martedì 29 novembre 2022

Cheluchi Onyemelukwe-Onuobia, “Due vite, due donne” ed. 2022

                                                        Voci da mondi diversi. Nigeria



Cheluchi Onyemelukwe-Onuobia, “Due vite, due donne”

Ed. e/o, trad. E. Banfi, pagg. 285, Euro 18,05

 

     Dobbiamo far qualcosa per passare il tempo, pensavo. Due donne in una stanza, mani e piedi legati.

    È questo l’inizio del romanzo della scrittrice nigeriana-canadese dal nome difficile che ha vinto il Nigeria Prize for Literature 2021 e il premio per migliore romanzo internazionale al Shariah International Book Fair nel 2019.

Due donne prigioniere, dunque. Sono state rapite con l’intento di ottenere un riscatto. Non erano prigionieri, i pellegrini delle “Canterbury Tales” di Chaucer, e neppure i giovani che sfuggivano alla peste del “Decamerone”, però raccontarsi delle storie per passare il tempo era allora ed è adesso, nel 2011 delle due donne, un buon rimedio. Quella che Nwabulu e Julie raccontano è la storia della loro vita, con un’urgenza che forse i fatti giustificheranno e con un sorprendente esito finale.

    Nwabulu era nata in una famiglia povera, era rimasta orfana e la matrigna l’aveva mandata a servizio di una famiglia prima a Lagos (il padrone l’aveva violentata) e poi a Enugu. Qui la trattavano bene, andava a scuola, avrebbe dovuto iscriversi alle scuole superiori, ma…si era innamorata del figlio dei vicini di casa. È solo nella favola che Cenerentola sposa il principe. Nella realtà Nwabulu resta incinta, il suo ‘principe’ nega addirittura di conoscerla, lei viene rispedita al villaggio. Facile immaginare come venga trattata. Vi dirò solo la fine- il suo bambino viene al mondo ma scompare. Nwabulu non riesce a sapere che fine abbia fatto.


    Julie è figlia di insegnanti, è insegnante lei stessa, ancora nubile a trent’anni, in una società in cui ci si sposa molto giovani. E trova il modo di ‘incastrare’ il ricco imprenditore già sposato che è il suo amante. È un trucco vecchio come il mondo, valido in Nigeria dove gli uomini possono avere più di una moglie. Perché l’uomo è già sposato, ha due figlie e ha bisogno di un figlio maschio che porti avanti il nome della sua famiglia. Così Julie finge di essere incinta, si fa sposare in fretta e furia, sicura che la bugia diventi presto realtà. Non accade. Ricorre ad un altro trucco.

    Sono passati quasi quarant’anni, né l’una né l’altra sono più giovani. Nwabulu è diventata una stilista richiesta in tutta Lagos, Julie è vedova e ha bisogno di farsi fare l’abito per il matrimonio del figlio. Ecco perché si sono incontrate, diventando amiche contro ogni probabilità, anche se sapevano poco l’una dell’altra. Fino ad ora. Scopriranno qual è il legame tra di loro. Ha senso, nella situazione in cui si trovano, nutrire odio o desideri di rivalsa per il dolore passato? Chi può dire che quanto è successo non sia stato per il meglio di tutte le persone coinvolte?


    Accade spesso che la trama di un romanzo possa sembrare banale, ad una prima impressione. Ecco, ad una prima impressione, staccando la vicenda dal suo contesto. Perché invece, approfondendo la lettura, non lo è affatto. Il mondo che circonda Nwabulu e Julie è del tutto diverso, perché questa è la Nigeria, questa è Lagos, l’ambiente in cui sono cresciute non è quello dell’Europa o dell’America. Perfino la povertà è differente, pur con la matrice di penuria e sofferenza comune. È diversa l’idea di famiglia, quella del ruolo di uomini e donne, e non è da trascurare la poligamia. E poi c’è un ricco folclore che fa da sfondo a tutta la vicenda, un dramma molto umano che potrebbe terminare come quello del famoso giudizio di re Salomone. Invece è il destino a decidere e noi restiamo in sospeso, incerti noi stessi su come vorremmo che il romanzo finisse.

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domenica 27 novembre 2022

Bernhard Schlink, “La nipote” ed. 2022

                                                 Voci da mondi diversi. Germania


Bernhard Schlink, “La nipote”

Ed. Neri Pozza, trad.Susanne Kolb, pagg. 323, Euro 19,00

 

  Passato e presente. Illusioni e disillusioni. Un matrimonio (felice? no, non sempre) che finisce con la morte di lei. Una sorta di diario che potrebbe diventare un romanzo che lui legge nel computer della moglie. Segreti e colpe. Un uomo anziano che ‘adotta’ la ragazzina che sarebbe dovuta essere la nipote della moglie, se le cose fossero andate diversamente. E ancora quel passato che non passa mai, la Storia della Germania così tormentata, così difficile, con le svastiche che riappaiono, perfino sotto forma di orecchini in apparenza deliziosi. È questa storia che Bernhard Schlink racconta nel suo ultimo romanzo con una narrativa in terza persona, quando il punto di vista è quello di Kaspar- un punto di vista talmente personale da darci l’impressione che sia lui l’io narrante-, e un lungo inserto in prima persona con la voce di Birgit nel diario ritrovato nel computer. E Kaspar si rende conto di non aver mai veramente conosciuto la moglie. Di essere stato lui quello che amava di più, tra loro due- quello lo aveva sempre saputo.

    Si erano conosciuti nel maggio 1964 a Berlino Est, al convegno promosso dall’organizzazione giovanile del partito al comando di quella che allora era la DDR. Kaspar (la sua data di nascita ha uno scarto di un paio di giorni da quella dello stesso Bernhard Schlink) non ha ancora vent’anni, Birgit è più o meno sua coetanea. L’atmosfera è esaltante, la voglia di conoscersi e di conoscere l’altra metà della Germania è grande, è il tempo del vino e delle rose, Kaspar e Birgit si innamorano. Kaspar è pronto a tutto per assicurarsi un futuro con Birgit.


Organizzerà la sua fuga dalla DDR, rinuncerà a frequentare l’università perché adesso ha bisogno di lavorare, aprirà una libreria. E avrà una pazienza infinita con la moglie inquieta che aveva iniziato e abbandonato strade diverse, che aveva perfino passato un periodo in India, che aveva iniziato a bere, sempre di più. Ne era morta. Ed ora quel diario: come aveva potuto Kaspar non accorgersi, nell’estate dell’incanto, che lei era incinta? Apprenderà dal diario della relazione che Birgit aveva avuto con un funzionario del Partito, della sua decisione di abbandonare la bambina che era nata. Perché di certo non sarebbe riuscita a fuggire con una neonata, di certo Kaspar non l’avrebbe accettata con una figlia non sua.

    Kaspar intraprende la ricerca che Birgit avrebbe voluto fare e non aveva mai fatto e trova sua figlia, ormai sposata e con a sua volta una figlia.


    C’è qualcosa del ragazzo protagonista del libro che ha reso Bernhard Schlink famoso, “Il lettore”, in Kaspar. Qualcosa dell’integrità morale della famiglia in cui entrambi i personaggi sono cresciuti, qualcosa dell’amore che accetta tutto nel sentimento che provano per donne che- entrambe- nascondono un segreto, qualcosa della disillusione, quando scoprono quello che non avevano immaginato, qualcosa, infine, della positività costruttiva con cui affrontano la realtà- Michael Berg che invia a Hanna in prigione le registrazione dei libri che lui legge per lei e il compito educativo che Kaspar prende su di sé.

    È come se, a distanza di tanti anni, dopo tutto quello che è successo, la caduta del muro e lo smantellamento dell’Unione Sovietica, Kaspar si trovasse di nuovo a cercare di capire un’altra Germania, che è rimasta sempre ‘nell’Est’.


E questa è forse una Germania ancorata ad un passato ancora peggiore, perché l’insediamento dei Volkischen in cui vive la figlia di Birgit con il marito e la loro figlia, ha rispolverato l’ideologia nazista. È solo per amore di Birgit che Kaspar si inventa un testamento con un generoso lascito in modo da ottenere che la quattordicenne Sigrun passi del tempo con lui a Berlino? o entrano in gioco altri intenti, come fare la sua piccola parte nello strappare un’adolescente a quell’ideologia invasata aprendole gli occhi e la mente, facendole conoscere la bellezza della musica e dei libri, accompagnandola in brevi viaggi? O per creare un nuovo spazio di affetti per se stesso che avrebbe desiderato dei figli?

    È una figura molto bella, quella di Kaspar. Per la sua generosità, per la sua capacità di amare, per la sensibilità con cui cerca di indovinare quello che può piacere ad una ragazzina. E nel suo tentativo di riannodare i fili del passato noi vediamo altro, vediamo lo sforzo di ricucire insieme due Germanie.

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giovedì 24 novembre 2022

Laura Forti, “Una casa in fiamme” ed. 2022

                                                         Casa Nostra. Qui Italia


Laura Forti, “Una casa in fiamme”

Ed. Guanda, pagg. 280, Euro 17,00

 

   Non c’è bisogno di scomodare uno psicologo per interpretare il sogno di una casa in fiamme. In cui siamo dentro noi, naturalmente. I sogni sono sempre rivelatori dell’inconscio, spesso delle paure più recondite. I sogni ci dicono quello che noi non abbiamo il coraggio di dire a noi stessi. Una casa che prende fuoco può significare il corpo in cui abitiamo che manda segnali di un qualche male che può distruggerci. Oppure il nucleo stesso famigliare di cui facciamo parte che si sta disgregando.

    Il sogno di Manuela (ricorrente, quasi ad incalzare una comprensione) significa entrambe le cose. Manuela, quarantacinque anni, è appena stata operata per tumore al seno. Che parola spaventosa- cancro. Che futuro nefasto prospetta. In più la terapia farmacologica a cui ci si deve sottoporre non è certo di aiuto per il morale. E Manuela si chiude in se stessa, si ritira dalla vita in famiglia, piange. Finché arriva un forte segnale di quanto il suo comportamento coinvolga le persone intorno a lei.


    È questo l’inizio, dunque, con una vera malattia, di un romanzo che disseziona una famiglia i cui membri sono tutti, in qualche maniera, ammalati. E la vita proseguirebbe nello scorrere dei giorni nascondendo i sintomi, se non fosse che un gattino che il marito Sergio aveva regalato a Manuela precipita dal balcone. Può succedere. Ma è stato veramente un caso? Oppure è stato ‘aiutato’ a cadere da Lea (adolescente molto brillante) o da Elias (otto anni, dislessico e discalculico, un bambino che deve essere aiutato)? E comunque è la morte del gattino che tira fuori Manuela dall’abulia e dall’autocompassione facendole aprire gli occhi sui problemi suoi e di coppia e dei figli.

    Dire ‘famiglia’ vuol dire ‘problemi’: in primo piano c’è il problema dell’identità, in questo caso di identità religiosa. Sia Manuela sia Sergio appartengono a famiglie di ebrei italiani con un passato difficile e doloroso, Sergio ha seguito un percorso di conversione (sua madre è cattolica), è osservante ed in continuo dissidio con il padre, Manuela si definisce ‘un’ebrea culturale’. E i due figli? si accorgono, i genitori, che anche Lea è alla ricerca della sua identità?


   Ci sono, poi, mille preoccupazioni, l’apparente predilezione del padre per Lea, la fragilità di Elias, quel ricordo costante di un bambino mai nato e- sempre- lo spauracchio del cancro che pare giustificare la stasi della vita di Manuela. Finché scopre che il marito la tradisce- oh, no, Sergio non la tradirebbe mai con un’altra donna in carne e ossa, ma ecco perché scompariva così spesso nel seminterrato.

     La casa è in fiamme, non è più un rifugio sicuro, la cena di Pesach non è un ritrovo di pace (anzi!), i ricordi del passato si alternano con le vicende del presente, si leggono in maniera diversa alla luce di quanto sta accadendo.


Quando c’è un incendio possono succedere due cose: o non si riesce ad intervenire e tutto si riduce in cenere, o si spegne l’incendio. Il primo segnale positivo è dato dai nuovi referti per Manuela- chiunque può sbagliare, anche noi facciamo errori, basta essere capaci di riconoscerli e correggerci.

   “Una casa in fiamme” è un romanzo sulla famiglia, sulla quotidianità della vita di famiglia, sui problemi che si devono affrontare nei rapporti con genitori anziani, coniugi, figli, amici, sulla difficoltà di mettere tutto nella giusta prospettiva senza dimenticarsi che un pizzico di umorismo è di grande aiuto.

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martedì 22 novembre 2022

Intervista ad Artur Nuraj, autore de "La valle dei bambini perduti" 2022

                                                      cento sfumature di giallo

    


     Mi incuriosiva tutto, del romanzo “La valle dei bambini perduti” di Artur Nuraj. Ad iniziare dall’esperienza personale dello scrittore che, avevo letto, era arrivato come emigrante dall’Albania ed aveva imparato la nostra lingua così bene da poter scrivere un libro. Mi interessava il protagonista, lo sfondo politico su cui si muovono i personaggi del romanzo, tutta l’Albania, un paese che non conosco affatto e che ora più che mai mi piacerebbe visitare. E sono grata ad Artur Nuraj per avermi concesso il tempo di una lunga chiacchierata al telefono per soddisfare tutte le mie curiosità.

Nella postfazione dice di aver incontrato Ludovik Lamani nel 2016. Ci parli di lui, di che cosa c’è di Lei, Artur Nuraj, in questo personaggio che vive nelle sue pagine.

     Ludovik Lamani è un personaggio inventato che ha vissuto con me dal 2015. È nato per caso, mentre cercavo il personaggio per il mio romanzo e lo cercavo- come mio solito- nelle persone vere, quelle che incontro o che ho incontrato. Osservavo una vecchia foto degli anni ‘90 in cui ero di stanza a Tirana presso la Guardia della Repubblica. Erano gli anni in cui facevo il servizio militare in un reparto che vigilava nelle case dei membri del Partito di allora, del Politburo e della Nomenklatura. Nella foto ero con un collega davanti alla piramide dedicata all’ex dittatore Enver Hoxha. Questo collega, che è anche mio amico, è poi diventato investigatore e Ludovik Lamani gli assomiglia. E poi in Ludovik c’è anche qualcosa di me, del mio modo di pensare, di riflettere, del mio modo di investigare, di leggere i grandi classici della letteratura. Io sono sospettoso per natura e ho dato anche a Ludovik questo lato del mio carattere. Così come la mia empatia, il mio approccio alle persone. Il mio modo di vivere è in lui, io sono ordinato, meticoloso, ambizioso. Ho aggiunto anche delle caratteristiche di mio fratello, di mio papà, per creare un personaggio solido e complesso, perché è una storia complessa e volevo che il mio personaggio fosse complesso come la storia.

Enver Hoxha

“La valle dei bambini perduti” non è un semplice giallo la cui trama potrebbe essere banale se ambientata in un altro paese. Questo è un romanzo “politico”: ha scelto il genere ‘giallo’ per parlare di altro?

    Sì, penso che il genere giallo possa raccontare aspetti politici e sociali dei paesi governati da regimi ferrei. Molti autori lo fanno scrivendo saggi e romanzi storici, io ho preferito questo genere perché il lettore lo assorbe meglio, capisce meglio il messaggio politico e sociale.

Si deve capire che noi vivevamo in una bolla: non succedeva mai niente di male, eravamo protetti dal Partito. C’era però l’altra faccia della medaglia: il Partito voleva insabbiare qualunque cosa di negativo per tenere la gente all’oscuro. Il Partito teme la verità, ci sono differenze tra le persone ‘normali’ e quelli che lavorano per il Partito: queste sanno ma tacciono perché sono sorvegliati dal Sigurimi che aveva occhi e orecchi dappertutto.

Racconto con la forma del ‘giallo’, primo, perché no?, e poi perché volevo che il lettore occidentale percorresse questo viaggio-calvario con me e con l’ispettore e con le persone sfortunate che si trovano nel libro.

Mi interessa la sua esperienza personale che credo di intravvedere dietro la vicenda di Ludovik. Quando e perché- se posso chiederlo- è emigrato in Italia? È venuto da solo o con la sua famiglia?


    Sono venuto da solo in Italia. Sono cresciuto in Albania negli anni della dittatura, la mia era una famiglia di lavoratori che rispettavano il regime. La vita era semplice se cercavi di attenerti alle regole e alla politica del Partito. Chi le rispettava aveva una vita tranquilla. Sono di Valona, come Ludovik, ma sono andato a Tirana quando sono stato chiamato a fare il servizio militare di leva. Avevo 18 anni e il servizio obbligatorio durava 27 mesi. Furono i miei primi anni da indipendente e hanno segnato la mia crescita e la mia maturità. Sono arrivato in Italia a 22 anni e mi ha spinto quello che ha spinto tutti i miei compaesani: la prospettiva di avere una vita migliore, un avvenire migliore, di aiutare la mia famiglia. Venire in Italia ha dato un’accelerata alla mia vita, anche se tutti quanti noi che siamo emigrati abbiamo dovuto renderci subito conto che l’Italia non era il paradiso che immaginavamo, che anche gli italiani non se la passavano tanto bene. Sono arrivato con le navi, perché non era permesso emigrare. Ludovik alla fine decide che è più utile per il suo paese che lui resti in Albania, perché l’Albania ha bisogno di lui. Io avrei voluto tornare, ma non c’erano le condizioni adatte.

Ho letto il suo romanzo dopo averne letto un altro ambientato nell’Unione Sovietica di Stalin e ho pensato che, qualunque sia il paese, i metodi e gli intenti della polizia segreta sono uguali ovunque nei paesi totalitari. Governare con il terrore è la loro strategia?  

    Sì, hanno bisogno del terrore. Il Sigurimi aveva modi oscuri ma temibili. Chi non ha provato fatica ad immaginare. Solo il pensiero che potevi aver detto qualcosa non in linea con le direttive del Partito ti toglieva il sonno. Il Sigurimi aveva informatori dappertutto. C’era anche il fratello che denunciava il fratello. Nei regimi dittatoriali i servizi segreti sono più feroci di quelli occidentali, hanno anche un controspionaggio interno, esercitano una sorveglianza ferrea sugli scontenti, sui reazionari. Chi è nel libro paga del Sigurimi, gli informatori, viene ricompensato con privilegi e non con denaro- può essere con un posto di lavoro o con una borsa di studio per un figlio. Sono favori più importanti dei soldi, perché in questo modo ti assicuravi la vita di un figlio. E poi, l’altro aspetto è che un informatore, per il fatto di esserlo, è tutelato, protetto.

Il colore che meglio identifica la sua Albania è il grigio: è un colore metafora?


    Sì, è una metafora. In quegli anni era tutto grigio, niente era chiaro, sia nella politica del Partito sia nel comportamento della gente. I colori del cuore degli albanesi sono il rosso e il nero della sua bandiera. Ma era tutto così confuso in quegli anni. Poi, dopo la morte di Hoxha, gli occidentali hanno capito che il suo successore usava metodi più morbidi ed allora si sono fatti avanti. Il grigio è il colore dominante perché tutto è incerto. Quando si vedevano quei pochi turisti che venivano e indossavano vestiti colorati, sembravano pieni di vita ed il contrasto con noi, vestiti tutti uguali, era stridente. I pensieri grigi producono una vita grigia: tutto parte dal pensiero.

Ma quando poi è arrivato in Italia, quello che ha trovato corrispondeva a quello che aveva immaginato?

    Sì e no. In Italia, sì, la vita era migliore ma si doveva fare i conti con i pregiudizi. Era difficile trovare lavoro, ma l’unica soluzione era rimboccarsi le maniche e impiegare il tempo per migliorarsi, andare avanti senza complessi. Non ho mai voluto trovare scuse. Lavorare, studiare, migliorarsi: questa era la via.

Il romanzo copre il decennio 1985-1995. Sarà il primo di una serie, questo romanzo? Ce ne saranno altri che ci svelino la realtà di quella che dovrebbe essere una nuova Albania?

     La risposta è sì, anche se non vorrei spoilerare. Ho in mente altri tre romanzi. Quando un personaggio mi toglie il sonno di notte, mi stimola, mi porta in un altro mondo, vuol dire che sto per scrivere un romanzo. Quello che sto scrivendo è il prequel a quello appena pubblicato: Ludovik è una recluta e dopo l’Accademia ottiene un posto come investigatore nella zona di montagna.

Valona

 Ho prestato attenzione a tre nomi di città che ricorrono: la capitale Tirana, la città di mare Valona e la città di montagna Korça. Ha diverse anime l’Albania?

     Sì, l’Albania ha anime diverse nelle sue città, e anche un punto di vista diverso, tradizioni e modi di pensare diversi, perfino la cucina è diversa. Queste città non sono distanti tra di loro ma un tempo, con le strade dissestate che c’erano, si facevano 60 chilometri in due ore. La distanza si misurava in ore e non in chilometri.

Tirana è l’anima emancipata dell’Albania, ha larghe vedute, naturalmente nel contesto di quell’epoca.

L’anima di Korça è l’incarnazione della cultura albanese.

Korça

Valona è una città di mare ma ha una mentalità chiusa. Ci sono molti contrasti tra la gente di Tirana e quella di Valona. I valonesi sono ambiziosi e attaccati alla carriera. Ed è così anche oggi, anche se la gente ha incominciato ad aprirsi, perché ormai l’Albania è Occidente. Siamo fieri della grande accoglienza che siamo capaci di dare. Siamo rispettosi delle religioni e delle etnie. Abbiamo sempre avuto un profondo rispetto per le usanze e le tradizioni diverse. Anche in passato, nonostante le condizioni politiche, in Albania c’era indulgenza verso i nomadi, il governo ha sempre rispettato la loro anima nomade. E tuttavia- e questo viene detto nel libro- la controparte della libertà di cui i rom godevano era che dovevano sbrigarsela da soli. La libertà in un paese chiuso come l’Albania aveva questo prezzo.


 Ha mai nostalgia dell’Albania? Vorrebbe tornare?

    Se ho nostalgia dell’Albania? Non c’è momento, mi creda, non c’è momento della giornata in cui non pensi alla mia terra, alla famiglia, agli amici, alla mia Valona. Torno ogni anno in Albania. Chi c’è stato dice che ha un fascino seducente. Se vuoi trovare la natura vergine, l’Albania è la meta ideale. Se cerchi modernità, non la trovi. La bellezza della natura selvaggia dell’Albania ti toglie il fiato.

Io ci tornerei, ma i figli sono nati qui, sono italiani e si sentono italiani. A loro piace andare in vacanza in Albania e, però, restare qui. Ma a noi, a me e a mia moglie, piacerebbe tornare.

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sabato 19 novembre 2022

Artur Nuraj, “La valle dei bambini perduti” ed. 2022

                                                           Voci da mondi diversi. Albania

cento sfumature di giallo

Artur Nuraj, “La valle dei bambini perduti”

Ed. Marsilio, pagg.451, Euro 20,00

      1990. Carcere di Spaç, in Albania. “Mi chiamo Ludovik Lamani. Sono nato il 23 agosto 1956 a Valona…”. È il protagonista e io narrante di questo teso romanzo di indagine poliziesca a presentarsi. Prosegue elencando le sue caratteristiche, come fosse la dicitura di un passaporto.  Alcune ci colpiscono in modo particolare. Alla voce ‘condizione attuale’ troviamo: prigioniero politico (più tardi ci dirà di essere stato condannato a tredici anni di reclusione per aver cercato di lasciare il paese in modo illegale). A ‘corporatura’ corrisponde: quattro ossa. Segue l’indicazione della sua passione, ‘la lettura’, e quella delle sue idee, ‘azzerate’- quasi un ossimoro a riprova di come i lavori forzati lo abbiano ridotto.

      Un flashback datato 1981. Attenzione ai dettagli. Un luogo alla periferia di Tirana. Un uomo con un’attrezzatura fotografica del tipo che non si vede in Albania. Guida un sidecar rosso. Di fianco a lui una ragazzina. Lui scatterà foto ad un accampamento di rom e attaccherà discorso con una vecchia ed un bambino biondo e con gli occhi azzurri.

Enver Hoxha

    1985. La vicenda incomincia qui, con Ludovik Lamani fresco di nomina presso il commissariato di Tirana. Gli viene subito affidato un caso che sembra facile, ma è delicato. La figlia diciassettenne di un importante membro del Partito si è suicidata impiccandosi nel salotto di casa. Sembra facile, per l’appunto. C’erano tracce di due solchi di corde diverse intorno al suo collo. E poi, che motivo aveva per suicidarsi? A detta di tutti era una ragazza bella, con l’ambizione di diventare una danzatrice professionista. Ed ecco il primo intoppo che segnala l’ambiente e il paese in cui si svolge la vicenda. Il padre della ragazza si oppone all’autopsia, appoggiato da un nipote che è collega di Ludovik. Fanno la voce grossa, lasciano intendere che si rivolgeranno alle alte sfere per impedirla- questa è l’Albania comunista, pochi mesi dopo la morte del dittatore Enver Hoxha. Ludovik, però, riesce ad imporsi, i suoi sospetti si rivelano fondati. E la ragazza era incinta.

    C’è altro di cui Ludovik Lamani si deve occupare, o meglio, si vuole occupare. Una coppia di rom denuncia la scomparsa di un bambino di nove anni, loro nipote. Ma chi presta ascolto a dei rom? Nessuno, come d’altronde nessuno ha fatto indagini su altri nove bambini rom scomparsi nell’arco degli ultimi dieci anni. E le testimonianze raccontavano di un uomo con macchina fotografica e motocicletta. Ma si sa che i bambini rom si allontanano dai loro accampamenti, è nei loro geni essere nomadi, la polizia non ha mai ritenuto necessario occuparsene.


     Questi due filoni del romanzo sembrano  non aver nulla in comune, e invece finiranno per intrecciarsi in una qualche maniera, ci saranno altre morti, mentre la narrativa in prima persona di Ludovik si alterna con una seconda narrativa- noi continuiamo a chiederci chi sia questo secondo narratore, abbiamo dei sospetti, ci sono colpi di scena, dobbiamo appuntare l’attenzione su qualcun altro. Fino alla rivelazione finale.

    E c’è un terzo filone e direi che è il più interessante, quello che ci apre la porta sull’Albania comunista, sul diffuso sistema di corruzione, sui metodi del Sigurimi (la polizia segreta terribile quanto il KGB, la Stasi, la Securitate), sulla penuria dei beni di consumo, sui sogni della gente comune che guarda l’Occidente sapendo che qualsiasi tentativo di lasciare il paese verrebbe punito con il carcere e i lavori forzati.


    I personaggi, infine. Prima di tutti il nuovo commissario che appare sulla scena del crimine, un uomo integro con un sogno-incubo ricorrente, un lettore appassionato, una persona capace di superare i pregiudizi discriminatori nei confronti delle minoranze e di non lasciarsi né ricattare né intimidire da chi vorrebbe insabbiare tutto.

  E poi impariamo molto sull’Albania, questa sconosciuta sulle sponde opposte del mar Adriatico, sui comportamenti e sulle usanze, sui cibi e sulle bevande, sull’anima diversa delle sue città, la capitale Tirana, Valona in riva al mare, Korça tra le montagne.

     Da leggere, se volete qualcosa di diverso.

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A breve seguirà intervista con lo scrittore



 

    

giovedì 17 novembre 2022

Sana Krasikov, “I patrioti” ed. 2022

                                   Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America

                                                      romanzo epico          


Sana Krasikov, “I patrioti”

Ed. Fazi, pagg. 800, Euro 19,00

 

   Datemi un grande romanzo russo e non mi accorgerò più di niente, né delle ore che passano, né della pioggia sottile, né mi ricorderò dei compiti quotidiani da sbrigare in casa.

“I patrioti”, della giovane scrittrice Sana Krasikov (nata nel 1979 in Ucraina, cresciuta in Georgia ed emigrata negli Stati Uniti dove si è laureata alla Cornell University), è il romanzo di ampio respiro, con una storia che copre tre generazioni, che vi farà dimenticare tutto finché non arriverete all’ultima pagina.

    Anni ‘30 del ‘900 in America. Florence Fein ha ventitre anni, la vita in America le va stretta, così come quella nella sua famiglia ebraica. Guarda lontano, Florence, guarda verso la Russia da cui è venuta una sua nonna. Anzi, all’Unione Sovietica. Le sembra che il futuro sia là, che il comunismo sia l’avverarsi dei suoi sogni e delle sue utopie. E poi c’è l’amore. Florence si innamora di uno degli ingegneri russi a cui deve fare da interprete e, quando lui ritorna in patria, è arrivato il momento per lei di partire. Per seguire lui e il suo sogno.

    Con l’incoscienza della giovinezza, con l’idealismo della giovinezza, Florence parte, sapendo soltanto che lui lavora nella città mineraria di Magnitogorsk, sui monti Urali. Come può pensare di trovare un ago nel pagliaio? E infatti non lo trova, almeno, non lo trova nella città delle fornaci. Come può pensare che l’esperienza d’amore, indimenticabile per lei, sia stata uguale anche per lui? E, infatti, quando finalmente lo incontra, sarà una delusione.


    Florence non si lascia abbattere, sarà cieca alla realtà fino alla fine, quando dovrà seguire il figlio Julian ritornando in America. È il 2008. Nonostante tutto, nonostante che l’Unione Sovietica non esista più, nonostante la precarietà della sua vita a Mosca, Florence sarebbe rimasta. Se parte, è per non abbandonare di nuovo il figlio che non ha mai superato del tutto il trauma di aver passato sette anni in orfanotrofio, mentre lei scontava in un gulag la pena per essere stata sorpresa con una rivista americana e accusata di aver propagandato le idee di un paese borghese e consumista.

     La narrativa si alterna fra un racconto delle vicende di Florence in terza persona e quello in prima persona del figlio Julian che è tornato a Mosca nel 2008 per lavoro e con un’altra duplice intenzione- convincere suo figlio Lenny a lasciare la Russia e consultare le carte desecretate che riguardano il passato dei suoi genitori. Julian è roso da un dubbio: è vero che, come ha insinuato un amico d’infanzia, sua madre Florence ha fatto la spia, denunciando altre persone della loro kommunalka?

kommunalka

    La vita di Florence, tollerabile all’inizio, poi sempre più limitata dalle ristrettezze e soffocata dalla morsa della paura, è lo specchio raggelante dell’esistenza in un regime totalitarista dove qualunque parola, qualunque sguardo, qualunque comportamento può essere interpretato come un segno di tradimento, dove si ha paura perfino a passare davanti alla Lubjanka, ad alzare gli occhi alle sue finestre. Tutti sanno che chi entra alla Lubjanka non ne esce più. Florence sperimenterà gli interrogatori estenuanti alla fine dei quali o si muore o si confessa qualunque cosa ‘loro’ vogliano sentir dire. Ma Florence ha l’arte di sopravvivere, o meglio ha l’intelligenza per sopravvivere anche se deve scendere a patti con la sua coscienza- qual è il male minore? Se la conclusione sarebbe comunque uguale, tanto vale cercare di salvare almeno se stessa. Ed è così che riesce a tornare a casa dalla Siberia.


     Se la storia di Florence e dell’Unione Sovietica di Stalin è più o meno nota, quella di Julian nella Russia contemporanea lo è meno e ci toglie qualunque illusione possiamo aver nutrito. Niente è cambiato e quello che è cambiato lo è solo in apparenza e per pochi. La corruzione è ovunque, adesso come allora, i metodi per ottenere quello che si vuole sono sempre gli stessi, la paura serpeggia tuttora. E, come in passato Julian voleva che la madre ritornasse in un’America che Florence non conosceva più, ora vuole che suo figlio ritorni, prima che sia troppo tardi.

    “I patrioti” è un romanzo travolgente, è un grande romanzo epico. Forse l’immagine che meglio lo riassume è quella contenuta nel libro di Mark Twain, “Vita sul Mississipi”, soggetto di una lezione di Florence all’Università. Il fiume che aveva impressionato lo scrittore bambino per la sua maestosità, lo delude quando lo rivede da adulto. Florence non lo riconoscerà mai apertamente- sperava che gli studenti cogliessero da soli il significato di quella delusione-, ma il disincanto di Twain è il suo davanti al suo paese d’adozione. Dove sono finiti quei grandiosi ideali? A che cosa sono serviti i sacrifici, le privazioni, la sofferenza, le morti?

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lunedì 14 novembre 2022

Zeruya Shalev, “Dopo l’abbandono” ed. 2007

                                        Voci da mondi diversi. Israele

Zeruya Shalev, “Dopo l’abbandono”

Ed. Frassinelli, trad. Elena Loewenthal, pagg. 472, Euro 18,00 

 Una donna si è appena separata dal marito, è stata lei a volere la separazione, resterà nella loro casa con il figlio di sei anni, nonostante l’evidente sofferenza del marito e del bambino. Il tempo di adattamento sarà lungo, lei cercherà di tornare sui suoi passi, poi incontra uno psichiatra, se ne innamora e va a vivere con lui. Le difficoltà aumentano con la famiglia allargata, difficile evitare le gelosie tra i due figli di lui e quello di lei, arduo trovare del tempo da soli. L’amore non è mai perfetto.

 

 INTERVISTA A ZERUYA SHALEV

    E’ una storia tormentata che lascia un segno nel lettore, quella raccontata dalla scrittrice israeliana Zeruya Shalev nel suo nuovo romanzo “Dopo l’abbandono” che completa una sorta di trilogia sull’amore ai nostri giorni, come indicano in maniera allusiva pure i titoli dei libri precedenti, “Una relazione intima” e “Una storia coniugale”. Il primo, “Una relazione intima”, era una rovente storia di passione e sesso tra una ragazza e un uomo dell’età di suo padre; “Una storia coniugale” raccontava della dolorosa separazione di una coppia suggerendo, con l’accostamento dell’articolo “una” al nome e all’aggettivo, che questo sia l’esito banalmente normale di un matrimonio; ancora una separazione seguita da un nuovo innamoramento e dal formarsi di una nuova coppia in “Dopo l’abbandono”. Questa volta però quello che noi lettori avvertiamo come il personaggio principale è un bambino di sei anni, Ghili, anche se la voce narrante, le emozioni e i pensieri esplorati sono quelli della sua mamma, Ella, che ha appena lasciato Amnon, il padre del bambino.


E’ Ella che parla, descrive, riferisce dialoghi e parole dette da lei e da altri, in un flusso continuo non virgolettato che comunica un senso di urgenza e immediatezza, ma è la vocetta del bambino che si distacca dalle altre, ad iniziare dalle parole con cui il libro incomincia, “Sono morto, grida, la voce accaldata, il suo corpicino si dibatte sotto i miei occhi, sono completamente morto, morto per sempre, la bocca aperta scopre i tremuli denti da latte, sospesi sul nulla.”: è il giorno “dopo” la separazione dei genitori, quel terremoto famigliare di un’intensità pari a quello avvenuto quattromila anni prima nell’isola Santorini e avvertito fino in Egitto, come ci viene di continuo rammentato sia da Ella sia da Amnon, entrambi archeologi, in quello che è un contrappunto storico metaforico dell’intera vicenda.

     La paura dell’abbandono che prova Ghili ci fa male e ci porta a riflettere sui diritti degli adulti a modificare la propria vita alla ricerca della felicità- “pensavo che avevi deciso di lasciare me come hai fatto con papà”, dice il bambino dopo che Ella ha tardato ad andare a riprenderlo a casa dell’amico. Ci fanno male il suo disagio, la sua infelicità nel ritrovarsi ad essere un bambino a metà tra due genitori, che non si sente più ricco perché ha due case e due stanze, e neppure più amato perché ha un genitore alla volta tutto per sé. Perché invece ha nostalgia della mamma quando è con il papà e del papà quando è con la mamma. Perché ha solo sei anni e vorrebbe avere il bacio di entrambi prima di andare a letto. Perché affrontare un cambiamento di casa a sei anni, e non con mamma e papà ma per andare a vivere con un uomo che è uno sconosciuto e i due figli di questo, è inesplicabile.


I rapporti umani sono difficili, questo è quanto Zeruya Shalev vuole dirci. Si deve scavare in profondità, come fanno gli archeologi nelle loro ricerche, per capire le motivazioni dei nostri comportamenti- il padre tiranno e dominatore di Ella, quello ammalato di mente dello psichiatra Oded, nuovo compagno di Ella, un blocco della crescita di Ella che si collega, in qualche modo, con il suo infantilismo. Difficili i rapporti tra genitori e figli quanto quelli di coppia- almeno dopo che è passato l’incanto dell’innamoramento-, ancora più difficili all’interno dei nuovi legami quando gli equilibri sono precari: i figli del compagno non potranno mai essere come i propri, ed è così facile invece farsi del male- basta dire ad un bambino “non mi piacciono gli orsi”, quando è un orsetto di peluche che serve da tramite d’affetto, per respingere il bambino insieme al suo orso. Eppure la vita va avanti e bisogna coglierla a piene mani, con il suo bagaglio di felicità e infelicità, conquiste e sconfitte- è questo che sembra dirci il funerale di un’amica in chiusura del libro. Con la domanda colma di stupore di un altro bimbetto issato sulle spalle del padre, “ma non la vedrò più la mamma?”. 

Stilos ha intervistato Zeruya Shalev, che è nata in un kibbutz nel 1959 e vive a Gerusalemme.


 “Dopo l’abbandono” chiude una trilogia di romanzi che parlano di donne e tuttavia sono diversi dalla tradizionale letteratura femminile: quale era il suo piano quando ha iniziato a scrivere il primo, “Una relazione intima”?

       Non avevo progettato di scrivere una trilogia, non mi piace progettare, credo nell’ispirazione- scrivo poesia e scrivo anche la prosa come fosse poesia. Naturalmente devo conoscere i miei personaggi e in che direzione andrà il libro, ma mi piace sorprendermi e trovarmi in un’avventura: scrivere è un’avventura per me. D’altra parte non penso sia una vera trilogia, i libri sono indipendenti l’uno dall’altro, solo quando ho scritto quest’ultimo mi sono resa conto che tutti e tre insieme creano una sorta di trilogia e non tanto perché al centro c’è un personaggio femminile, perché penso che gli uomini conoscano le stesse emozioni e io scrivo della condizione umana e non solo di quella femminile. Descrivo la complessità dei rapporti ma, prima di tutto, dei rapporti tra l’individuo e se stesso, scrivo dell’amore per noi stessi e non solo per un altro. Al centro dei tre libri ci sono le emozioni basilari, la relazione con i genitori, con il marito o il compagno, con i figli. I libri sono una trilogia nel senso che sono una ricerca sull’amore moderno e sulla famiglia moderna. E poi hanno in comune la voce, lo stile, che è molto intenso in tutti e tre, inquieto. Per me è importante perché sento che questa è la mia voce e la voce crea il dramma più della trama. E in tutti e tre ho colto tre donne diverse in un momento di crisi famigliare e ho cercato di vedere come si comportano in queste crisi.

 Il titolo originale di “Dopo l’abbandono” è “Thera”, uno dei nomi dell’isola di Santorini. Il tema dell’eruzione del vulcano, così come quello dell’archeologia, sono la spina dorsale del romanzo, le due grandi metafore per quello che sta succedendo?


     Sì, ho pensato molto alla scelta di una professione per la mia protagonista e mi sono resa conto che fare l’archeologa era l’unica cosa possibile per lei, perché è sempre occupata  con il passato e ha la tendenza a scavare e a trovare prove per quello che vuole, a fare ricerche sulla sua vita: Ella è come un archeologo dell’anima. Mi è capitato di leggere di questa eruzione a Thera e ho pensato che fosse la metafora giusta perché mostra visivamente la maniera in cui lei tratta il divorzio: è lei che prende l’iniziativa ma poi se ne pente, il suo comportamento è estremo come un’eruzione. La sua famiglia è l’isola e l’eruzione del vulcano viene da dentro di lei. Questo misto di passato e del potere di distruzione ma anche dell’opportunità di una nuova vita mi è parso la metafora più giusta per la sua storia.

 Quando Amnon incontra Ella per la prima volta, le dice che l’ha già vista, che assomiglia ad un dipinto in Thera conosciuto con il nome di “la parigina”: i comportamenti umani sono sempre uguali nei secoli e millennii?

     Non ci avevo pensato, ma è un’idea nuova e interessante. In realtà volevo fare in modo che per lui non fosse un incontro nuovo, nel momento in cui vede la somiglianza di lei con “la parigina” è come se lui l’avesse già incontrata: è una metafora del destino e avevo bisogno di questo legame con il tema dell’eruzione del vulcano a Thera.


 C’è un altro tema storico a cui si accenna spesso, la fuga degli ebrei dall’Egitto. E’ collegata in qualche maniera con la storia privata che stiamo leggendo?

     Cerco sempre di trovare dei legami tra la storia nazionale e quella famigliare. Se credi nella storia dell’Esodo- e molti storici dicono che non è vera, ma a me non interessa la verità storica- puoi trovare un legame tra la distruzione dell’isola di Thera e l’Esodo, perché le conseguenze di questa eruzione sono simili alle piaghe d’Egitto descritte nel Vecchio Testamento. E’ una maniera privata per Ella di interpretare il disastro che la libertà può provocare, perché è vero che gli ebrei sono diventati liberi una volta usciti dall’Egitto ma hanno sofferto per la loro libertà, forse ancora di più che durante la cattività: in questo modo Ella cerca la maniera di spiegare a se stessa la storia della sua famiglia. Ella si chiede se proprio doveva distruggere la famiglia, perché mai lo ha fatto. Si pone molte domande ma ci sono poche risposte; Ella cerca risposte nella storia antica, cerca di convincersi che ha fatto la cosa giusta, perché la lezione del passato è che dal disastro può nascere la libertà.

 Ella non è un personaggio simpatico. All’inizio stiamo dalla sua parte ma, proseguendo la lettura, non più. Perché? Perché ha fatto di una donna egoista e infantile il personaggio principale del libro?

    L’ho fatto di proposito. E’ facile creare un personaggio con cui identificarsi  ma io non voglio che i lettori amino Ella, voglio mostrare una personalità umana. Chiedo al lettore di non giudicarla ma di seguirla, con le sue debolezze- siamo tutti umani e lei cerca di affrontare un momento difficile. Ella è egoista perché è infelice, è infantile ma se fosse matura non ci sarebbe nessuna storia. Cerco dei personaggi umani con molte debolezze, così posso accompagnarli a diventare più maturi, voglio che impari; altrimenti, se Ella sapesse tutto, non potrei scrivere di lei.

 Stranamente il carattere più “forte” tra i personaggi è quello di Amnon, il marito abbandonato che si rivela essere il migliore, anche se all’inizio sembrava “il cattivo” della situazione…

    Ha ragione, penso sia una delle mie maniere di mostrare la complessità della situazione. E’ facile lasciare un marito debole o stupido che non si apprezza, ma volevo che Ella lasciasse un uomo da rimpiangere se no non ci sarebbe problema. Volevo mostrare come lui cambi; per lui la separazione è l’opportunità di svilupparsi come uomo e come padre e lui è capace di cogliere questa opportunità. Amnon mostra anche a Ella e a Oded come superare le difficoltà e penso che abbia ragione quando dice che è il più forte. Ecco perché è difficile per Ella; quando si rende conto che Amnon vale più di quanto pensasse, capisce anche che ha perso molto. E’ buffo, ma pare che in Israele molte lettrici ci abbiano ripensato e non abbiano divorziato, dopo aver letto il romanzo.

 Le voci dei bambini sono tenere, a volte buffe e a volte strazianti. Penso che lei debba avere dei figli per rendere le loro voci così convincenti. Anche Lei è passata attraverso una separazione: come hanno reagito i suoi figli alla sua separazione?

    Sono contenta di essere riuscita a rendere bene la voce dei bambini- sono molto vicina ai miei figli e ho cercato di imitare la voce di mio figlio in quella di Ghili. Passo molto tempo con loro e cerco di identificarmi con loro, è come se sentissi le loro voci dentro di me. La mia storia però è diversa: quando mi sono separata da mio marito mia figlia aveva solo 4 anni ed era diversa da Ghili, era troppo piccola. Non ho attraversato questo processo penoso, però conosco alcune delle emozioni di Ella e ho usato dei ricordi di quel tempo- conosco i tragici sentimenti di una famiglia spezzata.

 Una morte chiude il libro: la brevità della vita è qualcosa che dovremmo tenere sempre presente nelle difficoltà quotidiane?


    In un certo senso sì, volevo finire con un’esperienza che tutti e quattro i personaggi principali condividessero: erano così impegnati con la loro vita e alla fine si trovano insieme con una esperienza che non è la loro. Volevo che uscissero da sé davanti ad un dolore universale. La morte di una donna giovane è la morte delle illusioni, perché questa donna è simbolo della madre e della moglie perfetta. Ella l’ha invidiata a lungo, ricorda la festa a cui la donna aveva invitato tutti e adesso quella festa è diventata il funerale e mostra l’illusione della perfezione. Ella deve separarsi dall’illusione per essere matura e meno egoista, deve abbandonare l’illusione dell’amore romantico, deve lottare per dei momenti di felicità. Alla fine Ella sa che non sarà molto felice ma non è più così egoista, deve prendersi la responsabilità degli altri, di suo figlio, dei figli di Oded, di Oded stesso. Capisce che questa avventura della vita non ha anche fare con la felicità ma con il significato- la sua vita sarà più ricca di significato.

 Parlando di morte: sappiamo che Lei è stata ferita in un attentato terroristico, qualche anno fa. Nel romanzo Oded dice che non c’è luogo all’aperto che sia sicuro per portarci i bambini. Le è rimasta questa paura, del pericolo di andare ovunque? Come si convive con questa paura?


    Vivevo nella paura anche prima di restare ferita nell’attentato- sono tanti anni ormai che in Israele viviamo con la paura, dalla seconda Intifada, nel 2000. Ci sono stati dei periodi in cui avevo paura persino a mandare i bambini a scuola. Tre anni fa camminavo sul marciapiede- andavo sempre a piedi perché avevo paura di prendere un autobus- ed è esploso l’autobus che mi passava accanto: quando è destino…Mia figlia tuttora corre via quando sente un autobus che si avvicina. E tuttavia si impara a convivere con la paura, a calcolare quale strada sia meglio fare…

 Eppure non c’è quasi nessun riferimento nei suoi romanzi alla eterna guerra in Israele…

    E’ vero, ci sono pochissimi cenni nascosti alla situazione della vita in Israele; Oded ad un certo punto parla del trauma di un paziente- è un accenno piccolissimo autobiografico alla mia paura e a quello che mi è successo. Ho bisogno di questa separazione dalla realtà israeliana nella mia scrittura. Il pericolo è nello sfondo ma non voglio scriverne perché cerco nuove risposte nella mia scrittura. La letteratura è diversa dal giornalismo e, se scrivo della realtà, è troppo immediato e non mi interessa descrivere la realtà quotidiana in Israele. Cerco la profondità dell’animo, non so come fare letteratura dal terrore- è troppo tragico. Cerco piuttosto le tragedie nascoste nella situazione quotidiana della vita di coppia, della maternità. Non voglio scrivere del tragico conflitto o della tragedia palestinese.

 La recensione e l'intervista sono state pubblicate sulla rivista letteraria "Stilos"

copertina dell'edizione del 2007