriditi dalle ferite.


Una ragazza si prende cura dei morti, li ripulisce, accompagna i familiari per il riconoscimento, accende candele per smorzare il puzzo. La rivediamo cinque anni dopo, lavora come redattrice e si incarica di sottoporre i testi all’ufficio della censura- verrà portata nell’ufficio della polizia e schiaffeggiata perché denunci il nome del traduttore dell’ultima opera teatrale che ha consegnato e di cui non è rimasto quasi nulla dopo le cancellature della censura. Leggiamo di un’operaia e di un prigioniero- quello che tutte queste persone, vive o morte, hanno in comune è l’impossibilità di dimenticare. Anche i sopravvissuti sono morti, sono morti dentro. Hanno subito torture atroci, rivivono le sevizie negli incubi, cercano di annegare i ricordi nell’alcol, alcuni finiscono per suicidarsi.

    Han Kang aveva nove anni all’epoca della rivolta. Da adulta sente che è suo dovere indagare, consultare la documentazione che riesce a trovare (il viso del ragazzino Hong-do la perseguita, riesce a parlare con suo fratello), mettere per iscritto la storia di quei giorni, preservare la memoria delle persone e dei fatti, rompere la barriera del silenzio. Lo fa con uno stile asciutto che non si concede sentimentalismi- in quale altro modo si può parlare di sevizie, torture, atrocità e morte violenta? In quale altro modo si può parlare di una società in cui la pietà è morta? E l’alternarsi di voci diverse, di vivi e di morti, il passaggio da un ‘io narrante’ in prima persona ad una seconda o terza persona, lo spostarsi del tempo, dall’epoca dei fatti agli anni seguenti, fino a quelli più vicini a noi, ci dà l’idea di eternità- delle persone, ma non solo. Del dolore e dell’ingiustizia e del diritto alla libertà.

Un libro per chi vuol sapere, per chi non ha paura di confrontarsi con la malvagità umana. Da leggere.

     Un film del 2017, “A taxi driver”, diretto da Jang Hoon, si ispira alle vicende del 18 maggio 1980.



 

sabato 12 ottobre 2024

Hotate Shinkawa, “Intrigo a Tokyo” ed. 2024

                                               Voci da mondi diversi. Giappone

                                           cento sfumature di giallo

Hotate Shinkawa, “Intrigo a Tokyo”

Ed. Piemme, trad. S. Lo Cigno, pagg. 256, Euro 18,90

 

    Un inizio brusco, in questo mystery giapponese di Hotate Shinkawa, nata a Dallas ma cresciuta a Miyazaki. Serve al lettore per conoscere la protagonista che è anche l’io narrante- la giovane avvocata Reiko (l’autrice del libro ha studiato legge a Tokyo e ha esercitato l’avvocatura). 

Reiko incontra il fidanzato e rifiuta l’anello di fidanzamento che lui le ha comprato- troppo misero, lei vale ben di più, lui avrebbe dovuto spendere più di tre volte tanto. La scena seguente non fa che accentuare questo aspetto della sua personalità: il premio di produzione che le viene dato nello studio legale in cui lavora non è adeguato e Reiko si licenzia. Non si fa problemi a evidenziare il valore che per lei hanno i soldi.

   Ed ecco che incomincia il vero romanzo. È morto Eiji, un compagno di studi di cui Reiko era stata innamorata per un breve periodo. Era un ragazzo molto bello, molto generoso e molto ricco perché la sua famiglia gestiva un’importante casa farmaceutica. Una banale influenza che si era aggravata ne aveva causato la morte. Adesso viene ‘il bello’, alquanto paradossale.


Nel testamento Eiji nomina erede la persona che l’ha ucciso. Ma come? non è morto di morte naturale? E se, entro tre mesi, l’assassino non si trova, tutto il suo patrimonio andrà allo Stato. Ci sono poi molte clausole, è tutto molto dettagliato- è sufficiente dire che Eiji ha lasciato dei beni in eredità anche a tutte le ragazze con cui ha avuto una relazione (ne fa un elenco preciso, c’è anche Reiko nell’elenco oltre ad una cognata e ad altre donne conosciute dalla sua famiglia). A questo punto un comune amico si rivolge a Reiko e la convince a difendere la sua causa: aveva avuto una brutta influenza e ne era appena uscito quando aveva incontrato Eiji- non possono sostenere che è stato lui ad ucciderlo, contagiandolo?

     Ci saranno degli sviluppi, scomparirà il testamento, morirà l’avvocato responsabile di far eseguire le volontà del defunto, la trama si ingarbuglia- come è morto veramente Eiji? E Reiko si trova a riflettere sulla sua smodata ambizione, sul valore dei soldi, prima dell’appianamento finale.


    “Intrigo a Tokyo”- il titolo originale è “My ex-boyfriend’s last will and testament”, più esplicito di quello italiano in cui, peraltro, la parola ‘intrigo’ è perfetta- ha vinto il This Mysery Is Amazing Grand Prize ed è stato adattato per la televisione. È un thriller singolare che non dà assolutamente nessun brivido e si basa su disquisizioni prettamente legali che vengono esposte, però, con gran brio dalla protagonista che si rivela un’avvocata competente con  il gran pregio di saper sorridere di se stessa e della sua fame di denaro. È un romanzo piacevolmente rétro che stuzzica la nostra curiosità e solletica la nostra capacità di mettere insieme i pezzi del puzzle.


venerdì 11 ottobre 2024

PREMIO NOBEL

 




Il premio Nobel per la letteratura 2024 è stato conferito alla scrittrice coreana HAN KANG.

La mia recensione del suo romanzo “L’ora di greco” è stata pubblicata il 26 gennaio 2024.



giovedì 10 ottobre 2024

Etsu Inagaki Sugimoto, “La figlia del samurai” ed. 2024

                                         Voci da mondi diversi. Giappone

      romanzo autobiografico

Etsu Inagaki Sugimoto, “La figlia del samurai”

Ed. ObarraO, trad. Giulia Masperi, pagg. 352, Euro 18,50

 

     Nella provincia di Echigo, dove vivevo, l’inverno iniziava di solito con una fitta nevicata che scendeva rapida e costante finché restavano in vista solo le rotonde travi di colmo dei nostri tetti di paglia.

È un paesaggio del tutto diverso da quello del nostro immaginario con i ciliegi in fiore, questo che ci descrive Etsu Inagaki Sugimoto nel libro autobiografico “La figlia del samurai”. Echigo si trova sulla costa nord-occidentale del Giappone, dove gli inverni sono lunghi ed era necessario ricoprire di paglia le grandi sculture dei leoni davanti ai templi, le lanterne di pietra, gli alberi e i cespugli dei giardini, e pareti di assi verticali fiancheggiavano i marciapiedi sopra i quali si estendeva una sorta di tetto in modo da permettere agli abitanti di camminare protetti dal vento e dalla neve.

    Inizia con questi ricordi, il memoir di Etsu, la figlia del samurai che viveva nel castello di Nagaoka. Con lei c’erano un fratello e una sorella più grandi, ma, dopo che il fratello se n’era andato, alla vigilia del suo proprio matrimonio, era diventata lei la preferita del padre. La chiamavano Etsu-bo, dove il suffisso bo indica un nome maschile, perché era molto vivace e suo padre, un uomo dalla mentalità aperta, aveva voluto per lei degli studi come quelli che avrebbe fatto un ragazzo.


    “La figlia del samurai” è un libro costruito in tre movimenti, seguendo le tre tappe della vita di Etsu (nata nel 1875 e morta nel 1950)- l’infanzia e la prima adolescenza in Giappone, la pienezza della sua esistenza di donna in America, il ritorno in Giappone con due figlie. Il primo movimento è ricco di ricordi nostalgici, di descrizioni di vita quotidiana, di usanze, festività, riti religiosi. Tutto ha un significato, tutto contiene un insegnamento, dalla scrittura degli ideogrammi con il pennello al culto degli antenati. Quello che a noi occidentali può sembrare colore folkloristico ha invece un significato- è affascinante scoprirlo.


Poi Etsu deve raggiungere il promesso sposo, un amico del fratello, a Cincinnati. Sarà un cambiamento radicale e lei è solo una ragazzina. Deve imparare l’inglese, deve valutare che cosa portare via con sé. E l’abbigliamento? Il fratello la sconsiglia di vestirsi con i kimono in America. Se Etsu è spaventata all’idea di lasciare il suo mondo e le persone che ama dietro di sé, non lo dà a vedere, non lo dice. Il viaggio per nave è un assaggio della nuova realtà che la aspetta. Tutto la stupisce, ad iniziare dagli abiti delle signore, al loro comportamento, al cibo che viene servito. E tutto continuerà a stupirla, una volta arrivata.

   Etsu è giovane, ha una mente curiosa, e, anche se non può fare a meno di paragonare ogni nuova esperienza a come sarebbe stata in Giappone, riesce a vivere sulla linea di confine del ‘qui e ora’ e il ‘là e allora’, riesce ad apprezzare le novità, per quanto strane le possano apparire. Su una cosa indugia e ritorna spesso a parlarne- l’educazione formale che viene impartita in Giappone soffoca la spontaneità, impedisce la manifestazione dei sentimenti. La nostra convenzionalità è troppo estrema. Ci sta restringendo l’anima. Odio essere così felice qui, mentre tutte quelle donne pazienti e sottomesse stanno sedute in silenzio nelle loro case tranquille. È in America che Etsu ha visto per la prima volta un uomo e una donna baciarsi. In Giappone ci si inchinava e l’inchino era diverso secondo a chi era indirizzato. Esibire i sentimenti era maleducazione per un giapponese. Eppure…


   Ha già due figlie, Etsu, quando rimane vedova e torna in Giappone. La più grande delle bambine, Hanano, nome bellissimo che vuol dire ‘fiore in una terra straniera’, soffre molto per il distacco, sarà poi felice quando torneranno. La più piccola passerà da una stanza all’altra della casa in Giappone indicando alla madre gli spazi vuoti e minimali- le mancano i mobili, le poltrone, i quadri della casa che hanno lasciato.

     Leggerezza e profondità, poesia e cultura, Storia e miti, c’è tutto il Giappone in questo libro pubblicato per la prima volta nel 1925. È un libro essenziale per conoscere il Giappone. Un libro che ci spalanca le porte di un paese che ci ha sempre incantato. Anzi, ci piace pensare che ci aiuta a varcare la soglia di un torii, la porta tra il sacro e il profano. Ci aiuta a capire, a interpretare i segni di un’altra cultura.



martedì 8 ottobre 2024

Barbara Demick, “I mangiatori di Buddha. Vita e ribellione in una città del Tibet” ed. 2024

                           Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America

                                               romanzo-saggio


Barbara Demick, “I mangiatori di Buddha. Vita e ribellione in una città del Tibet”

Ed. Iperborea, trad. Katia Bagnoli, pagg. 364, Euro 19,50

 

       Tibet. “Il tetto del mondo”, così chiamato per la sua altitudine media di 4900 metri sul livello del mare. Poco più di tre milioni gli abitanti. Una guida spirituale, il Dalai Lama in esilio in India dal 1959. Un vicino scomodo e, letteralmente, invadente- la Cina. Viene spontaneo chiedersi come può, un gigante come la Cina, reputare pericoloso un microbo come il Tibet, tanto da stroncarne non solo i desideri di indipendenza, ma anche da cercare di sradicare la sua cultura e la sua lingua?

    La scrittrice e giornalista americana Barbara Demick è riuscita a fare tre viaggi a Ngaba, la città che si trova dove l’altopiano tibetano si incontra con la Cina diventata nota dopo il numero di monaci che hanno scelto di darsi fuoco per protesta. Da questi viaggi, dai colloqui con gli abitanti sul posto e da quelli che ora vivono in città vicine o in Nepal, nasce il suo reportage che si legge come un romanzo corale. I personaggi che vi appaiono sono tutti veri anche se con altro nome su queste pagine. È un racconto appassionante della Storia del Tibet dal 1958 ai giorni nostri. In una canzone di Tashi Dhondup il 1958 si allinea con il 2008- il 1958 è ricordato come ‘l’anno più buio per il Tibet’, “l’anno in cui l’acerrimo nemico arrivò in Tibet”, e il 2008 come ‘l’anno in cui i tibetani innocenti sono stati torturati’. Nella memoria tibetana permane il terrore del 1958. Così come la parola Nakbà indica l’esodo palestinese del 1948, Shoah il genocidio ebraico, Holodomor il genocidio per fame perpetrato dal regime sovietico a danno della popolazione ucraina negli anni 1932-1933, il termine Ngabgay, cioè ‘58, allude ad una catastrofe così tremenda che solo una data può esprimerla. C’è anche un altro nome per indicarla e ci colpisce per la poesia contenuta nella parola: Dhulok, che significa “ quando il cielo e la terra si rovesciarono.”


    Gonpo, figlia dell’ultimo re Mei, è la prima ad apparire in queste pagine- di lei e della sua vita sapremo fino ai tempi recenti in cui, dopo essere andata in India per apprendere la sua lingua che aveva dimenticato, si ritrovò in pratica esiliata lì, a Dharamsala dove ha sede il governo tibetano in esilio e dove ha la sua residenza il Dalai Lama. Aveva sette anni, Gonpo, nel 1958. Non aveva capito il perché della fuga né che cosa stesse succedendo. Dieci anni dopo sarebbe stata mandata nello Xinjiang, l’equivalente della Siberia, ai lavori forzati.

  Delek, figlio del generale che cercò di fermare l’Armata Rossa. Quando i soldati dell’Armata Rossa arrivarono a Ngaba erano un esercito di affamati. Per caso si accorsero che le statuine del Buddha erano fatte di farina ed erano dolci e potevano essere mangiate- una profanazione.

 Tsegyam, l’aspirante poeta, un intellettuale che nel 1989, dopo i fatti di piazza Tienanmen, sarà arrestato per propaganda antirivoluzionaria.


   Seguiamo le vicende di questi personaggi e di altri ancora nel corso degli anni fino al fatale 16 marzo 2011 quando il monaco Phuntsog, di soli sedici anni, si diede fuoco, immolandosi per protesta contro il governo cinese in Tibet. Fu il primo di una serie, un anno dopo erano trenta i Tibetani che avevano commesso un atto di violenza contro se stessi, scegliendo la morte tra le fiamme.


Nel 2019 erano 156- quasi un’affermazione di obbedienza al costante invito a non usare la violenza contro gli invasori da parte del Dalai Lama che aveva ricevuto il premio Nobel per la pace nel 1989. Nel suo esilio a Dharamsala il Dalai Lama, ormai guida spirituale del suo paese, dichiarava che considerava sua responsabilità preservare la loro cultura, la cultura della pace e della compassione.

    In parte saggio, in parte ricerca sul campo, in parte romanzo perché “I mangiatori di Buddha” si legge come un romanzo, tanto più affascinante perché sappiamo che sono veri i personaggi che vivono nelle sue pagine, il libro di Barbara Demick ci spalanca le porte sul tetto del mondo.