martedì 28 novembre 2023

Anuk Arudpragasam, “Passaggio a Nord” ed. 2023

                                             Voci da mondi diversi. Sri Lanka



Anuk Arudpragasam, “Passaggio a Nord”

Ed. La Nave di Teseo, trad. Andrea Silvestri, pagg. 320, Euro 19,00

 

   25 anni di guerra civile, tra il 1983 e il 2009, in Sri Lanka. I morti furono tra gli 80.000 e i 100.000. Lo scontro fu tra il governo e il gruppo separatista delle Tigri del Tamil che reclamavano uno Stato indipendente nel Nord-Est del paese.

   La guerra è ormai finita da anni quando prende l’avvio il romanzo di Anuk Arudpragasam, “Passaggio a Nord”, selezionato per il Booker Prize.

Il giovane Krisham, ritornato a vivere a Colombo dopo aver studiato in India e aver trascorso un periodo di lavoro nel Nord dello Sri Lanka, riceve contemporaneamente una mail da Anjun, la ragazza che aveva amato e che lo aveva lasciato quattro anni prima, e la notizia della morte di Rani, la badante della nonna. Rani si era recata dalla famiglia nel Nord, sembrava che fosse morta per un incidente, precipitando nel pozzo. Era stato veramente un incidente? Krisham ne dubita, Rani era in cura per una forte depressione. Ne aveva ben donde, Rani, per essere depressa- entrambi i suoi figli maschi, uno ancora bambino, erano morti durante la guerra. Anche il dottore che seguiva il suo caso aveva approvato che Rani lavorasse come badante dell’anziana nonna di Krisham, un’occupazione e lo stretto contatto con altre persone sarebbero servite per distogliere il suo pensiero.


    Krisham pensa sia suo dovere partire per presenziare al funerale della donna e il libro diventa allora un romanzo di viaggio, anzi di un doppio viaggio. Perché mentre il treno porta Krisham verso il villaggio a Nord dove vive la famiglia di Rani, insieme agli altri ricordi affiora quello di un altro viaggio in treno, in India, da Nord a Sud, da Delhi a Mumbai, insieme ad Anjun. È come se ci fosse un viaggio dentro un altro viaggio e quello precedente, con Anjun, è, in un certo senso, una preparazione per questo, attraverso la devastazione e il dolore lasciati dalla guerra. Perché il tempo passato con Anjun è, insieme, un periodo di ricca esperienza personale ma anche un risveglio politico per Krisham, influenzato dall’attivismo di Anjun. Veniamo a conoscenza di molte cose in questo duplice viaggio in treno, dell’invecchiamento della nonna che era tornata irriconoscibile dopo che era andata a trovare il fratello a Londra per l’ultima volta, delle violenze delle forze governative e, per ritorsione, di quelle delle Tigri, del corpo speciale delle Tigri Nere, dei cimiteri sterminati con le lapidi distrutte dall’esercito, della discriminazione che lo stesso Krishan aveva avvertito, quando era in India, nei confronti dei Tamil con la pelle più scura.

Apprendiamo pure del loro rituale del funerale con la cremazione del corpo, infine, quando Krishan arriva a destinazione, con quel pensiero fisso in testa che però non esprime a parole- si era uccisa, Rani? Non sopportava più il dolore della perdita? Inserite in questa duplice narrazione ce ne sono altre, un lungo poema, la storia di Siddharta e quella di un famoso ed eroico rivoluzionario Tamil, atrocemente torturato dopo essere stato preso prigioniero.

    Il romanzo di Anuk Arudpragasam ha il passo lento come quello del treno che sbuffa verso Nord, è un romanzo di riflessioni senza dialoghi, in uno stile ponderato che rivela gli studi di filosofia fatti dallo scrittore.



   

sabato 25 novembre 2023

Ralf Rothmann, “Quella notte sotto la neve” ed. 2023

                                                 Voci da mondi diversi. Germania

     seconda guerra mondiale

Ralf Rothmann, “Quella notte sotto la neve”

Ed. Neri Pozza, trad. Enrico Arosio, pagg. 282, Euro 19,00

 

   Inizia nell’ultimo inverno di guerra, il nuovo romanzo di Ralf Rothmann che conclude la trilogia iniziata con “Morire a primavera”, seguito da “Il dio di un’estate”. Conosciamo già alcuni dei personaggi che appaiono più avanti nel libro, quando il tempo si sposta di alcuni anni, le cicatrici della guerra sono presenti e visibili, nelle persone, nel paesaggio, ovunque. Oppure sono nascoste nei cuori, soffocate da ricordi che non si vogliono riportare alla luce.

   Nel 1945, mentre l’armata rossa avanza inesorabile, Elizabeth fugge come tanti altri tedeschi da Danzica. Prima su un motocarro, poi a piedi. Avanza a fatica. Ha sedici anni, non riuscirà ad evitare la sorte delle donne in tutte le guerre, quasi siano un lecito bottino per i soldati nemici. E però c’è ancora una speranza di bene, un incontro fortuito con un nemico che si rivela amico, un medico russo della Croce Rossa che la cura, le versa vodka sulle ferite per disinfettarle, la ricuce, le dà l’unico farmaco che ha, dell’ aspirina.


   Questa è la storia del passato di Elizabeth, narrata in capitoli brevi come singhiozzi che si alternano con quelli più lunghi di un tempo posteriore. In questi la voce narrante è quella di Luisa, la stessa di “Il dio di un’estate”, che incontra Elisabeth quando questa lavora come cameriera nel bar di sua madre.

Elisabeth è amata da tutti i clienti del bar, fa sentire speciale ognuno di loro, si ricorda dei loro gusti e delle precedenti ordinazioni, flirta con ognuno. È carina, se non bella. Luisa, che ha la stanza vicino alla sua, sente dei rumori di notte. Un paio di orecchini di perle che Elisabeth sfoggia saranno, anni dopo, rivelatori e causa di un rovescio nelle fortune di Elisabeth e del marito Walter. Riconosciamo Walter- era lui il ragazzo partito per la guerra e protagonista del dramma di “Morire a primavera”. I ricordi lo perseguitano, eppure tira avanti, la sua felicità è nell’occuparsi delle bestie, eppure sarà costretto a cercare un altro lavoro dopo che l’accusa di furto peserà su Elisabeth.


Avranno due figli, Elisabeth e Walter, ma Elisabeth è incapace di amarli, incapace di essere una buona madre. Luisa vede, Luisa racconta, Luisa cerca di capire, Luisa cerca di stare vicino ad Elisabeth. E al mite  Walter.

    Il dolore dello scrittore si avverte in tutto il romanzo, nel mettere insieme quanto è accaduto ad Elisabeth in quegli ultimi mesi di guerra, nello sforzo di comprenderla dopo, negli anni della ‘ricostruzione’ della Germania, quando il peso della colpa grava su tutti. E Walter ed Elisabeth sono tutti i tedeschi, ognuno con il suo bagaglio di violenza e di sofferenza, ognuno vittima e carnefice.

    Che cosa passa in eredità alla prima generazione del dopoguerra? Come hanno vissuto i figli di Walter ed Elisabeth? Non bene. Ci sono voluti anni e anni allo scrittore per riconciliarsi con la storia di sua madre, per poterne scrivere e mettere un punto al passato. Per girare pagina.

   Un altro libro molto bello che chiude il capitolo di Storia più doloroso della prima metà del secolo scorso.



   

  

mercoledì 22 novembre 2023

Jan Brokken, “La suite di Giava” ed. 2023

                                                          vento del Nord

voci da mondi diversi. Paesi Bassi

Jan Brokken, “La suite di Giava”

Ed. Iperborea, trad. Claudia Cozzi, pagg. 236, Euro 17,50

     Tutto è iniziato con un brano musicale ascoltato per caso alla radio, “I giardini di Buitenzorg” di Leopold Godowski. Un pezzo di straordinaria bellezza che non crea solo la suggestione di palme fruscianti, ma riporta alla memoria l’immagine di sua madre. E con questa il desiderio, la necessità di conoscerla, di sapere del suo passato. Perché una cosa è subito chiara allo scrittore olandese Jan Brokken. Lui aveva conosciuto sua madre in Olanda e non l’Olga che era andata giovane sposa poco più che ventenne nelle colonie, in quelle che allora erano ‘le Indie’. Sua madre aveva ben poco in comune con Olga e lui, il figlio minore, nato dopo il ritorno dei genitori in Olanda, dopo la tremenda esperienza del campo di prigionia giapponese, dopo che il sogno dei suoi genitori si era trasformato in un incubo, sapeva ben poco di quella loro vita precedente- sono le lettere che gli consegna la zia a fargliela conoscere.


    Il padre dello scrittore era un teologo ed era stato mandato in Indonesia per studiare la storia e la fenomenologia delle religioni, dell’islam in maniera particolare. Erano giovani ed entusiasti, Han e Olga. Ed erano felici di allontanarsi dalla pesante atmosfera delle loro famiglie olandesi. Olga era brillante e curiosa, imparava con facilità le lingue, il makassar e il buginese, riusciva a stringere amicizia con le donne del posto a cui insegnò perfino ad usare la macchina da cucire. L’amore di Han e Olga, finalmente libero da freni moralistici, era una spinta ad avanzare insieme in quella nuova esperienza, ad affrontare il dolore per la perdita della prima figlia, a gioire, poi, per la nascita di due maschietti, uno dopo l’altro.

    Jan Brokken è il flâneur per eccellenza, un flâneur straordinario. I suoi passi non lo conducono solo verso i luoghi che fa riapparire davanti ai nostri occhi- i giardini di Buitenzorg con i loro viali, il fiore più grande e più puzzolente del mondo (la Rafflesia che ha un che di mostruoso),


le colline, le piantagioni, i sentieri polverosi-, ma anche ad incontrare persone, pur non sempre fisicamente. Non possiamo fare a meno di chiederci se abbia una sorta di calamita che fa sì che entri in contatto con uomini straordinari, che una conoscenza ne attiri un’altra, per arrivare infine all’attenzione di noi lettori che impariamo dello strumento giavanese ‘gamelan’, di Godowski che risentì dell’influenza  di Seelig, specialista della musica delle Indie orientali olandesi. Altri nomi ancora entrano nella storia della madre dello scrittore, studiosi della religione, personaggi insoliti che si sono convertiti dall’islamismo al cristianesimo durante una burrascoso ritorno per mare dalla Mecca, la famosa scrittrice Hella Haasse.
Paul Seelig

    Era come vivere in un incantesimo, per Han e Olga. Nonostante il clima a volte difficile da sopportare, nonostante le difficoltà, forse non sarebbero mai tornati in patria. Forse non sentivano più l’Olanda come la loro patria. Poi la guerra e l’invasione giapponese e i campi di prigionia che avrebbero minato la salute di entrambi, che avrebbero causato incubi ai fratelli dello scrittore anche quando erano ormai adulti.

   Avevano dovuto tornare in Olanda e Olga non era più Olga, neppure fisicamente. Il cambiamento maggiore, però, era quello avvenuto dentro di loro- non credevano più nella superiorità della fede cristiana e neppure della civiltà europea. La barbarie di cui l’Europa era stata capace superava quella dei paesi pagani. E lui, Jan Brokken, nato nel 1949, non sarebbe più andato a cercare le orme dei suoi genitori nelle Indie. Perché le loro Indie non esistevano più, le Indie erano state il loro passato e il loro sogno, e lui, Jan, sarebbe sempre rimasto estraneo a quel mondo.

     Un libro molto ‘ricco’ di voci, di colori, di idee, di musica, come tutti i libri dello scrittore. 

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lunedì 20 novembre 2023

Catherine Dunne, “Una buona madre” ed. 2024

                           Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda



Catherine Dunne, “Una buona madre”

Ed. Guanda, trad. Ada Arduini, pagg, 352, Euro 19,00

 

    Donne. Madri. Sono le donne e le madri le grandi protagoniste del nuovo romanzo di Catherine Dunne, “Una buona madre”- titolo significativo che pone la domanda, chi può dirsi una buona madre? Come si fa ad essere una buona madre?

    Tess, sposata con due figli, Aengus (il ragazzo modello) e Luke (il secondogenito scapestrato, ribelle e imprevedibile).

     Maeve, rimasta incinta giovanissima, madre single di Belle, una storia tormentata di sofferenza fisica e psicologica.

    Altre donne ancora, l’anziana Betty, madre di Tess, Eileen, la zia che Maeve non aveva mai conosciuto, la nipote di Maeve, che si fa chiamare Amy ma il cui vero nome è più bello, Aimée, ‘amata’. Ognuna di loro porta la sua storia trasformando il romanzo in un romanzo corale che affonda le radici negli anni ’70, quando Tess e Maeve erano giovani, per allungarsi nel tempo presente quando la polizia (anzi, la garda come si chiama la polizia in Irlanda) porta Luke in commissariato per un interrogatorio. Una ragazza lo ha accusato di violenza sessuale.

Tuam

   Era il 2014 quando, nei pressi di una vecchia casa per ragazze madri gestita dalle suore del Buon Soccorso a Tuam, in Irlanda, fu trovata una fossa comune. L’inchiesta che seguì portò alla luce che più di 9000 bambini morirono tra il 1922 e il 1998. Le Case Magdalene, per ragazze orfane o ‘immorali’ per via della loro condotta peccaminosa, furono in funzione (gestite per conto del governo da suore cattoliche) dalla metà del 1700 fino al 1996- sembra incredibile, ma è così. Non c’erano molte soluzioni per le ragazze incinte al di fuori del matrimonio in un paese rigidamente cattolico. La pillola anticoncezionale veniva prescritta solo alle coppie sposate e l’aborto diventò legale nel 2019.

dal film "Magdalene"

Le famiglie allontanavano da casa, senza pietà, le figlie che avevano portato il disonore su di loro. Dove potevano andare queste ragazze, spesso giovanissime, poco più che bambine, che portavano in grembo il frutto di un amore- a volte, molto più spesso di una violenza o addirittura di un incesto? C’era in loro la delusione per aver creduto a chi aveva promesso amore eterno, la confusione dopo aver a mala pena capito che cosa era successo, la paura per il futuro. L’istituto di suore offriva accoglienza. Le ragazze non sapevano a che cosa sarebbero andate incontro, che avrebbero lavorato (e duramente), che i bambini gli sarebbero stati sottratti (leggi: rubati) e dati in adozione, che i più fragili non sarebbero neppure stati curati e avrebbero avuto una veloce sepoltura.

    Le storie di Tess, di Maeve, di Betty, di Eileen, sono ognuna una testimonianza diversa, ognuna un’esperienza diversa a mostrare come basti poco perché il destino risparmi una e infierisca su un’altra. Il marito di Betty era un uomo d’onore e l’aveva sposata, Tess ne aveva abbastanza di bambini, dopo aver badato ai numerosi fratellini nati dopo di lei, e non avrebbe voluto avere figli, Maeve era così giovane, essere innamorati era così dolce e poi era finita in quell’istituto, l’aveva tirata fuori da lì la zia Eileen a cui invece, molti anni prima, era stato portato via il bambino.


    E adesso Tess incontrerà Maeve in un caffè- Maeve ha qualcosa da dirle che riguarda Luke. Vecchi ricordi riaffiorano, le due donne si riconoscono. Erano amiche, ed ora, dopo quello che è successo? Dove ha sbagliato Tess? Come può non sbagliare ancora? Quale è il ruolo di una madre nella vita di un figlio, come deve cambiare nel corso degli anni? come si riesce a cambiare una mentalità diffusa in cui il maschio gioca sull’ambiguità del consenso da parte della ragazza? Come si insegna alle ragazze ad essere meno romantiche, a non credere alle promesse?

   Colpisce, nelle vicende del romanzo, come certi comportamenti si perpetuino, nonostante il passare degli anni. Quello che è cambiato- e per fortuna- è il modo in cui questi vengono discussi e giudicati, il nuovo coraggio nell’aperta denuncia, nel rifiuto femminile di sentirsi colpevole invece che la parte lesa, nel loro essere ‘more sinning against than sinning’, per dirlo con i versi di Shakespeare. Ci sono forse un po’ troppe coincidenze nel libro, ma Catherine Dunne esplora l’animo femminile con garbo, sensibilità ed empatia.

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sabato 18 novembre 2023

Saleit Shahaf Poleg, “Finché non tornerà la pioggia” ed. 2023

                                                               Voci da mondi diversi. Israele


Saleit Shahaf Poleg, “Finché non tornerà la pioggia”

Ed. Neri Pozza, trad. Raffaella Scardi, pagg. 234, Euro 18,00

    Dodici anni senza pioggia. Ha tutto di tutta una maledizione biblica, un fatto del genere. Tanto più che non piove da dodici anni su quell’insediamento di cui vengono ancora ricordati con rispetto i nomi dei padri fondatori, e però piove quando deve piovere, nelle stagioni giuste, oltre i suoi confini, nei campi vicini.

L’ultima pioggia era scesa leggera la mattina quando c’era stato un funerale senza una bara, solo con una salma coperta da un sudario, quasi che si dovesse sbrigare la faccenda di nascosto, in segreto.

   È questo l’inizio del romanzo di Salet Shahaf Poleg che ha passato la sua infanzia a Be’er Sheva e l’adolescenza in un moshav nella Valle di Jezreel, nel nord di Israele. Inizia con una siccità che è metafora di aridità d’animo, con un morto che si aggirerà nelle pagine del libro come un fantasma, proprio come quando era vivo, disseminando dietro di sé origami di carta, stormi di gru che danzavano sull’erba.

   La famiglia Shteinman è al centro del romanzo, ma non solo. Leggiamo la storia della famiglia seguendo i punti di vista dell’uno e dell’altro, quello che è successo in passato e quello che sta succedendo adesso, accenni oscuri a maledizioni, a segreti, a timori che qualcosa di infausto possa ripetersi, ma leggiamo anche di altri segreti, di un altro genere, più loschi, che riguardano l’insediamento, che possono aver attirato la punizione divina..


    Il nonno e la nonna, i vecchi, litigiosi come tutte le vecchie coppie, ognuno di loro con le sue manie- gli acquisti compulsivi su internet di lei, la collezione di armi bianche di lui. La sorella della nonna, Zipa, che ha lasciato alla nipote Yael la sua casa. Le tre figlie del nonno e della nonna- due sono morte, ormai, ed una, la madre di Yael e Gali, è a Londra per un anno sabbatico. La generazione più giovane, infine, Yael e Gali, che tornano a vivere nel villaggio dopo anni- Yael perché vuole ristrutturare la casa ereditata dalla prozia e farne un bed and breakfast, Gali perché intende sposarsi proprio lì, dopo anni passati in Canada, vuole un’atmosfera campagnola per le sue nozze.

    La narrazione passa da un personaggio all’altro e a volte può non essere facile riprendere il filo delle storie. L’attenzione è soprattutto su Yael e Gali, sulle loro tormentate storie d’amore, sulla diffidenza che i nonni avevano provato verso gli uomini che loro avevano scelto. E ora Yael è incinta. Ma ci sono troppe cose non dette, troppi segreti nascosti dai nonni, dalle loro figlie, dalla prozia Zipa.

Forse sarebbe bene che almeno Yael sapesse, per il bene del bambino che aspetta. Che sapesse perché la maledizione non grava solamente sull’insediamento arido ma anche su quella casa che ha ereditato e che il nonno vorrebbe far demolire.


 E poi c’è l’acqua, da sempre fonte di vita. C’è tutta una storia di sorgenti, di acquedotti, di truffe, che culmina in una scena  che ha qualcosa di ilare e insieme di catartico, quando un enorme getto di acqua zampilla dal terreno proprio dove ci si sta preparando al matrimonio di Gali (e qui c’è tutta un’altra storia dietro).

    Un finale dolce amaro, con il ritorno della pioggia, per un romanzo che guarda con realismo, tristezza e delusione, i fallimenti del sogno sionista, che vuole credere nella vita e nella forza dell’amore, ma con il cuore pesante, con timore per l’avvenire.

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martedì 14 novembre 2023

Paco Jasa, “Di mani festarsi” ed. 2023

                                                                          Casa Nostra. Qui Italia



Paco Jasa, “Di mani festarsi”

Ed. Delfino, pagg. 136, Euro 18,00

 

   Un breve romanzo a quattro mani, opera di Sabrina Corsini e Jacopo Panizza che hanno unito i loro nomi nella firma, un gioco di parole che riecheggia quella del titolo stesso, una sorta di rebus che contiene un significato simbolico. Un romanzo insolito, tessuto (è proprio il caso di dirlo) con una storia che ha origine da un tappeto. Siamo soliti calpestare un tappeto, più raramente lo appendiamo ad un muro. Per noi, pur ammirandone la bellezza e apprezzandone il valore, resta pur sempre un tappeto. E invece un tappeto ha una voce, se si è capaci di ascoltarla. Può avere anche più di una voce, ci racconta una storia che resterà per sempre segreta, nascosta nei suoi disegni e nei suoi colori se qualcuno non ci aiuta ad interpretarla.

   Nule è un borgo di origine antica in provincia di Sassari,


famoso per l’arte della tessitura. Le donne di Nule usano il telaio verticale su cui possono lavorare più di una alla volta- ci sono regole da osservare, nella tessitura, ci sono disegni ricorrenti, c’è un significato perfino nell’uso della lana delle pecore, quasi a stringere un patto di alleanza con la loro terra, rinforzato dai colori, derivati anche quelli dalla natura, il giallo dallo zafferano, il rosso dalla radice di truiscu, quel cespuglio sempreverde così comune in Sardegna.

   Due sorelle lavorano al telaio, nella prima parte del libro. Sisinna ed Elena. La prima di qualche anno più grande della seconda che, quando erano bambine, era la vittima degli scherzi spietati di Sisinna e del fratello. Ne risente ancora adesso, Elena. È per via di quelle filastrocche maligne che la svilivano, che Elena ha uno spirito di ribellione? Si è forgiato su quelle, il suo carattere? Quanto Elena è originale e irrispettosa delle regole, tanto Sisinna è ordinata e metodica. E il tappeto viene fuori asimmetrico, sul lato sinistro si riconosce la mano e l’inventività di Elena, su quello destro quella regolare di Sisinna. Eppure c’è armonia ugualmente, c’è la magia e il controllo di questa, c’è la tradizione e una diversa interpretazione della tradizione, c’è razionalità e un pizzico di fantasiosa follia.


    Tra la prima e la seconda parte del libro sembra esserci un brusco stacco, finché- ancora- intrecciamo le fila, intessiamo la trama con l’ordito. Dalla Sardegna ci spostiamo in Africa, dove il tessuto Bogolan, che subisce un processo di tintura col fango, rappresenta la storia e la cultura stessa del Mali, ma anche della Guinea e del Burqina Faso. Altri popoli, altri tappeti, sempre un significato nascosto, calpestato dai piedi. Un uomo, che più tardi conosceremo con il nome di Bitu, decide di emigrare affrontando tutti i pericoli del viaggio e il trauma dello sradicamento. Arriverà in Sardegna, troverà riparo in un capanno avvoltolandosi in un vecchio tappeto sporco il cui messaggio, però, lui riesce ad interpretare. È il tappeto delle due sorelle.

tappeto Bogolan

    Passano gli anni, Bitu è rimasto in Sardegna, il significato del libro si amplia, il messaggio dell’arte del tappeto attraversa il Mediterraneo, invita all’inclusione, alla tolleranza.

    Come già annunciava il titolo, “Di mani festarsi” è un breve romanzo singolare che unisce una storia di famiglia con folklore popolare, piccoli litigi e riconciliazioni, filastrocche infantili e il canto del telaio. Un esordio molto interessante.

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venerdì 10 novembre 2023

Tullio Avoledo, “I cani della pioggia” ed. 2023

                                                                 Casa Nostra. Qui Italia

                                                  cento sfumature di giallo



Tullio Avoledo, “I cani della pioggia”

Ed. Marsilio, pagg. 375, Euro 20,00

 

   Marco Ferrari e Sergio Stokar. Vi dicono niente questi nomi? Abbiamo già letto di loro, sappiamo già qualcosa della vita di questi due personaggi, protagonisti, il primo di “Come navi nella notte”, 2021, e il secondo di “Nero come la notte” del 2020. Non c’è la parola ‘notte’ nel titolo del nuovo romanzo di Tullio Avoledo, eppure il buio del Male, che è la guerra e non solo, pervade tutte le pagine. Non c’è l’aggettivo ‘nero’, eppure questo è un noir, se abbiamo bisogno di qualche definizione di genere, perché non è di certo un romanzo di indagine poliziesca, anche se sia Ferrari sia Stokar sono ex poliziotti. Marco Ferrari ora- lo sappiamo- vive in Germania ed è autore di polizieschi che hanno per protagonista il commissario Venier (ah, se riuscisse a far morire questo Venier! La sua agente glielo proibisce, dato il successo del personaggio). Che cosa faccia Stokar è molto più vago e ambiguo. Uomo dalle mille risorse, dal sangue freddo che non gli fa battere ciglio se deve uccidere qualcuno, dalla grande cultura, capace di citazioni in latino e in greco, fa sembrare Ferrari uno scolaretto pavido e ignorante, tanto da farci sospettare che ci sia una punta di voluta ironia e presa in giro nei confronti di chi fa lo scrittore senza basi letterarie, senza aver letto le opere dei grandi del passato e neppure di quelli più o meno contemporanei. Può non essere voluta, ad esempio, la totale ignoranza da parte di Ferarri di quello che è successo a Katyn durante la seconda guerra mondiale?

    La trama de “I cani della pioggia” è ambientata in Ucraina, in un’altra guerra, quella che doveva durare tre giorni secondo Putin, quella che sarebbe stata superata (nell’attenzione dei media e nella nostra preoccupazione) da un’altra guerra sulle sponde del Mediterraneo. Anzi, forse è la guerra stessa ad essere la vera protagonista del romanzo.


Magda, la compagna giornalista di Marco Ferrari, è scomparsa mentre era impegnata in un servizio fotografico ai confini tra Ungheria e Ucraina. E Marco Ferrari lascia la Tesla parcheggiata a Belgrado e inizia la ricerca- verrà fuori che Magda è stata rapita da un gruppo militante di serbi e sarà Sergio Stokar a guidare un’impresa che è- come dice lui stesso- una mission impossibile. Ferrari lo segue, gli obbedisce perché non può fare altrimenti, si prende insulti e parolacce (il linguaggio del ‘duro’ Stokar è, a dir poco, fiorito) e, nello stesso tempo, cerca di imparare da lui. Imparare ad uccidere. Vuole o non vuole salvare Magda? È vero o non è vero che è disposto a dare la sua vita per quella della sua compagna? E allora fatti e poche parole. Ma per Marco Ferrari è uno shock, così come tutto quello che dovrà vedere passando la linea del fronte e addentrandosi nella zona occupata dai russi.


Crudeltà disumana e gratuita, torture ai prigionieri, ragazzini in divisa, carri armati incendiati, cadaveri, cadaveri a fertilizzare la grassa terra bruna dell’Ucraina. E poi la fatica di quel camminare, anche la fame e la sporcizia, l’impressione di non sapere dove si stia andando. Siamo come cani nella pioggia. La pioggia ha lavato via le nostre impronte, il nostro odore. Così camminiamo senza meta. Ci muoviamo nel nulla, senza una direzione. Ogni tanto, poi, qualcosa che ci ricorda che esiste la bellezza, anche se incongrua, anche se sembra un miraggio. Come quelle strane sculture di plastica che si muovono spinte dal vento, le Strandbeesten dell’olandese Jansen che scompaiono all’orizzonte.
Strandbeesten

    E poi, quando c’è di mezzo la guerra, c’è anche altro. Come se la guerra fosse un pretesto, uno scudo per nascondere altri traffici loschi, di bambini venduti e di droga.

    Il romanzo di Tullio Avoledo è un libro duro, con una trama tesissima ed estremamente attuale che pone domande valide in ogni epoca, come quella su quale debba essere il nostro ruolo in avvenimenti così tragici e cruciali per la sussistenza di un popolo. Perché è vero che, ad essere cinico, uno pensa che l’eroismo è inutile, che gli eroi finiscono per concimare i campi. Ma, come osserva Stokar parlando con Ferrari: Lo so che sei uno che pensa: sfortunata la terra che ha bisogno di eroi. Ma io dico: sfortunata la terra che non trova eroi, quando ne ha bisogno.