martedì 31 dicembre 2019

Tommy Wieringa, “Santa Rita” ed. 2019


                                               vento del Nord


Tommy Wieringa, “Santa Rita”
Ed. Iperborea, trad. Claudia Cozzi, pagg. 301, Euro 18,50

   A Paul la medaglietta di Santa Rita l’aveva regalata l’amico Hedwiges che l’aveva acquistata su una bancarella durante una delle vacanze che facevano insieme in qualche paese lontano. Anche Hedwiges ne aveva una e Paul ne aveva acquistato una per regalarla a Rita, la sua prostituta preferita del Club Pacha- santa Rita, la patrona delle cause impossibili, delle donne sterili e di quelle malmaritate. E meno male che c’era questa Rita nella vita di Paul.
    Il nuovo romanzo di Tommy Wieringa si svolge in un paesino della pianura olandese, uno di quei paesini fuori dal mondo, dove tutto, la moda e le novità e le idee e le notizie, arriva in ritardo. Erano arrivati gli stranieri, loro sì. Prima di tutti, nel 1975, quando Paul aveva otto anni, era arrivato, piombando dal cielo con il suo aereo, il russo Anton che era diventato un eroe simbolo della libertà per quella sua fuga avventurosa dall’Unione Sovietica. Era sopravvissuto allo schianto, Anton. Purtroppo, perché la madre di Paul se n’era andata con lui. Un trauma da cui Paul e suo padre, il mite maestro Alois, non si sarebbero mai interamente ripresi. Dopo la meteora di Anton erano arrivati i cinesi che avevano aperto un bar e un ristorante. E infine sempre più gente dall’Est, bulgari, rumeni, polacchi. E con loro furti e rapine. Per loro un paese in una zona di confine era comoda, erano agli ordini di uomini che stavano ad est, in palazzi di marmo e con grosse auto.

     Paul vive con il padre, lo accudisce con ammirevole devozione filiale. Ha messo su un commercio di reliquie di guerra- una straordinaria raccolta di divise, armi, medaglie e altro ancora che vende per corrispondenza. Ha un solo amico, Hedwiges, un altro tipo solitario quanto lui, diventato ancora più introverso dopo la morte della madre. Quando Hedwiges, chiacchierando al bar, per vantarsi lascia intendere di avere un sacco di soldi, la violenza irrompe nella tranquilla vita quotidiana dei due scapoli di mezza età.
     La scrittura di Tommy Wieringa ha una pacatezza poetica che si addice perfettamente al racconto- al paesaggio che riesce a far apparire di una stupefacente bellezza pur nella sua monotonia, alla vita cadenzata e sempre uguale di un uomo molto solo che ha per amico un altro uomo che è ancora più solo di lui, che  viene scombussolato quando apprende che i cinesi se ne vanno, che anche Rita se ne andrà. E intanto suo padre è in ospedale, e l’amico Hewiges? Maledetti Ivan- si chiamano ancora così, i russi, anche dopo che la guerra è finita da quasi settant’anni.

    Non aspettatevi che succeda molto, in “Santa Rita”. L’evento più stupefacente, di per sé, per il significato politico che ha e per l’impatto sulla vita affettiva di Paul e di suo padre, è quello dell’aereo russo che precipita (e la mini-storia della sua costruzione e della preparazione della fuga è un racconto tutto a sé). I russi, già eterni nemici, saranno per sempre l’emblema del male. Quello che affascina, nel romanzo di Wieringa, è il lento strisciare del nuovo in questa terra piatta circondata dal nulla. Un ‘nuovo’ fatto di nuove presenze esotiche che finiscono per vivacizzare l’ambiente e di nuovi prodotti tecnologici a cui fa da controcanto la collezione di ‘militaria’ di Paul. Affascina la nebbiolina di malinconia, la solitudine che è incapacità di distacco (è da questo che è fuggita la madre di Paul? per non restare irretita per sempre?), e, al contempo, rafforza i legami- di Paul con suo padre, di Paul con l’amico più ‘sfigato’ ancora di lui. Quanto al timore di Paul di un legame saldo con una donna- non possiamo forse capirlo perfettamente?
    Un altro bellissimo libro dal Nord. Da leggere.

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sabato 28 dicembre 2019

Alice Walker, “Il colore viola” ed. 2019


                                       Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America



Alice Walker, “Il colore viola”
Ed. Sur, trad. A. Lombardi Bom, pagg. 346, Euro 18,00

        Avevo letto “Il colore viola” di Alice Walker quando era stato pubblicato, nel 1982, in lingua originale. Lo ricordavo come un romanzo bellissimo, uno di quelli che lasciano il segno, anche se la lingua dei neri degli stati del Sud mi era parsa difficile. Ho salutato con piacere la nuova pubblicazione con una nuova traduzione in italiano: adesso “Il colore viola” non è solo un libro bellissimo- è diventato un classico, assolutamente da leggere.
    Perché il colore viola nel titolo del libro? Perché ad un certo punto la bella Shug Avery, un personaggio importante del romanzo, chiede a Celie (la protagonista che racconta la storia sotto forma di lettere, prima a Dio e poi alla sorella Nettie) se ha mai osservato le piccole cose che Dio ci dà per mostrarci che ci ama: per esempio ha mai fatto caso ai fiori viola nei campi? In tutta la prima parte della sua vita Celie aveva altro a cui pensare che a guardare la bellezza dei fiori viola. Sua madre era morta, suo padre la violentava da quando era bambina, lei si era offerta al posto della sorellina Nettie perché lui la lasciasse in pace. Aveva avuto due bambini che le erano stati portati via, e poi aveva accettato di sposare Mr. X, proprio per poter portare Nettie a vivere con sé. Mr. X era vedovo con parecchi figli e non era molto diverso da suo padre. Le diceva che era brutta e troppo nera, le si buttava sopra, faceva quello che doveva e si rialzava. E Nettie che lo rifiutava dovette andarsene, con la promessa di scrivere a Celie. Nessuna lettera era mai arrivata. Eppure, da un certo punto in poi, le lettere da parte di Celie a Dio si alternano a quelle di Nettie a sua sorella. Quelle di Celie parlano della nuova improbabile amicizia di Celie con Shug Avery che è stata il grande amore di Mr. X e che arriva, gravemente ammalata, a stare con loro; quelle di Nettie raccontano della coppia di missionari che l’ha raccolta, di come abbiano due bambini che sono la copia identica di Celie, del viaggio in Africa, infine, dove i due missionari si propongono di portare aiuto alla tribù degli Olinka.

     “Il colore viola” è un romanzo che ha più di una valenza. È, prima di tutto, un romanzo sulle donne e solo dopo è un romanzo sulla condizione dei neri negli stati del Sud. Celie scrive a Dio perché il suo patrigno, violentandola, le ha detto di non dire nulla a nessuno, di parlarne solo con Dio- un dio assente, peraltro, un dio che permette che accadano cose orrende, un dio che sembra essere il dio dei bianchi. Nella Bibbia non si dice però che Gesù aveva i capelli lanosi come quelli di una pecora? Tuttavia Celie non sarà una vittima per tutta la vita. Non riuscirà mai ad amare un uomo, ma l’amicizia e poi l’amore per Shug la aiutano a cambiare, e l’esempio dell’indomita Sofia, che finisce in carcere per aver tenuto testa ad un bianco, le prospetta un’altra possibilità di come essere donna. E le lettere di Nettie, che si sostituisce a Dio come destinatario delle lettere di Celie quando aumentano i suoi dubbi religiosi (bellissimo questo carteggio, ‘muto’ perché né l’una né l’altra riceve le lettere eppure così perfettamente armonico), allargano ulteriormente il quadro, illustrando la situazione femminile in Africa, dove vige ancora l’usanza della scarificazione e della mutilazione femminile.

    Il tempo che passa traspare non solo dagli eventi circostanti- la crescita dei bambini, i matrimoni, le morti e tutti gli altri piccoli e grandi fatti quotidiani- ma anche dal cambiamento della personalità di Celie, perfino dal linguaggio che usa. Celie, la brutta e ossuta Celie, la vittima Celie che subisce sempre, diventa una sarta che inventa e cuce pantaloni che vanno a ruba. Lo avremmo mai pensato possibile? E avremmo mai pensato possibile il finale?
     Un bellissimo libro adesso come lo era nel 1983 quando vinse il Premio Pulitzer.

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mercoledì 25 dicembre 2019

Holidays






                         Auguri a tutti i lettori! (anche a chi non è un lettore- ma spero lo diventi)

lunedì 23 dicembre 2019

Astrid Lindgren, “L’uccellino rosso” e Kim Leine, “Il bambino che partì per il Nord alla ricerca di Babbo Natale” ed. 2019

libri per bambini
Astrid Lindgren

                                                       

Astrid Lindgren, “L’uccellino rosso”
Ed. Iperborea, trad. Laura Cangemi, Euro 12


Kim Leine, “Il bambino che partì per il Nord alla ricerca di Babbo Natale”
Ed. Iperborea, trad. Ingrid Basso, Euro 13

       






Parliamo ancora di libri per bambini in questi giorni vicino al Natale che è la festa dei bambini, sperando che, tra i pacchetti sotto l’albero, ce ne sia almeno uno che contenga un libro.
    La casa editrice Iperborea, che ci ha fatto conoscere ed apprezzare gli scrittori del Nord Europa, dedica un’intera collana alla letteratura per l’infanzia- i “Miniborei”, un nome che fa pensare a piccoli gnomi che avanzano nella neve con cappuccetti di pelo bianco e un libro in mano. Tra gli ultimi pubblicati ne sottolineo due, “L’uccellino rosso” di Astrid Lindgren (un nome famoso che tutti conosciamo per aver scritto le avventure di Pippi Calzelunghe) e “Il bambino che partì per il Nord alla ricerca di Babbo Natale” di Kim Leine.
   Quattro brevi storie sono raccolte ne “L’uccellino rosso”. I protagonisti sono i bambini e anche degli animali- come nella tradizione favolistica. La situazione iniziale dei bambini è- anche questo secondo la tradizione- di infelicità e di miseria.
Bambini orfani che vivono affidati ad un contadino, una piccola orfana che addirittura è alloggiata in un ospizio, una bimba che vive con il nonno. Eppure tutti questi bambini trovano qualcosa per cui vale la pena di vivere, trovano la bellezza in luoghi incantati, sentono la voce degli alberi e capiscono il linguaggio degli uccelli, vanno e vengono da un mondo sottoterrestre. Nell’ultima bellissima storia, “Messer Nils di Eka”, c’è un bambino molto malato che vive un’altra vita in un sogno in cui si offre come vittima al posto del suo re. Guarisce, il bambino ammalato. La bontà, la generosità e la lealtà hanno sempre una ricompensa.Sono storie con un messaggio facile e chiaro, illustrate con fantasia e pochi tocchi di colore, abbastanza brevi da catturare l’attenzione dei piccoli lettori (o ascoltatori).

    Il libro di Kim Leine è perfetto per questo periodo dell’anno, ambientato in Groenlandia, quel lontano paese dei ghiacci che nella fantasia di ogni bambino è collegato con Babbo Natale e le sue renne.Andreas è così fortunato da vivere nel paese di Babbo Natale e però il suo papà dice di detestare il Natale, di non credere a Babbo Natale. Davanti al dispiacere di Andreas che cerca di convincerlo altrimenti, il papà acconsente a partire con lui, sulla slitta guidata dai cani, alla ricerca di Babbo Natale. Lo troveranno? La storia di Andreas diventa una mini-storia di avventura, con la slitta che vola sul ghiaccio, rumori strani fuori del capanno da caccia, orme sulla neve: è Babbo Natale? Il papà crede altrimenti, ma si guarda bene dal deludere Andreas. La copertina è rigida e resisterà a manine incaute e le illustrazioni sono bellissime: accenderanno la fantasia dei bambini.


età consigliata, dai 3 ai 5 anni
Kim Leine

      

domenica 22 dicembre 2019

Ralf Rothmann, “Il dio di una estate” ed. 2019


                                              Voci da mondi diversi. Area germanica           
                                                      seconda guerra mondiale


Ralf Rothmann, “Il dio di una estate”
Ed. Neri Pozza, trad. R. Cravero, pagg. 222, Euro 17,00

      Sono ancora i primi mesi del 1945, in questo secondo romanzo di Ralf Rothmann, come nel primo (bellissimo) “Morire a primavera”. I protagonisti vivono in quel podere dove Walter, nell’altro romanzo, lavorava come mungitore. Il diciassettenne Walter dagli occhi verdi che- nella storia precedente- era stato arruolato insieme all’amico che poi era morto, mentre lui, Walter, era sopravvissuto per diventare vecchio e avere incubi ricorrenti. Qui Walter è un personaggio marginale, una comparsa importante che fa battere il cuore alla dodicenne Luisa, la ragazzina che è il ‘punto di vista’ de “Il dio di un’estate” (bellissimo come “Morire a primavera”).
      Luisa è sfollata con la mamma e la sorella Sybille in un podere non molto distante da Kiel, città portuale che è stata pesantemente bombardata. Il padre gestisce una mensa per gli ufficiali e continua a lavorare a Kiel e Vinzent, il marito della sorellastra di Luisa e assistente del governatore del Gau locale, ha assunto la proprietà del podere- durante la festa per i suoi quarant’anni (un momento di svolta nella trama) Luisa si accorgerà che c’è una stella di Davide incisa nel legno del mancorrente della scala. E non ci baderà più che tanto. È solo un dettaglio che filtra attraverso la sua consapevolezza di bambina, insieme a tante altre cose che non capisce e di cui nessuno vuole parlarle.
    Come la volta che un aereo inglese fa un atterraggio di fortuna in un campo e solo un ragazzo giovane esce illeso dalla carlinga, Vinzent gli offre una sigaretta e lo sospinge via, Luisa sente un botto- il fattore le dice che è stato il motore della sua auto che si è inceppato. Luisa ha capito, Luisa sa, e più tardi, sempre alla famosa festa, accuserà il cognato di aver sparato al giovane inglese contravvenendo alla convenzione di Ginevra. Come quando vede i lavoratori sparuti che indossano pigiami grigi sull’altra sponda del fiume. O quando lei e il bambino suo amico vengono fermati da soldati armati nel bosco che non vogliono credere che stiano cercando funghi- perché è proibito andare nel bosco’? che cosa c’è da spiare? Come quando l’occhio le cade sui capelli rossi nella stanza dove la mamma del suo amico fa le parrucche per venderle- non sono comuni i capelli rossi, Luisa ha i capelli rossi, sua sorella Sybille aveva splendidi capelli rossi. E Sybille è scomparsa dopo la festa. A Luisa hanno detto che è a Kiel, Luisa è andata a chiedere di lei e non l’ha trovata.

     Sembra che non ci sia una guerra in corso, al podere. C’è da mangiare. Non c’è stato nessun bombardamento. Sta arrivando la primavera. Però Sybille ha fretta di vivere- non vuole negarsi il piacere di indossare della bella biancheria, dei begli abiti, di profumarsi le orecchie, perché fra poco arriveranno i russi e gli americani e gli inglesi e tutto sarà finito. “Fa male quando ti violentano?”, chiede Luisa.
 Questi però sono discorsi disfattisti, se ti sentono possono accusarti di tradimento. E meno male che loro sono protette da Vinzent. Ma, “Vinzent è un porco schifoso”, dirà Luisa alla madre che non vuole sentir parlar male del genero. Proprio come nessuno vuole sentir denigrare il Führer o ascoltare parole di dubbio sulla fantastica arma che assicurerà la Vittoria della Germania.
       C’è solo una patina di quiete nel podere. Se il fuoco cova sotto la cenere nelle dispute famigliari, ci sono anche altri segnali di allarme- i profughi che arrivano e riempiono la casa e perfino le stalle, i cavalli che vengono portati via per essere macellati, perfino la lunga malattia di Luisa è un segnale negativo. Oltre a cose ben più gravi di cui non voglio dire. Come non dirò altro della fine tranne che le parole di Luisa, “Ho già sperimentato tutto”, lasciandoci con quesiti e riflessioni su dove sia il dio di quell’estate.

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mercoledì 18 dicembre 2019

Ljudmila Petruševskaja, “La bambina dell’hotel Metropole” ed. 2019


                                                 Voci da mondi diversi. Russia
            autobiografia

Ljudmila Petruševskaja, “La bambina dell’hotel Metropole”
Ed. Brioschi, trad. Marcucci e Zonghetti, pagg. 268, Euro 18,00

      Se l’hotel Metropole di Mosca potesse parlare…Racconterebbe di tutte le persone che sono passate sotto i lampadari di cristallo dal giorno della sua inaugurazione nel 1905, ad iniziare da Rasputin che vi organizzava i suoi sfrenati festini, fino a quando, via i lampadari, via i mobili pregiati, sostituiti da lampade  a cherosene e panche di legno, basta nobili ospiti, avanti i bolscevichi che ne fecero il loro quartier generale.
     Sono nata nell’albergo Metropole, una specie di seconda Casa dei Soviet con le stanze occupate da vecchi bolscevichi- tra cui mio bisnonno Tato, membro dal 1889 del Partito socialdemocratico russo.
     Inizia così il breve romanzo autobiografico della scrittrice russa Ljudmila Petruševskaja, vincitrice del più importante premio letterario russo, dapprima pubblicata clandestinamente e nota soprattutto ai conoscitori della letteratura russa underground.

Inizia con un piglio incalzante che ti travolge con una folla di personaggi- si resta un poco confusi, se abbiamo dimenticato l’uso russo dei molteplici nomi con patronimico e diminutivo, ma dopo poche pagine riusciamo a mettere tutti a fuoco. Quella di Ljudmila Petruševskaja è una famiglia straordinaria- l’adorato bisnonno Tato, il bolscevico che sosteneva i diritti degli oppressi, faceva il medico in fabbrica ma curava anche tutti i poveracci che si presentavano da lui (e fu licenziato); il nonno Jakovlev era un famoso linguista che incominciò a traslitterare le lingue caucasiche in caratteri latini, osò contraddire Stalin quando questi pubblicò un opuscolo sulla linguistica e finì in un ospedale psichiatrico; la nonna sapeva ripetere a memoria i grandi romanzi russi; la zia aveva frequentato l’Accademia Militare e la mamma aveva studiato dapprima letteratura e poi fu ammessa all’Accademia di Arte Drammatica. Una famiglia così straordinaria non poteva che essere etichettata ‘nemici del popolo’ con tutte le conseguenze del caso.
Samara

     La data che segna la vita della bambina del Metropole come uno spartiacque è il 1941 quando, a causa della guerra, la sua famiglia fu evacuata da Mosca a Kujbishev, ora Samara- un viaggio lunghissimo in treno che la bimba Ljudmila fece in braccio al bisnonno Tato che si era fatto canguro per lei, avvolta nel tepore della sua pelliccia di lupo. E poi, un paio di anni più tardi, la mamma ritornò a Mosca a studiare, lasciando la bambina affidata a sua madre e a sua sorella- il padre di Ljudmila si era volatilizzato da un pezzo, lei lo avrebbe rivisto, fuggevolmente, quando aveva tredici anni.
    È sconvolgente leggere dell’infanzia della scrittrice, della grande fame, con una tessera annonaria che concedeva 300 gr. di pane al giorno (ammesso che ce ne fosse ancora quando arrivava il loro turno), del freddo (la bambina non poteva andare a scuola: restava tutto l’inverno in casa perché non aveva le scarpe. E non aveva neppure le mutandine, faceva un nodo alla maglietta tra le gambe), dei giochi in strada, dei pericoli corsi quando lei, emarginata da tutti, veniva invitata ad andare dietro la staccionata con dei ragazzini che le assicuravano protezione se lei ‘ci stava’, dell’accattonaggio di cui aveva imparato le strategie, di quella insaziabile voglia di libertà che la faceva scappare di continuo da casa, tanto più se veniva rinchiusa.
interno del Metropole
Più tardi la madre, dopo averla riportata a Mosca, non sapendo come gestire una bambina così ‘selvaggia’, l’aveva mandata al campo dei pionieri e poi in un istituto per bambini denutriti. Con tutto questo, con alloggi di fortuna, condividendo una stanza con il nonno, dormendo sotto il tavolo, in qualche modo questa bambina è riuscita a diventare la giovane donna che iniziò a scrivere come giornalista per passare poi al teatro, su cui la censura era meno stretta al tempo della perestrojka, e a pubblicare novelle e romanzi. Straordinario. Una donna straordinaria con una vita straordinaria che è una lezione per tutti noi. Uno stile vivace che trasforma lo squallore e le difficoltà in un’avventura, in una sfida, in una battaglia da cui bisogna uscire vincitori.

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martedì 17 dicembre 2019

Shoham Smith, “Un invito fatale” ed. 2019


                                                                Libri per bambini


Shoham Smith, “Un invito fatale”
Ed. Giuntina, illustrazioni di Einat Tsarfati, trad. Shulim Vogelmann, Euro 15,00

    Non è facile trovare un libro per la prima infanzia che soddisfi i genitori o i nonni che non si accontentano di storie strampalate con personaggi ispirati agli ‘eroi’ del momento, di racconti in un linguaggio approssimativo, di contenuti che trasmettono un messaggio banale (se poi lo trasmettono). Quando lo si trova, è come trovare un tesoro, proprio come avviene per un vero amico.
    “Un invito fatale” è- come dice il sottotitolo- una storia dal Talmud, l’antico commentario alla legge ebraica. Una storia semplice che, soprattutto in questo periodo natalizio ricco di feste ed inviti, qualunque bambino può immaginare.


Un uomo molto ricco darà una festa e ordina al suo servo di andare ad invitare non solo tutti i suoi amici ma anche i suoi conoscenti. Tutti, proprio tutti, perché vuol mostrare a tutti che cosa si può permettere con la sua ricchezza. Ma il servo fa un errore. Il nome di uno degli amici è simile a quello di uno dei nemici dell’uomo ricco ed è a questo che viene fatto l’invito, per sbaglio. Che cosa succederà, quindi, quando il nemico dell’uomo ricco si presenterà al banchetto, sperando in una riconciliazione? Sarà ammesso oppure no? E come si comporteranno gli altri invitati? Che lezione si può trarre dal finale?
     Questo è un libro che si presta magnificamente ad essere letto ad alta voce, prestando tonalità diverse ai vari personaggi- il ricco che si infuria, l’ospite che sperava di non essere più un nemico che si umilia, gli osservatori che commentano (bellissime le due pagine con le nuvolette in cui ogni invitato dice la sua, compresi gli unici due che vorrebbero avere il coraggio di intervenire)-, interrompendosi per fare piccole riflessioni sull’arroganza e la durezza del ricco, sul menefreghismo e la vigliaccheria della massa, facendo osservare al piccolo ascoltatore la meraviglia delle illustrazioni,
le espressioni ‘parlanti’ dei visi delle figure, gli infiniti dettagli della sala della festa (un divertimento cercarli), i colori che aggiungono un significato (il palazzo, tutto soffuso di rosa mentre l’ospite sbagliato sta arrivando, diventa azzurro-blu, come se si spegnessero tutte le luci, quando questo viene mandato via).
    “Basta litigare, non si può andare avanti così!” dice la nonna ai nipotini nella vignetta sul retro copertina. Un invito alla pace con una storia antica che non conosce limiti di tempo.

Età consigliata: dai 3 ai 7 anni

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domenica 15 dicembre 2019

Adriano Sofri, “Il martire fascista” ed. 2019


                                                                   Casa Nostra. Qui Italia
     cento sfumature di giallo
      la Storia nel romanzo

Adriano Sofri, “Il martire fascista”
Ed. Sellerio, pagg.230, Euro 15,00

     Francesco Sottosanti. Morto il 4 ottobre 1930 (inizio dell’anno scolastico) a Verpogliano (oggi Vrhpolje). Ucciso a colpi di fucile. Ne hanno fatto un martire fascista, con tanto di monumento in Piazza Armerina di dove era originario. E forse un martire lo è stato davvero, secondo la ricostruzione degli eventi fatta da Adriano Sofri nel libro appena pubblicato, “Il martire fascista”.
    Francesco era un maestro della scuola elementare e maestra era pure sua moglie, vedova giovanissima con cinque figli e uno in arrivo. Però- e questo è il punto chiave- c’era anche un altro maestro Sottosanti, Ugo, fratello minore di Francesco. E, a quanto pare, erano sue le colpe che avevano suscitato desiderio di vendetta e gli spari. Una punizione esemplare per il maestro che puniva i bambini che si lasciavano sfuggire una parola nella loro lingua (che non era l’italiano) in una maniera che andava al di là delle pene corporali già di per sé criticabili. Sputava in bocca al piccolo ‘colpevole’. Ed era tisico. Non aggiungo altro.
    Il contesto dell’assassinio di Francesco Sottosanti è tutt’altro che facile. Risale ad un tempo e ad una politica di italianizzazione forzata di cui noi, oggi, non possiamo non vergognarci. Nei paesi che ora sono in Slovenia, al di là di quel confine che in anni più recenti divideva Gorizia a metà, la lingua parlata era lo sloveno. Perché queste terre avevano fatto parte del grande impero austro-ungarico fino allo smembramento di questo, alla fine della prima guerra mondiale. È una pagina dolorosa di Storia di cui abbiamo già letto nei libri di Boris Pahor, soprattutto ne “Il rogo nel porto” dove descrive l’incendio della Casa della Cultura Slovena a Trieste per mano dei fascisti nel 1920- un ricordo traumatizzante- e racconta del castigo inflitto dal maestro alla bambina che era stata appesa all’attaccapanni per le trecce, i fiocchi che le legavano come ali di farfalla infilzate da uno spillo.

     L’atteggiamento del governo fascista fu quello tipico dei conquistatori, dei colonizzatori che impongono le loro leggi e la loro cultura con la loro lingua. È questo lo strumento più efficace per destabilizzare i nuovi cittadini, per privarli della loro identità culturale, per impedire che si formino gruppi di rivoltosi (come si può organizzare una rivolta se si è imbavagliati?). Se negli anni ‘60 furono gli operai ad emigrare al Nord trovando lavoro nell’industria automobilistica, negli anni ‘20 del ‘900 furono i maestri a trasmigrare per insegnare nelle scuole del Nord-Est. I maestri del Sud non avrebbero potuto contravvenire all’ordine di parlare solo in italiano con i bambini- non sapevano una parola di sloveno. E i bambini avrebbero imparato a forza la nuova lingua- d’altra parte anche i loro nomi e cognomi erano stati italianizzati.
     Il lavoro di ricerca di Adriano Sofri è accurato e capillare. Ricostruisce i fatti, riporta gli articoli comparsi sulle varie testate, ascolta le testimonianze di chi ha avuto in famiglia qualcuno che ha tramandato oralmente la vicenda del maestro Sottosanti, si reca di persona a Vrhpolje, racconta delle esperienze del tutto diverse di altre maestre per le quali quegli anni di insegnamento in scuolette che raggruppavano cinque classi in una erano stati indimenticabili. Il ricordo lasciato dal maestro Sottosanti è, tuttavia, quello di una brava persona a differenza del fratello Ugo sulla cui vita i documenti riportano dati non sempre chiari e che danno comunque adito a dubbi sulla sua idoneità a svolgere un lavoro da educatore. Ci furono motivazioni personali o politiche nell’assassinio? Ci fu uno scambio di persona?

   C’è poi un’appendice intrigante alla storia del martire fascista. Nella vicenda di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 appare un tal Nino Sottosanti, “Nino il mussoliniano”, il sosia inserito nella trama eversiva per incastrare l’anarchico Valpreda. Era uno dei figli di Francesco, "il martire fascista".
   Un libro-cronaca in stile giornalistico, un frammento di Storia di un tempo in cui c’erano i confini. E le tragedie private create dagli spostamenti dei confini.

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mercoledì 11 dicembre 2019

Graham Greene, “Il treno per Istanbul” ed. 2019


                                       Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                                                              romanzo di avventura


Graham Greene, “Il treno per Istanbul”
Ed. Sellerio, trad. A. Carrera, pagg. 352, Euro 14,00

        L’Orient Express: il solo nome evoca il fascino di terre lontane. Fu un treno famoso che segnò un’epoca, l’Orient Express che, inaugurato nel 1883, collegava Parigi a Costantinopoli, trasbordando, in origine, i passeggeri in battello sul Danubio da Giurgiu in Romania fino alla Bulgaria e poi, ancora in traghetto, da Varna fino a Costantinopoli. Fino a che la linea fu completata nel 1889. Il servizio si interruppe per le due guerre mondiali, la prima volta dal 1914 al 1921. Poco più di un decennio dopo un giovane Graham Greene scrisse “Il treno per Istanbul”, e, sia per Graham Greene sia per Agatha Christie il cui “Assassinio sull’Orient Express” fu pubblicato due anni più tardi, il treno era un microcosmo ideale per ambientarvi un romanzo.
     La ballerina di varietà Coral, l’ebreo Myatt che commercia in uva passa, l’insegnante elementare Richard John (il suo vero nome è un altro ed è in realtà un dottore), la giornalista lesbica Mabel Warren che viaggia con la sua amica Janet Pardoe (una sbevazzona sciatta nell’abbigliamento la prima, una ragazza fin troppo bella la seconda), lo scrittore Q.C. Savory (di umili origini, tronfio per il successo che gli viene da libri di facile lettura: John Priestley si riconobbe nel personaggio e si arrabbiò parecchio), il ladruncolo Grünlich in fuga per aver ucciso un uomo (sale sul treno a Colonia)- sono questi i personaggi del romanzo, ognuno con la sua storia, avvicinati dal caso e dal caso coinvolti loro malgrado in avvenimenti con cui non avrebbero niente a che fare.
Come Coral, trattenuta a Subotica dalla polizia insieme al dottor John che è poi l’attivista politico Czimmer che stava tornando a Belgrado per fomentare una rivoluzione (che è già fallita, l’hanno iniziata prima del previsto), la povera ingenua Coral, che era svenuta per il freddo ed era stata soccorsa dal dottor John alias Czimmer, che aveva accettato di dormire nel vagone letto che le aveva offerto l’ebreo Myatt e poi si era sentita in obbligo di concedersi a lui, si ritrova nel ruolo di eroina accanto ad un uomo mortalmente ferito. Come la giornalista che, in un’impresa che ha anche del ridicolo, arriva a rubare una guida turistica nella valigia di Czimmer per fare il suo scoop mentre adocchia la giovane Coral con l’intento di sostituirla a Janet come ‘compagna’. Come lo scrittore che si lascia adulare da Janet o il ladro assassino che, fermato anche lui a Subotica, riesce a fuggire. Come Myatt che, pur cercando di riportare sul treno Coral, quando non la rivede è pronto a sostituirla con Janet (gli fa comodo, oltre che bella è anche parente della sua controparte in affari a Costantinopoli).


     “Il treno per Istanbul” non è uno dei migliori romanzi di Graham Greene. Si legge con piacere, come tutti i suoi libri, ma procede con una certa lentezza che si accompagna allo sferragliare del treno nella notte, tra la neve, forzato a una sosta per un guasto. C’è poi, però, nello stile di Greene, il tipico elegante humour britannico, condito da qualche stereotipo nel tratteggiare il personaggio della lesbica Mabel e dell’ebreo Myatt.
   Due film sono stati tratti da questo romanzo e noi siamo comunque lieti che ci venga data l’opportunità di rileggere tutti i libri di Graham Greene nelle nuove traduzioni proposte dalla casa editrice Sellerio.



martedì 10 dicembre 2019

Assaf Gavron, “Le diciotto frustate” ed. 2019


                                                    Voci da mondi diversi. Israele
                                                       cento sfumature di giallo
                                                        love story

Assaf Gavron, “Le diciotto frustate”
Ed. Giuntina, trad. Shira Katz, pagg. 270, Euro 18,00

     Tel Aviv. Quattro vecchietti, due donne e due uomini, tra gli ottantacinque e gli ottantotto anni. Tre di questi muoiono, uno dopo l’altro. Gli uomini erano arrivati da poco dall’Inghilterra per incontrare le due donne che erano state il loro grande amore una settantina di anni prima.
     Un narratore di quarantaquattro anni che fa il tassista, è divorziato e ha una bambina che adora.
     L’amico del narratore (che di nome fa Eitan), la giovane nipote di una delle due donne e il nipote di uno degli uomini sono gli altri personaggi di questo romanzo dello scrittore israeliano Assaf Gavron, un libro che è un mix di generi- storia d’amore, thriller con due investigatori dilettanti (Eitan e il suo amico), piccolo romanzo storico per lo squarcio che apre sul periodo del Mandato britannico in Palestina negli anni ‘40 del ‘900. Perché il nocciolo del libro è in quelle diciotto frustate del titolo di cui scopriamo il significato- e le conseguenze- dopo che molto altro è successo. E’ un segreto nascosto nella memoria dei quattro vecchietti, e neppure tutti loro conoscono l’intera verità su quanto accadde in un tempo ormai lontano.

     Lotte Pearl e Rutie Spielberg erano delle ragazzine negli anni del Mandato,  Edward e James avevano un paio di anni più di loro e il fascino della divisa inglese- le due coppie erano sempre insieme, i genitori di Lotte pensavano che la figlia dormisse a casa dell’amica, ma naturalmente non era così. E Lotte doveva essere bellissima se ancora adesso, a ottantacinque anni, colpisce Eitan con la sua prestanza, la prima volta che sale sul suo taxi per farsi portare al cimitero. Per un mese, ogni giorno Eitan porterà Lotte al cimitero sulla tomba di Edward. C’è del tempo per le chiacchiere e per le confidenze, per sapere del grande amore, mai dimenticato anche se la vita li ha divisi, tra lei ed Edward, della felicità dell’essersi ritrovati, della fine di lui. Ma Lotte è convinta che Edward sia stato ucciso e incarica Eitan di trovare il colpevole.
     La piacevolezza della lettura de “Le diciotto frustate” è nello stile dello scrittore che cambia continuamente registro- dalle confidenze intimistiche di Eitan che è affettuosissimo con la sua bambina, forse è ancora innamorato della moglie e trova nel pugilato uno sfogo per la sua insoddisfazione, alle rivelazioni di Lotte sul passato condiviso con i tre amici, sulla nostalgia per quello che poteva essere e non è stato, sui rimorsi di coscienza, su gelosia e tradimenti, e poi ancora- virando decisamente sul colore giallo- la ridda di supposizioni, di sospetti, di sorprese, mentre altre morti si succedono a quella di Eddie. Piuttosto attivi questi vecchietti, non c’è che dire. Ma i colpi di scena si succedono, ogni volta che ci sembra di essere sicuri su chi sia il colpevole, su quali siano state le motivazioni, ecco che cambia tutto e i sospetti (di Eitan e i nostri) puntano in altre direzioni.

      Ci piace che la protagonista di un romanzo, quella che ha vissuto una romantica storia d’amore, sia- una volta tanto- una ottantacinquenne. Ci piace che la sua storia sia (per più di un verso) rispecchiata, al contrario, in quella del tassista per cui è troppo presto rinunciare all’amore. Ci piace il dettaglio storico delle diciotto frustate che sarebbe ridicolo se non fosse oltraggiosamente tragico ed è un capitolo poco noto della Resistenza ebraica. E ci piace, infine, girare in taxi con Eitan per le vie di Tel Aviv, sentire le sue spiegazioni sui nomi delle strade, fermarci a mangiare kebab con lui- sembra essere un esperto di tutti i posti dove si può mangiare kebab a Tel Aviv: prendiamo nota, non si sa mai.

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la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.it
lo scrittore presenterà il libro a Milano alla libreria Verso l'11 dicembre alle 19