mercoledì 24 aprile 2024

Tore Renberg, “La mia Ingeborg” ed. 2024

                                                                   Vento del Nord

 

Tore Renberg, “La mia Ingeborg”

Ed. Fazi, trad. Margherita Podestà Heir, pagg. 180, Euro 17,10

   Conosciamo il protagonista del romanzo di Tore Renberg (candidato al Premio Strega 2024 per la letteratura straniera) in una immagine di sangue- gli è caduto un dente, sta perdendo sangue dalla bocca. Fuori la luna pende sui boschi del Vestfalia, ha piovuto tutto il giorno.

Sono tutti dettagli che ci fanno entrare nell’atmosfera cupa di questa storia che lui ci racconterà, presentandosi alla fine del primo capitolo. Sono Tollak di Ingeborg. Appartengo al passato. Lungi da me l’idea di trovare il mio posto da qualsiasi altra parte.

    Ci ha già detto tutto, Tollak. Tollak che non appartiene a se stesso, ma a Ingeborg. L’amavo in maniera totale, come nessun altro uomo ha mai amato una donna e maledico le forze demoniache che me l’hanno portata via.

I tempi sono al passato, è chiaro che Ingeborg, la sua Ingeborg, non c’è più- quando sapremo perché e come? Tollak vive da solo e ha chiesto ai due figli di venire a trovarlo, deve parlargli. In realtà c’è un’altra persona che vive con lui, anche se per lo più sta nella stalla- è Oddo che in paese chiamano Oddoloscemo. Oddo che propriamente si chiama Otto ma non è mai riuscito a pronunciare la T, che è stato affidato a Tollak dalla madre che non riusciva più a gestirlo e a sopportarlo, che Tollak ha imposto a moglie e figli, che ha difeso con la forza dai bulli del paese.


   È un lungo monologo quello che leggiamo. Tollak ricorda quando si è innamorato di Ingeborg, quando l’ha chiesta in sposa (malvisto dal padre di lei), quando discutevano perché lei avrebbe voluto andare a vivere in città, soprattutto dopo che la segheria di Tollak aveva iniziato a non avere abbastanza clienti, quando lui la accompagnava in auto ad un bar in città dove lei incontrava le amiche. Lui era geloso del tempo che lei passava con loro, gli pareva che non facessero che chiacchierare di stupidaggini. C’era poi il suo rapporto con i figli, il maschio che assomigliava ad Ingeborg, la femmina che adesso viveva a Oslo e aveva rinnegato le sue origini.

   Tollak è un uomo passionale ed egocentrico che vive nel passato e non vuole avere niente a che fare con il mondo esterno- e infatti si sbarazza della televisione e della radio, disdice l’abbonamento al giornale. Non ha contatti con nessuno, tranne che con Oddo con cui va a caccia, dopo la scomparsa di Ingeborg.


   Perché ha chiesto ai figli di venire? Perché ha urgenza di parlare con loro? Perché i figli sono così restii a venire? sono due i grossi segreti che Tollak si è tenuto dentro. Di uno ci ha parlato con dovizia di dettagli (e non ce lo aspettavamo), avevamo sospettato l’altro, come lo avevano sospettato pure i suoi figli.

   È un libro intenso e pieno di dolore, “La mia Ingeborg”, con un protagonista rabbioso che sceglie la solitudine facendo il vuoto attorno a sé, che vive nel rimpianto e nel ricordo, nella bolla di un grande amore per la donna della sua vita. Amava veramente così tanto la sua Ingeborg?

    In Norvegia di questo dramma è stato fatto un adattamento teatrale.



 

lunedì 22 aprile 2024

Daria Shualy, “La calda estate di Mazi Morris” ed. 2024

                                           Voci da mondi diversi. Israele

cento sfumature di giallo

Daria Shualy, “La calda estate di Mazi Morris”

Ed. Neri Pozza, trad. Raffaella Scardi, pagg. 335, Euro 19,00

 

     Questo è un noir come non ne avete mai letti, ambientato in una Tel Aviv che potrebbe anche essere New York per lo stile di vita che ci si conduce, in un Israele lontano anni luce da quello dei ‘gialli’ di Batya Gur, forse la prima scrittrice israeliana di gialli che io abbia letto trent’anni fa. Già, trent’anni fa. E in trent’anni le società cambiano, perfino i ricordi del passato più tragico possono affievolirsi.

    È un’estate caldissima a Tel Aviv. E Jasmin Schechter è scomparsa. Era in un bar all’aperto con il marito David, chiamato Dudi, e la bambina di tre anni. Dudi era entrato a prendere qualcosa da bere, un’auto (grigio metallizzato? Lo ha detto la bambina, le si può credere?) si è fermata e Jasmin si è accostata per dire qualcosa al conducente, aprendo la portiera. Poi è scomparsa. Jasmin che adorava la bambina, che, quando doveva passare qualche giorno lontano da lei, le telefonava ogni sera, non si è più fatta viva. È il marito che incarica l’investigatrice privata Mazi Morris di ritrovarla.


    Mazi è un personaggio unico e sorprendente. Iniziamo dal suo nome: Mazal vuol dire ‘fortuna’, ma lei non ne ha avuto affatto di fortuna nella vita. Non anticipo nulla, perché lei stessa ne parlerà solo verso la fine, quello che invece è un refrain costante è la nostalgia per il padre di cui, ad un certo punto, non ha saputo più niente, e però lei non ha mai perso la speranza di ritrovarlo. Suo padre era un grande amico del padre di Dudi e loro due erano inseparabili da bambini. Poi Mazi, capelli rasati, fisico da ragazzino, era entrata in polizia diventando uno degli elementi migliori, ma era stata ‘cacciata’ per comportamento inadeguato. Adesso è un’investigatrice privata e il fratello e la sorella adottivi sono i suoi aiutanti. Non ci vuole molto per capire quale sia stata ‘l’inadeguatezza’ di Mazi. Quando, in momenti di stress, dice di aver bisogno di una dose, non pensate che si tratti di droga, anche se a lei fa lo stesso effetto. Mazi è una ninfomane, ha bisogno di rapporti sessuali per rilassarsi e lavorare più lucidamente. Non importa con chi, anche se preferisce le sue conoscenze fisse- il suo vicino di casa, per esempio. E, paradossalmente (o forse no), non ha un rapporto fisico con un giornalista d’indagine di cui è innamorata.

    Dunque, Jasmin Schechter è scomparsa. Sembra che sia accaduto altre volte, in passato, che scomparisse. Una volta, addirittura, l’avevano ritrovata che faceva la cameriera all’Eliseo. Gli Schechter sono una potenza a Tel Aviv. E forse c’è qualcosa di vero quando si dice che enormi quantità di denaro non sono mai un guadagno pulito. Infatti. Se si alza il coperchio di una immaginaria scatola con l’etichetta ‘Schechter’ viene fuori di tutto. Corruzione, appalti pilotati, edifici di proprietà affittati a tenutarie di bordelli, traffico d’armi e, a livello privato, c’è ben altro ancora, difficile dire se è di peggio. Di certo, noi restiamo inorriditi.


    Il primo romanzo di Daria Shualy è un noir singolare- ci sono i delitti e ci sono i morti ma non c’è la tensione colma di paura in attesa di un assassinio, c’è un’indagine doppia, una per la ricerca della giovane Jasmin, e una che fornisca la spiegazione di tutto quello che è avvenuto e chi ne sia il responsabile. Non si tratta però solo di una ‘piccola’ vicenda famigliare, il quadro è ben più vasto, quello che si scopre riguarda un intero paese puntando il dito dell’accusa a personaggi in vista nel mondo della politica e dell’economia. E mai ci ricorderemmo che tutto sta accadendo in Israele, se non ci fosse la guerra sullo sfondo, le sirene d’allarme che seminano il panico, le esplosioni, il tracciamento dei razzi nel cielo.



sabato 20 aprile 2024

Laura Forti, “La figlia inutile” ed. 2024

                                                                     Casa Nostra. Qui Italia

           Storia di famiglia

Laura Forti, “La figlia inutile”

Ed. Guanda, pagg. 256, Euro 18,05

   Io sono quella che spazza le foglie sopra una tomba vuota.

È un’immagine che ci colpisce, quella con cui inizia il nuovo romanzo di Laura Forti. Con delle parole che ci incuriosiscono. Con un’immagine di tristezza infinita. ‘Io sono quella’- vuol dire che non c’è nessun altro che serbi il ricordo della persona defunta? Perché non c’è dubbio che sentiremo la storia di una persona che non c’è più, perché le foglie sul terreno sono foglie di autunno, foglie morte, e poi c’è questa tomba che, però, è vuota, lungo il muro del cimitero ebraico, in una zona destinata ai suicidi o a coloro che hanno voluto essere cremati. Ed ecco che sappiamo: sotto la lapide c’è un’urna con le ceneri della nonna della scrittrice.

   In realtà la nonna Elena aveva espresso il desiderio che le sue ceneri venissero versate nelle acque della Mosella in Francia, dove era nata. Ma alla figlia, la madre della scrittrice, era sembrato complicato e costoso, portarle là. E così le ceneri erano rimaste lì, ma la nonna dove era? L’avevano mai conosciuta veramente?


   Ecco il desiderio di sapere di più su di lei, perché, se chi non c’è più è da qualche parte, è in noi, conoscendo loro conosciamo noi stessi. E allora la storia della nonna diventa la storia della famiglia Dresner e anche la storia del tempo in cui i Dresner hanno vissuto. C’è un’affinità iniziale tra la nonna e la scrittrice- in qualche maniera quel sentirsi ‘la figlia inutile’ di Elena (da bambina era stata lasciata in Francia con una ‘tata’, quasi fosse un di più, quando la madre, il padre, la sorella e il fratello si erano trasferiti in Italia) trova un riscontro nella scrittrice, l’unica figlia cresciuta nella religione ebraica- e forse era per questo che la mandavano spesso dalla nonna che accendeva le candele dello Shabbat e a volte le parlava in yiddish-, la figlia diversa che aveva un altro padre.

   La frase di Tolstoj sulle famiglie infelici è fin troppo conosciuta, possiamo creare una variante, che le storie di famiglia non sono poi molto diverse le une dalle altre, ma alcune sono decisamente diverse. Prendiamo i Dresner. Fuggiti dalla Russia dopo il terribile pogrom di Kishinev del 1903, arrivati in Francia, da lì poi in Italia e dopo ancora, in seguito alle leggi razziali, scappati in Cile. Ci vuole una resilienza eccezionale, ci vogliono una forza d’animo e una capacità di riinventarsi ricominciando da capo, ci vuole lo spirito dei Dresner, come si diceva nel loro lessico familiare.


   Sono due i personaggi che giganteggiano nella storia di famiglia del romanzo- il bisnonno Giulio e la nonna Elena. Il bisnonno Giulio che in realtà non si chiamava affatto così. Il suo nome era Jezszaja, impossibile farlo capire all’impiegato che doveva registrare la nascita della sua prima figlia a Parigi. L’impiegato aveva scritto Gilles, poi diventato Jules, Giulio in Italia, Julio in Cile. Dresner in origine aveva un suono più duro, con la z, e in Italia sarebbe diventato Dresneri. Sembra cosa da poco, un nome, e invece è indice della capacità camaleontica di adattarsi. In Italia Giulio aveva raggiunto un alto livello nella banca del Credito Italiano, conosceva di persona Mussolini, si era illuso di poter aggirare le leggi razziali.

     Se la ricostruzione del passato più lontano si basa su ricerche accurate in cui i vuoti di vita vissuta sono riempiti dall’immaginazione, quella di un tempo più recente si avvale dei racconti della stessa nonna, ancora una volta in fuga in Toscana durante la guerra, lontana da un marito che l’aveva tradita con sua sorella, lontana dai genitori ormai in Cile, incapace di superare il primo trauma dell’abbandono quando era bambina, bisognosa di amore, capace di far fronte alle difficoltà- come tutti i Dresner. E adesso che non c’è più, tutte le statuine di gatti che collezionava dovrebbero essere vendute? Le prenderà lei, la scrittrice, perché anche gli oggetti hanno una voce, contengono un ricordo. Come questo libro, che salva il ricordo della nonna.



   

giovedì 18 aprile 2024

Armando Lucas Correa, “Una notte piena di luce” ed. 2024

                                           Voci da mondi diversi. Cuba

                                                              Storia di famiglia


Armando Lucas Correa, “Una notte piena di luce”

Ed. Nord, trad. Giuseppe Maugeri, pagg. 448, Euro 19,00

 

   Ally, Lilith, Nadine, Luna. Berlino. L’Avana. Miami. Berlino.

   Quattro donne, quattro generazioni, quattro luoghi. Due di queste donne compiono un atto di coraggio e di grande amore, allontanando la figlia per metterla in salvo: si può immaginare un sacrificio più straziante per una madre?

   Tutto inizia a Berlino dove nasce Lilith nel 1931. La levatrice consegna la neonata alla madre dicendole con disprezzo: è una bastarda della Renania. Ha messo al mondo una Mischling, una mezzo sangue. Questa bambina non è tedesca, è nera.

   Si erano amati, la poetessa Ally e il jazzista nero. Poi c’era stato l’avvento di Hitler e la politica di eugenetica nazista. Uscivano solo di notte, Ally e la sua bambina, perché di notte siamo tutti dello stesso colore, paventando il settimo compleanno di Lilith, quando una commissione avrebbe stabilito se la bambina dovesse essere sterilizzata per non contaminare la pura razza ariana. Poco importava che avesse un’intelligenza superiore alla media, il colore della pelle e i capelli, soprattutto i capelli, denunciavano chi fosse il padre. Ally deve pensare al bene della bambina. Ally accetta di affidare Lilith a una coppia di ebrei che si imbarcheranno con destinazione Cuba. Dai documenti risulterà loro figlia.


    Gli Herzog, con Lilith, saranno tra i ventisette passeggeri a cui sarà permesso di sbarcare, gli altri- più o meno 900- saranno rimandati indietro. È l’odissea della St. Louis, un altro capitolo vergognoso della Storia del secolo scorso.

Inizia così il filone cubano del romanzo. Lilith stringe amicizia con due ragazzini, con uno di questi si sposerà. Sono gli anni del presidente Batista, ma seguiranno gli anni violenti della rivoluzione e di Fidel Castro. Proprio come la sua vera madre Lilith perderà il marito e si separerà dalla sua bambina di soli tre anni che salirà su un aereo, questa volta, e non su una nave.


    Succedono tante altre cose, dopo questo nuovo cambiamento di ambiente, dopo che anche Nadine, proprio come Lilith, cresce con genitori che non sono i suoi, una coppia in cui lei è tedesca e lui americano. E qui mi fermo, perché, quando si incontra un personaggio tedesco dopo la guerra, è inevitabile chiedersi che cosa abbia fatto in quegli anni in cui tutti obbedivano agli ordini. Ci saranno molte sorprese, molti segreti che verranno alla luce, molta sofferenza. E tuttavia verranno alla luce anche le poesie di Ally di cui, finora, era rimasta solo quella che lei aveva affidato alla sua bambina prima che si imbarcasse, Viaggiatrice notturna.

    È un romanzo pieno di luce e di ombre, quello dello scrittore Armando Lucas Correa, nato a Cuba nel 1959. Inizia nel buio totale della notte del nazismo a Berlino, si rischiara al sole di Cuba prima che si addensino di nuovo le nuvole per poi illuminarsi alla fine con personaggi che si ritrovano- è come se una torcia venisse passata di mano in mano, fino ad arrivare a Luna- un nome che dice tanto, che rischiara la notte, una giovane donna che assomiglia in modo impressionante alla bisnonna. È un cerchio che si chiude. Nella luce.




 

mercoledì 17 aprile 2024

Angelo Del Boca, "Italiani, brava gente?" ed. 2005 - recensione e intervista

                                                                   Casa Nostra. Qui Italia

                                                           


    
C’è un punto interrogativo nel titolo del libro dello storico Angelo Del Boca, “Italiani, brava gente?” (ed. Neri Pozza, pagg. 305, Euro 16,00), che innesta il dubbio che la risposta possa essere “no”. Una risposta difficile da accettare, eppure i fatti accertati e documentati da Del Boca, riguardo al periodo storico che va dall’unità d’Italia alla fine della seconda guerra mondiale, parlano chiaro, i numeri sono più eloquenti delle parole, le fotografie archiviate sono un evidente atto d’accusa. E inoltre la realtà degli eccidi perpetrati dagli italiani non è stata neppure tenuta nascosta, anzi è stata all’epoca motivo di vanto, soprattutto durante il fascismo in quanto un comportamento così spietato corrispondeva agli insegnamenti inculcati per un nuovo modello di italiano: disprezzo per l’avversario, assenza di qualunque sentimento di pietà, esaltazione della “bella morte”. Il libro di Del Boca vuole sfatare il mito secondo cui gli italiani sono bonaccioni, gli italiani non sono crudeli, non infieriscono sui nemici, non sono neppure paragonabili agli “altri”, sono sempre stati bene accetti nelle terre occupate. Un mito di comodo e tuttavia allarmante in quanto ci autoassolve e rimuove un passato che va affrontato. I fatti che Del Boca illustra sono divisi in capitoli, come dei flash che rivelano uno scenario di morte in una luce cruda e impietosa. Si parte dalla lotta al brigantaggio dopo l’unificazione (fuorviante quel chiamare “briganti” gli insorti, visto che erano soldati dell’esercito borbonico), per passare poi in Cina, durante la rivolta dei boxer, e alle varie campagne in Africa. Ci sentiremmo meno offesi dalle parole di un Gheddafi se fossimo più informati e ricordassimo la prosopopea del “posto al sole”, il disprezzo contenuto in frasi come quelle del generale Baldissera nel 1888, “l’Abissinia ha da essere nostra, perché tale è la sorte delle razze inferiori; i neri a poco a poco scompaiono, e noi dobbiamo portare in Africa la civiltà non per gli Abissini ma per noi”, l’ignoranza totale della cultura e dei costumi della gente che ci apprestavamo a soggiogare, l’insulto contenuto persino nelle parole delle canzoni in voga, Faccetta nera, bell’abissina

E soprattutto se conoscessimo i nomi dei luoghi di infame memoria, il penitenziario di Nocra (detenuti incatenati su tavolacci, 300 gr. di farina a testa, 10 di tè e 20 di zucchero, acqua salmastra- e razionata- da bere), la piazza del Pane a Tripoli con la forca per le impiccagioni esemplari, i lager (“Soluch come Auschwitz”) in cui Graziani fece deportare 100.000 persone (la metà degli abitanti della Cirenaica), la “liquidazione completa” (la stessa espressione usata dai nazisti) dei monaci di Debrà Libanòs sospettati di connivenza con i ribelli- e la scena è fin troppo simile a quella degli stermini degli ebrei, con le vittime sul ciglio di una fossa in attesa dell’esecuzione: 2033 i morti. E ancora, le responsabilità di Cadorna, lo schiavismo bianco, la pulizia etnica in Slovenia, le 300 tonnellate di iprite sganciate tra il 1935 e il
1936 in Etiopia. Le cifre non hanno bisogno di commenti, l’accurata bibliografia a chiusura di ogni capitolo degli orrori non lascia margine di dubbio sulla veridicità dei fatti. Stilos ha intervistato il Professor Del Boca a Torino, dove vive.

 

Nel capitolo introduttivo del suo libro ci sono citazioni di quello che è stato scritto sull’Italia da visitatori stranieri, a partire dal 1600. E’ sconfortante osservare che quelle osservazioni negative sono le stesse che leggiamo tuttora sulla stampa straniera: dobbiamo pensare che, nelle parole di Heine, “il popolo italiano è intimamente malato e inguaribile”?

     Diciamo subito che anche i giudizi degli italiani sugli italiani non sono confortanti, anzi, forse sono ancora più cattivi, come quelli espressi da Leopardi. Come per tutti i popoli, ci sono delle stigmate, dei difetti che sono difficilmente guaribili. Nelle mie citazioni sono partito dal ‘600, ma sarei potuto risalire anche a prima. E purtroppo, quando capita di uscire dall’Italia e prendere contatto con altri intellettuali, ci si sente dire delle cose che non sono certo belle e che feriscono, soprattutto perché sono vere.

 Lei analizza come un certo tipo di uomo italiano sia stato “forgiato” dall’indottrinamento mussoliniano, dal martellamento di slogan che miravano a creare un modello di uomo forte, spietato, combattivo. Sarebbe possibile forzare un altro tipo di modello, incline allo spirito critico che porta alla disobbedienza come capacità di scegliere?


     Indubbiamente Mussolini è riuscito a creare un italiano duro e brutale ma, verso metà della guerra, parlando con Ciano, aveva osservato, “ahimé, questo italiano è peggiore di quello della prima guerra mondiale”, intendendo che aveva in parte fallito perché gli uomini si mostravano meno audaci. Se Mussolini, usando gli strumenti della sua epoca, è riuscito solo parzialmente a creare un italiano diverso, un italiano non mandolinista e timido, se è riuscito solo nella parte più negativa, a fare cioè un uomo brutale, una macchina da guerra, usando gli strumenti di oggi si potrebbe tentare di fare di meglio. Certo non può farlo Berlusconi, con la sua idea del mondo e della società consumistica. Ne uscirebbe un italiano mediocre, scarso di idee, privo di autocritica. Guardo alle sinistre e mi chiedo quale capacità possano avere. Ci vorrebbero dei decenni, ma le sinistre potrebbero almeno dare agli italiani il senso della misura, un rispetto maggiore per se stessi, una capacità di discutere e dialogare con gli altri. Mi basterebbe già questo.

 Il suo libro rompe un lungo silenzio: pensa che verrà accolto come una doverosa informazione e un equo riesame della storia, o che verrà accusato di voler denigrare l’Italia?

     In genere dopo la pubblicazione di ogni mio libro di storia coloniale ho ricevuto sia lodi sia attacchi. Lodi da chi accettava una revisione della storia e attacchi da nostalgici del fascismo e da elementi conservatori. Non è una sorpresa dunque vedere il giudizio diviso in due. Questa volta però, nelle recensioni pubblicate fino ad ora, non c’è un solo attacco e neppure ci sono obiezioni. D’altra parte è un libro conciso, in calce c’è un archivio che non può essere contestato. Che poi il libro possa servire a mutare delle opinioni su alcuni fatti- me lo auguro. Il libro contiene un messaggio preciso: non dobbiamo assolutamente accettare il titolo del libro, non ci meritiamo questa definizione così decisa, così sicura, non siamo “brava gente”. Spero che smetteremo di autoassolverci come abbiamo sempre fatto.

 Pensa che, inquadrando le azioni di violenza commesse dagli italiani in Africa e altrove nell’atmosfera del tempo, nel contesto della guerra, sia possibile renderle accettabili o per lo meno comprensibili?

     Secondo me in tutte le conquiste in Africa e in Asia, le violenze erano scontate, soprattutto dopo che, nel congresso di Berlino del 1884, si era codificata la spartizione dell’Africa. La violenza è ammessa, ma c’è uno spartiacque, ed è quello delle violenze inaccettabili che io documento. Ho fatto una scelta di episodi limite. Capisco che un esercito faccia una guerra per impadronirsi di territori, ma che bisogno c’era di usare l’iprite quando c’era già una superiorità di armi? Lì vedo la violenza, la barbarie inaccettabile.

 Perché non c’è stato nessun tribunale per i crimini di guerra italiani?


      Qualcuno ci ha tentato- nel 1946 Hailé Selassié ha inviato alle Nazioni Unite l’elenco di 970 criminali di guerra italiani chiedendo venissero sottoposti a processo. La cosa tragica è che, a impedire a Hailé Selassié di mantenere questo impegno, sono stati gli americani. Erano loro che mantenevano il paese in vita e con un preciso ricatto hanno impedito ad Hailé Selassié di fare un processo- avrebbero sospeso gli aiuti se avesse insistito a chiedere l’estradizione di quei personaggi. Gli americani non avevano interesse che venisse processato un Badoglio che per loro era un primo ministro che si era schierato a fianco degli alleati. Anche Tito ha fatto un elenco delle persone da estradare per processarle, ma gli è stato impedito da Roma e gli italiani hanno fatto un controelenco in cui il primo da processare era Tito. In realtà gli italiani non hanno voluto una loro Norimberga: se avessero chiesto l’estradizione di tutti i tedeschi criminali di guerra, nel momento in cui si cercava di portare la Germania dalla nostra parte, non sarebbe piaciuto né agli americani né all’Occidente. Così non c’è un solo criminale di guerra italiano che sia stato condannato. Soltanto Graziani ha avuto 19 anni ma ne ha scontato di meno per amnistie varie, e Graziani era non solo Ministro della Guerra di Salò, ma anche il “macellaio” degli africani.

 Nel libro si parla di Montanelli, di come abbia sempre negato le azioni criminose italiane in Africa, compreso l’uso dei gas: era in buona fede?


      Penso che fosse in buona fede quando è andato volontario in Africa. Non so invece, quando continuava a insistere con me- e la polemica è durata 35 anni- dicendo che lui c’era e non aveva mai sentito l’odore di mostarda del gas, che l’iprite non era mai stata usata. Più di una volta gli avevo  indicato i faldoni negli archivi italiani con i documenti che provavano il contrario. Mi accusava di essere antiitaliano e fazioso. Dopo 35 anni di queste battute, ho suggerito un arbitro a dirimere la questione: Susanna Agnelli, che era Ministro degli Esteri, e il generale Corcione, Ministro della Difesa. Dopo una serie di interrogazioni alle Camere, il ministro Corcione ha fatto una dichiarazione che demoliva la tesi di Montanelli: il nostro esercito aveva usato i gas in maniera continuativa e massiccia. Allegava alla dichiarazione il rapporto in cui Badoglio dichiarava che, dopo la battaglia di Amba Aradam, aveva scagliato tutta l’aviazione dell’Eritrea sull’esercito in fuga di Ras Mulughietà e aveva scaricato 60 tonnellate di iprite. Montanelli, da galantuomo, ha accettato la sconfitta e nella sua rubrica ha scritto “i documenti mi danno torto”, chiedendo scusa a me  e ai lettori. E’ stata un’ammissione importante, eppure ancora oggi tanti sono convinti che siano tutte fandonie, che noi italiani siamo brava gente.

 C’è un capitolo un po’ anomalo nel libro, quello sul generale Cadorna.

     Non è poi tanto anomalo, perché, dovendo elencare una serie di violenze al limite, Cadorna assomma in sé due forme di criminalità: nelle 12 battaglie dell’Isonzo ha mandato a morire centinaia di migliaia di soldati non perché avesse una precisa idea strategica, ma perché si era intestardito ad usare quei disgraziati come maglio contro le fortificazioni austriache. Questo è il primo grosso addebito che gli faccio, pure pensando ad altri generali che hanno usato gli uomini come carne da cannone. Ma c’è un’altra cosa da addebitare a Cadorna: la proibizione a che lo Stato italiano invii viveri ai prigionieri in Austria, al punto che 100.000 nostri soldati sono morti di fame e di stenti, mentre Francia e Inghilterra hanno inviato pacchi in maniera continuativa e hanno avuto un numero di decessi di gran lunga inferiore. Perché? Per creare una tale paura di cadere prigionieri da spingere i soldati a combattere fin all’estremo.


 C’è una somiglianza tra la velleità di portare la civiltà in Africa nel periodo coloniale e la presunzione di portare oggi la democrazia in Iraq e in Afghanistan?

     Certo che c’è una somiglianza: è una continuazione di questa presunzione dell’Occidente di possedere la verità e sapere quello che è bene, e la mistica di doverlo portare agli altri a prezzo di enormi sacrifici dei nostri, in cambio naturalmente di ricchezze materiali.

 C’è stato qualcosa di buono, di costruttivo, di civilizzatore, che hanno fatto gli italiani all’epoca delle conquiste in Africa?


     Non possiamo dire che sia stato un grosso regalo fatto agli africani, di aver costruito strade, ospedali, qualche scuola: finché eravamo là, servivano agli italiani. Penso che, se qualcosa di positivo è stato fatto, più che i governi siano stati i singoli italiani a farlo. Molti italiani hanno contribuito allo sviluppo di questi paesi, in particolare in Libia, facendo una specie di scuola di lavoro ai libici che erano alle loro dipendenze, anche se con risvolti di interesse. Invece nel Web Shebeli, in Somalia, gli indigeni che lavoravano nella piantagione erano trattati veramente come schiavi, tanto che lo stesso federale fascista Serrazanetti denunciò queste violenze a Mussolini in tre rapporti. Per quanto riguarda l’Etiopia, è probabile che la presenza italiana abbia in un certo senso inciso favorevolmente sullo sviluppo agricolo, lo ammettono anche alcuni storici etiopi.

 Che tipo di legame aveva creato l’esercito italiano con i corpi degli ascari?

     Gli ascari sono stati i reparti più fedeli all’esercito italiano, si sono svenati per gli italiani, ne sono morti 50.000 per l’Italia, in varie guerre. Durante la rioccupazione della Libia, dopo il ‘21,  i reparti erano quasi tutti di ascari. Graziani usava questi soldati per le loro capacità combattive, perché sapevano adattarsi meglio al terreno e al clima. A Cheren nel ‘41, durante l’offensiva inglese contro gli italiani, gli ascari hanno avuto più perdite che gli italiani. Eppure sapevano che la guerra era finita anche per loro.


 Perché questa dedizione estrema?

    Per fedeltà, perché speravano che l’Italia avrebbe dato loro una certa autonomia, combattevano per una pre-indipendenza. Devo dire che nel protonazionalismo eritreo c’è un coefficiente dato da questa dedizione degli ascari agli ideali italiani. E dire che gli ultimi ascari, ormai poche decine, hanno avuto una liquidazione finale di pochi soldi, invece della pensione.

Recensione e intervista sono state pubblicate nel 2005 dalla rivista letteraria "Stilos"

 

                                                                                          

lunedì 15 aprile 2024

Asmaa Alghoul e Sélim Nassib, “La ribelle di Gaza” ed. 2024

                                    Voci da mondi diversi. Medio Oriente

                                           romanzo autobiografico

Asmaa Alghoul e Sélim Nassib, “La ribelle di Gaza”

Ed. e/o, trad. Alberto Bracci Testasecca, pagg. 201, Euro 15,67

     Mai abbiamo sentito parlare tanto di Gaza come negli ultimi mesi. Gaza, come appare nelle pagine del libro “La ribelle di Gaza”, è una città senza pace, ma non è la città di macerie di adesso. È una città in cui la vita sembra ‘quasi’ normale e che Asmaa Alghoul ama, anche se poi deve allontanarsene. “La ribelle di Gaza” è lei, giornalista palestinese che, nei suoi articoli per il quotidiano Al-Ayam, documenta ‘la corruzione di Al- Fatah e il terrorismo di Hamas’. Nata nel 1982 a Rafah, un campo profughi nel sud della striscia di Gaza confinante con l’Egitto, Asmaa ha sposato un poeta egiziano nel 2003, lo ha seguito ad Abu Dhabi per poi divorziare da lui e ritornare a Gaza con il figlio. Non ha mai avuto paura di denunciare la violazione dei diritti umani, ha preso parte a manifestazioni, ha sfidato le autorità islamiche rifiutando di coprirsi i capelli e sfoggiando un abbigliamento occidentale come i jeans, è stata più volte minacciata e arrestata. Attualmente vive in Francia ed è lì che ha chiesto la collaborazione di Sélim Nassib per scrivere “La ribelle di Gaza”.


    Questo è un romanzo autobiografico scritto a due mani, un libro che racconta, in un linguaggio parlato e molto vivace, della numerosa famiglia di Asmaa, soprattutto di un padre musulmano ‘illuminato’ che ama la letteratura ed è di ampie vedute e di uno zio che è un importante dirigente dei servizi di sicurezza di Hamas. Le tensioni in famiglia sono all’ordine del giorno, proprio come quelle nelle strade di Gaza. Asmaa denuncia a voce alta le violenze e gli estremismi di Fatah e soprattutto di Hamas, ma anche le incursioni israeliane nottetempo, i bombardamenti del 2008-2009 che causarono la morte di 1400 palestinesi. Non può essere considerata che una ribelle, Asmaa Alghoul, perché non accetta la discriminazione femminile imposta da Hamas, respinge l’obbligo di coprirsi il capo e di non avvicinarsi agli uomini neppure per una semplice conversazione, si fa gioco dei guardiani della morale.

   “Da bambini giocavamo molto ad “arabi ed ebrei”, gli uni si nascondevano, gli altri li cercavano. In genere i maschi facevano gli ebrei e noi femmine gli arabi, perché gli ebrei sono più forti e brutali. Nessuno ragionava su cosa volesse dire, non facevamo politica, l’importante era divertirci.”


Inizia così questo libro autobiografico che ci rivela molto della quotidianità in Gaza e che ci piace per la sua immediatezza e per la passione che rivela. Ad iniziare da questo gioco che ci colpisce e ci fa male, perché sostituisce il ‘guardie e ladri’ che tutti noi abbiamo giocato, perché indica una paura recondita che cerca di sfogarsi nel gioco, perché sotto la forma del divertimento mette in scena la guerra continua. Ecco, se c’è una osservazione che farei riguardo a questo libro è che, pur non lesinando- anzi!- le critiche ad Hamas, si dà risalto agli attacchi violenti degli israeliani, senza però fare cenno a quello che li può avere provocati, senza dire se sono stati sferrati come ritorsione ad una impresa di Hamas.

    Tante cose sono cambiate, molto è peggiorato da quando Asmaa Alghoul ha scritto questo libro insieme a Sélim Nassib, ma questo è il documento di una donna che parla in nome della libertà e vale la pena di leggerlo.

Asmaa Alghoul è stata la prima Palestinese a vincere il premio Coraggio nel Giornalismo.



domenica 14 aprile 2024

Ragnar Jónasson, “Il sogno di Unnur” ed. 2024

                                                     Voci da mondi diversi. Islanda

cento sfumature di giallo

Ragnar Jónasson, “Il sogno di Unnur”

Ed. Marsilio, trad. Valeria Raimondi, pagg. 219, Euro 18,00

 

      Sono i giorni che precedono il Natale. Giorni che sembrano notti senza fine in Islanda, serrata nella morsa del buio e del gelo invernali.

In una fattoria nel nulla, nell’Est dell’Islanda, vivono Erla e Einar. Quella era la fattoria della famiglia di Einar, lui non la lascerebbe mai, lei si è adattata per amor suo, Erla sperava che la loro figlia restasse nella capitale, dopo avervi studiato e invece era tornata. Aveva ereditato la passione del padre per quella terra selvaggia. Non c’è nulla da fare a dicembre, nella fattoria. Soltanto dar da mangiare alle capre, e lo fa Einar. Erla passa il suo tempo leggendo, fa sempre una buona scorta di libri della biblioteca. E sa che sotto l’albero di Natale troverà un libro: in Islanda è una tradizione, regalare un libro con cui passare la notte di Natale.

   Le pagine di apertura del romanzo, quelle che descrivono l’atmosfera in quella zona, sono cariche di una minaccia incombente- il buio, la neve che cade, il silenzio ovattato, la consapevolezza di non poter andare da nessuna parte e che nessuno possa giungere alla fattoria per alleviare la solitudine: è difficile dire da dove esattamene ci giunga questa percezione di pericolo, ma cresce in noi la sensazione che qualcosa debba accadere.


E infatti si sente bussare alla porta. Einar va ad aprire, è lui il primo a stupirsi. C’è un uomo che dice di essersi perso mentre era a caccia con degli amici. Che cosa, in lui, suscita la diffidenza di Einar ed Erla? È soprattutto Erla ad essere diffidente, a pensare che l’uomo stia mentendo, le pare ci siano incongruenze nella storia che racconta. Dopotutto alla radio non hanno sentito la notizia di un uomo che si è smarrito. La bufera di neve aumenta di intensità, la linea del telefono è interrotta (strano, non era mai successo), salta anche l’elettricità, ma a questo sono abituati, hanno sempre scorta di candele. Si può forse rifiutare ospitalità a qualcuno, con queste condizioni atmosferiche? Poi, durante la notte, Erla sente che l’ospite indesiderato sale in soffitta. Che cosa cerca? Non dico altro, ma nel capitolo iniziale, quando a Hulda Hermansdottir, ispettore di polizia di Reykiavik, viene chiesto (è già febbraio) di andare ad Est per svolgere un’indagine, le viene detto che è una brutta storia, “non stiamo parlando di un solo corpo”. Quella notte, che doveva essere il preludio a giorni di pace e di serenità, è successo qualcosa.

   C’è un’altra storia drammatica, però, nel romanzo, anzi ce ne sono altre due o forse tre, tutte che riguardano dei genitori e delle figlie. Una di queste riguarda proprio Hulda, incaricata di questa indagine proprio quando lei stessa potrebbe essere oggetto di indagine, perché la tragedia peggiore che possa accadere ad una madre è successa nella sua casa. Di nuovo, nei capitoli che riguardano la vita privata di Hulda, quando entriamo con lei nella sua casa, siamo presi dall’ansia, proprio come lo è lei. Hulda ha una figlia adolescente, con tutta la comprensione per le problematiche umorali degli adolescenti Hulda è inquieta, è troppo strano che la figlia se ne stia chiusa nella sua stanza, che si rifiuti di festeggiare il Natale insieme a lei e al marito. Si sentirà in colpa, dopo, si chiederà che cosa non aveva visto, che cosa avrebbe dovuto fare, come sarebbe dovuta intervenire.

    La trama corre veloce sul ghiaccio, la soluzione ci sorprende un poco. Quello che resta indimenticabile è il personaggio dell’Islanda che domina su tutte le storie. L’Islanda che è un paesaggio in bianco e nero in cui perfino il silenzio ha una sua voce, l’Islanda in cui ci si può perdere nella tormenta ma anche in se stessi.