mercoledì 30 luglio 2014

Håkan Nesser

                                                       un autore



Håkan Nesser (1950) è uno scrittore svedese di gialli polizieschi. Dopo aver insegnato lettere, si è dedicato interamente alla carriera letteraria. Ha scritto due serie di romanzi con due diversi protagonisti: il commissario Van Veeteren e Gunnar Barbarotti. Quelli con Van Veeteren sono ambientati nell’immaginaria cittadina di Maardam e quelli con Barbarotti nella sempre immaginaria città di Kymlinge. Nel 2000 ha vinto il premio Glasnyckeln con “Carambole”, giudicato il miglior poliziesco scandinavo.
In Italia i suoi libri sono pubblicati dalla casa editrice Guanda. L’ultimo, appena uscito, è “La squartatrice di Lilla Burma”.

Troverete sul blog, a poco a poco, le recensioni dei romanzi precedenti.


Håkan Nesser, “Confessioni di una squartatrice” ed.2014

                                                        cento sfumature di giallo
vento del Nord
fresco di lettura



Håkan Nesser, “Confessioni di una squartatrice”
Ed. Guanda, trad. Carmen Giorgetti Cima, pagg. 361, Euro 18,00
Titolo originale: Styckerskan från Lilla Burma

E’ l’unica assassina squartatrice che abbia mai incontrato. Non sa esattamente come se l’era aspettata, ma di certo non così. Cosa serve per fare a pezzi un essere umano? Tenere sottocontrollo il panico per qualche oraoltre a una buona manualità? Ellen Bjarnebo aveva lavorato da Köttman. Nelle relazioni che ha letto, lo squartamento di Harry Helgesson viene descritto come “professionale” e “appropriato”.

Maggio 2012. E’ morta da poco Marianne, la moglie dell’ispettore Gunnar Barbarotti.
2007. Un uomo, Arnold Morinder, scompare. Il suo motorino viene ritrovato abbandonato in una palude. Di lui, nessuna traccia.
1989. I resti di Harry Helgesson sono scoperti per caso in un bosco: il suo corpo è stato smembrato e cacciato a pezzi in sacchi di plastica neri. Sua moglie Ellen Bjarnebo si dichiara colpevole ed è condannata a undici anni di reclusione.
   Tre morti disseminate nel tempo, tre persone che erano moglie, marito, madre, padre. Come si vive la morte della persona con cui si ha condiviso la vita? Come erano, da vive, queste persone? Come le ha colte la morte? Che cosa sopravviverà di loro, ora che non ci sono più? Paiono riflessioni strane da fare, leggendo un libro di indagine poliziesca- oppure no, perché si indaga soprattutto sulla Morte nel bel nuovo romanzo dello svedese Håkan Nesser, “Confessioni di una squartatrice”, come già in un altro romanzo memorabile, “L’ultima indagine” di Leif Persson. C’è un primo livello di lettura, dunque, il ‘cold case’ che viene affidato a Barbarotti, ed un secondo livello più profondo che non ha confini temporali, un’indagine che non cade mai in prescrizione.  

   Gunnar Barbarotti è annientato, letteralmente annientato, dalla scomparsa di Marianne. E’ per questo che il commissario Asunander gli affida un caso vecchio di cinque anni, una sorta di indagine terapeutica, per tenerlo occupato, mentre la collega Eva Backman ha per le mani un caso molto ‘hot’, la morte di un esponente del partito Democratico: un assassinio politico? un semplice caso di avvelenamento da cibi? E comunque, alla fine, anche questa morte offrirà uno spunto di riflessione sulla casualità della Morte, sull’ironia beffarda che si cela nella morte di alcuni.
Barbarotti sembra incapace di reagire, di interessarsi ad alcunché. Poi, a poco a poco, si lascia coinvolgere: Ellen Bjarnebo, che era rimasta impressa nella mente di tutti come “la squartatrice di Lilla Burma”, aveva sposato Arnold Moringer dopo essere uscita di prigione. Aveva un figlio, che aveva dodici anni nel 1989 e che era stato affidato agli zii materni dopo la condanna della madre. All’epoca dei fatti quasi non parlava, aveva rivisto la madre solo un paio di volte, ora era sposato e sembrava condurre una vita normale. C’è tutta una serie di domande a cui Gunnar Barbarotti si sforza di trovare una risposta, da quella che più ha a che fare con il suo lavoro,- che fine ha fatto Arnold Morinder?-, lo ha ucciso la moglie che, però, questa volta, non ha confessato proprio nulla? Il pregiudizio vuole che una volta squartatrice, sempre squartatrice…E poi, che cosa è successo veramente nel 1989, nella piccola tenuta di Lilla Burma? A Barbarotti non dovrebbe interessare, quello è un caso chiuso, ma l’incertezza affiora, soprattutto dopo aver incontrato Ellen, una donna non più giovane, di grande dignità, che passa lunghi periodi presso un’amica in Lapponia.
    Il tempo della narrazione si sposta avanti e indietro, i capitoli si alternano, quelli in cui Barbarotti è protagonista e quelli in cui la scena è Lilla Burma e la vita d’inferno che Harry Helgesson faceva condurre alla moglie e al figlio. Siamo pronti alla sua morte, ci sembra un giusto anticipo della pena eterna, pensiamo di aver capito di più di quello che ha capito la polizia. Il contrasto tra l’amabile Barbarotti che ha veramente amato Marianne e il brutale Harry che picchia moglie e figlio, o tra Barbarotti che interroga con rispetto e comprensione ‘la squartatrice di Lilla Burma’ e il suo cinico secondo marito, ci fa pensare agli ‘uomini che odiano le donne’ della trilogia di Stieg Larsson e a quanto sia difficile affidarsi solo alla giustizia. Anzi, quando il finale verrà svelato, dovremo convenire che la giustizia umana è spesso fallibile e sospendere il nostro, di giudizio- come fa Barbarotti.
     L’appuntamento con  Håkan Nesser è di quelli da non perdere- non ci delude mai. I suoi libri non sono ‘gialli’, sono dei ‘romanzi con delitto’ in cui si indaga sulla vita e sulla morte, su come si dovrebbe vivere pensando alla fine ineluttabile.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it



   

martedì 29 luglio 2014

Elizabeth von Arnim, "La moglie del pastore" ed. 2004

                                                               il libro ritrovato


Elizabeth von Arnim, “La moglie del pastore”
 Ed. Bollati Boringhieri, trad. Simona Garavelli, pagg.436, Euro 20,00


Incantevole Ingeborg: ci affascina la protagonista di “La moglie del pastore”, il romanzo scritto nel 1914 dalla scrittrice australiana Elizabeth von Arnim, cugina di Katherine Mansfield, sposata in prime nozze al conte von Arnim, figlio adottivo di Cosima Wagner, e, dopo, con il fratello di Bertrand Russell. Un nome nordico, Ingeborg, in onore della nonna materna, una svedese che aveva sposato un turista inglese, un nome dal suono un po’ duro e insieme cristallino, evocatore di cieli limpidi e aria chiara. Ed è così che ci appare la ventiduenne Ingeborg che cammina per le strade di Londra dopo una visita dal dentista, incantata da tutto quello che vede,  incredibilmente leggera per trovarsi lontana dalla sua opprimente famiglia. Una vetrina di un’agenzia che propone un viaggio a Lucerna, un colpo di testa, una decisione immediata, e Ingeborg si trova sul treno verso la Svizzera, seduta di fronte ad un gentiluomo tedesco che finirà per chiederle di sposarlo.
Un tono di leggera ironia, come un umorismo inconsapevole, percorre la descrizione del corteggiamento, con il prussiano Herr Dremmel che non ha il minimo dubbio di venire accettato e Ingeborg che non osa tirarsi indietro, davanti alla torta ordinata per il fidanzamento. Lui è un pastore della chiesa luterana, massiccio, con capelli grigi che assomigliano alla pelliccia di un castoro, un solo interesse nella vita: l’agricoltura e lo studio dei fertilizzanti. Lei è esile, con occhi chiari e capelli fini che prendono fuoco nel sole, promette una bellezza che non ha ancora, ha vissuto rinchiusa in casa, agli ordini del padre vescovo. Quando Ingeborg pensa al matrimonio, pensa a sua madre, eterna malata immaginaria per sfuggire alle richieste del marito; Herr Dremmel le dice che l’uomo ama prima del matrimonio, la donna dopo. Forse Herr Dremmel è meglio di quel padre inflessibile che non le perdona l’aver anche solo pensato al matrimonio e che non vorrà mai più rivederla quando lei parte per la Prussia. Inizia così la seconda fase della vita di Ingeborg, in cui lei, abituata all’arrendevolezza, si piega, si adatta: è una figura di luce, lieve e canterina, che non si lascia scoraggiare né dall’ossessione agricola del marito, né dall’incomunicabilità linguistica, né dalla diffidenza astiosa di suocera e vicini. Dopo sei figli in sette anni, Ingeborg capisce la madre e riacquista una sorta di verginità che dà ali alla sua mente. Ed ecco la fase conclusiva, con l’apparire sulla scena del famoso pittore, l’uomo che vede la bellezza che è fiorita senza che il marito se ne sia accorto e che convince Ingeborg a seguirlo in Italia. Ancora una volta la sottigliezza psicologica e l’umorismo sottile della scrittrice sono straordinari nel sottolineare le differenze, tra il pittore che cerca di sedurla e la deliziosamente e maliziosamente ingenua Ingeborg, che non capisce (o finge di non capire) le sue avances ed è estasiata dalla bellezza della terra “wo die Citronen blumen”. Ritornerà a casa, la dolce Ingeborg, piena di sensi di colpa ingiustificati, ed è come se non si fosse mai allontanata: il marito alza a mala pena la testa dal suo scrittoio e lei si riprende la lettera di commiato che gli aveva scritto in un impulso di sincerità e che lui non ha neppure letto. Meriterebbe di più, Ingeborg, di questo marito distratto, della solitudine in cui verrà di nuovo rinchiusa. O forse questa è la dignità del destino che ha scelto. O che è stato foggiato per lei dall’educazione ricevuta.

la recensione è stata pubblicata sulla rivista Stilos

Elizabeth von Arnim

                                                                                                                  

domenica 27 luglio 2014

Peter Fröberg Idling

                                                            un autore


                                                                vento del Nord
                                                                Voci da mondi diversi. Asia


Peter Fröberg Idling (1972) è uno scrittore svedese che ha intrapreso la carriera letteraria dopo essersi laureato in legge. Il libro che gli ha dato la fama è “Il sorriso di Pol Pot” che è stato tradotto in varie lingue ed è stato indicato come ‘libro dell’anno’ in Svezia nel 2007. Nel 2012 ha scritto “Canto della tempesta che verrà”, appena pubblicato dalla casa editrice Iperborea.

Peter Fröberg Idling, "Canto della tempesta che verrà" ed. 2014

                                              vento del Nord
   Voci da mondi diversi. Asia
   la Storia nel romanzo
   fresco di lettura


Peter Fröberg Idling, “Canto della tempesta che verrà”
Ed. Iperborea, trad. Laura Cangemi, pagg. 278. Euro 17,50

Titolo originale: Sång till den storm son ska komma

     Probabilmente chi ti conosce dalla Francia si chiederà perché a Parigi frequentavi solo rivoluzionari mentre qui hai aderito ai democratici, perché sembri avere totalmente cambiato il tuo giro di amicizie. D’altra parte non c’è peggior radicale di uno studente e tu hai ormai superato la terntina. E poi quello a cui fai il portabores è il tuo vecchio mentore Vannzak, passato a sua volta dal rosso al rosa.



    Cambogia, tra agosto e settembre 1955. “Una fantasia”, dice una sorta di sottotitolo introduttivo alle tre parti in cui è diviso il libro di Peter Fröberg Idling. Perché lo scrittore svedese ‘immagina’- sulla base di alcune testimonianze- il retroscena delle prime elezioni democratiche indette in Cambogia dopo l’indipendenza ottenuta nel 1953. Ed è un titolo quanto mai appropriato, “Canto della tempesta che verrà”, perché scrivere di un passato remoto, e di un breve periodo di questo passato, significa scrivere conoscendo quello che il futuro ha in serbo, essere in grado di percepire le avvisaglie, individuare dei segnali, interpretare la direzione del vento. Il futuro di vent’anni più tardi avrebbe visto uno dei tre personaggi diventare protagonista assoluto della Storia, cambiando nome per se stesso- da Saloth Sar in Pol Pot- e per il paese di cui era diventato Primo Ministro- Kampuchea Democratica invece di Cambogia. Un Primo Ministro dittatore responsabile della tortura e del massacro di più di un milione e mezzo di persone: un terzo della popolazione cambogiana perse la vita tra il 1975 e il 1979.

Saloth Sar
    Nel 1955, però, Sar è ritornato da poco da Parigi, dove ha studiato grazie ad una borsa di studio, ed osteggia le prossime elezioni che- lo sanno tutti- non saranno affatto democratiche e vedranno riconfermato il re al potere. Quando è partito per la Francia Sar era fidanzato con Somaly, la bellissima principessa (di un ramo secondario della casa reale) che ha vinto da poco il titolo di Miss Cambogia. E’ ancora fidanzato con lei? Che cosa è cambiato nei loro rapporti? E’ solo l’impegno politico, il marxismo che gli hanno fatto conoscere gli amici francesi in serate di discussioni tra bicchieri vuoti e fumo di sigarette, che gliela fa sentire lontana? Somaly non si fa viva, lui conta i giorni dall’ultima volta che l’ha vista. Circolano voci che la sua Somaly si incontri con Sary, vice primo ministro del principe Sihanouk.
Sam Sary
     Sary e Somaly sono gli altri due protagonisti del romanzo di Fröberg Idling che non è, ci tengo a precisarlo, un romanzo d’amore. Parla anche d’amore, di un amore tempestoso, un sentimento che fa parte della vita quotidiana ma viene messo a tacere nell’impossibilità di dargli spazio perché altre sono le priorità. Almeno, così è  per Sar, se non per Somaly- ultimo personaggio a cui è riservata una parte, la bella ragazza che non si sottrae al corteggiamento di Sary pur sapendo di essere una sua ennesima conquista, un ennesimo tradimento di Sary (protagonista della seconda parte del libro) nei confronti della donna che ha sposato e che gli ha dato cinque figli. A poco a poco quella che balza alla ribalta è la lotta tra i due partiti, quello Democratico che, davanti ad una possibile sconfitta, finisce per scrollarsi di dosso ogni parvenza di democrazia e si impone con la forza, e quello dell’opposizione che vagheggia l’uguaglianza di una nuova utopia comunista. Mentre Somaly pensa ai vestiti, si incontra con le amiche, ricorda se stessa sedicenne incantata da Sar, si reca agli appuntamenti con Sary, Sary e Sar- seppur distratti dall’immagine di Miss Cambogia, seppur tormentati dalla gelosia (Sar), o disturbati dal senso di colpa per trascurare moglie e figli (Sary)- sono concentrati sulle elezioni imminenti che devono confermare la vittoria del sovrano. A prezzo della vita di chiunque abbia l’ardire di mettersi in mezzo. E’ questa violenza, che anticipa di un ventennio quella di Pol Pot, che rende inquietante l’atmosfera del romanzo, mentre la rivalità in amore fra due uomini sottintende la rivalità politica e il ruolo di Somaly pare quello della Elena omerica. Con una cortina di pioggia che offusca quanto sta succedendo.
     Lo stile narrativo di Peter Fröberg Idling è asciutto e brusco come quello del suo libro precedente, “Il sorriso di Pol Pot”, e c’è un espediente che differenzia, mettendola in risalto, la prima parte, in cui Sar è protagonista. Peter Fröberg Idling usa la seconda persona per tracciare il quadro del futuro Pol Pot, per entrare nella sua mente e farlo muovere sulla scena, quasi per sottolineare una maggiore conoscenza dell’uomo, o fungere da voce fuori campo del destino in attesa.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it 





sabato 26 luglio 2014

Qiu Xialong, "Cyber China" ed. 2014

                                              cento sfumature di giallo

Voci da mondi diversi. Cina
 fresco di lettura

Qiu Xiaolong, “Cyber China”
Ed. Marsilio, trad. F. Zucchella, pagg. 315, Euro 18,00
Titolo originale: Cyber China 

   “Lei mi fa proprio sentire spregevole” disse con voce tremante. “Io sono qui che cerco di fare la donna sofisticata e di mondo, cerco di realizzare il mio sogno shanghaiese, di cogliere l’attimo, mi lascio trasportare dalla corrente e di nascosto faccio il mio atto dimostrativo, ma poi tutto finisce lì. Mentre lei invece mette in gioco la sua carriera…” Si interruppe per asciugarsi gli occhi con il dorso della mano.

   E’ tornato Chen Cao, l’ispettore poeta di Shanghai creato dalla penna di Qiu Xiaolong, e siamo preoccupati per lui. Mentre Qiu Xiaolong sembra proseguire un intento di sempre maggiore impegno politico nei suoi romanzi, come già abbiamo visto nel precedente “Le lacrime del lago Tai”, il suo personaggio viene a trovarsi in situazioni sempre più difficili, deve occuparsi di casi scomodi per il Partito in cui gli si presenta il dilemma se debba obbedire alla sua etica personale, andare fino in fondo e scoprire la verità, oppure raccogliere gli accenni più o meno velati all’opportunità di insabbiare il caso, di accettare una soluzione imposta e di comodo, a protezione di qualcuno che sta ai vertici del potere o dell’economia. E allora, siccome Chen Cao è Chen Cao, sappiamo bene quale sarà la sua scelta e tremiamo per il suo futuro.
    “Cyber China” si apre con un apparente suicidio. Zhou, un imprenditore immobiliare di successo, viene trovato morto nel lussuoso albergo Moller dove era stato recluso soggetto a shuanggui, il processo disciplinare interno applicato dal Partito a membri sospetti di corruzione.
lo stravagante Hotel Moller di Shanghai
Il caso era stato scatenato su internet con la pubblicazione di una foto in cui Zhou appariva con un pacchetto di costosissime sigarette in mano. Lo sapeva chiunque: il prezzo di quelle sigarette era proibitivo, chi le fumava doveva per forza avere degli introiti illeciti. E tuttavia l’umore di Zhou, la sera della sua morte, non pareva proprio quello di un uomo che ha deciso di porre fine alla sua vita, aveva apprezzato molto la cena e aveva perfino detto che avrebbe chiesto lo stesso piatto da lì a qualche giorno. Perché si vuol far passare per suicidio un possibile omicidio? C’è poi un’altra morte sospetta: il collega di Chen, che sta indagando sul caso, viene investito da un suv, nei pressi della redazione di un giornale. Un incidente? Ci sono testimoni che sostengono che l’auto era stata parcheggiata a lungo e che era poi partita a grande velocità, travolgendo il povero Wei che, peraltro, non era in divisa- difficile provare che era in servizio e far avere una qualche indennità alla moglie. Ci penserà Chen, un dettaglio che, insieme all’affettuoso comportamento nei confronti della madre e ad altri suoi interventi per aiutare chi non può usufruire di alcun privilegio, ce lo fa amare. E’ un poco invecchiato, Chen, come è giusto che sia. E’ solo e anche noi lettori- come sua madre e i suoi migliori amici- vorremmo vederlo accasato e ci fa piacere che mostri interesse per la giornalista Lianping. Lei, però, ha già un fidanzato- come andrà a finire? Preferirà un uomo ricco o sceglierà Chen con cui ha anche affinità politiche, come mostra aiutandolo durante le indagini? Perché Chen si trova spaesato nella nuova Cina, la lotta per il successo e la ricchezza, che si accompagnano alla corruzione, non fa per lui. All’inizio del romanzo assiste ad una conferenza su “l’enigma cinese” e alla fine pensa al quadro di Dalì, “l’enigma di Hitler”, con un albero afflosciato, la foto di Hitler su un piatto vuoto, un telefono rotto con una lacrima che forse simboleggia il controllo ideologico della gente. “Qui, oggi, noi potremmo semplicemente mettere internet al posto del telefono, e la foto di Mao al posto di quella di Hitler”.
Nel quadro c’è anche una figura indistinta, dietro un ombrello. “Potrei essere io, o lei”, dice Chen a Lianping. “Non riesci mai a vederti chiaramente nel quadro”. C’è tutta la tristezza consapevole di Chen in queste parole, di un uomo che sa di far parte del suo tempo, qualunque esso sia, anche se gli pare impossibile. Contro la gigantesca corruzione dilagante che è sul fondo del quadro che rappresenta la Cina odierna c’è tuttavia un movimento serpeggiante di protesta che si diffonde su internet e che il governo non riesce né a controllare né a mettere a tacere, a differenza degli organi di comunicazione tradizionali.
    Poesie e buona cucina cinese, ricordi del passato che affogano in un presente che ha travolto quel passato e che fa sembrare inutile tutto quello che è successo, uno sforzo tenace per capire la nuova realtà, frantumandola e analizzandola sotto la forma del romanzo di indagine poliziesca: non è poi forse tutto un paese che è messo sotto indagine nei libri sempre molto piacevoli di Qiu Xiaolong?

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it

Qiu Xiaolong

   
   

    

venerdì 25 luglio 2014

Qiu Xiaolong, "Le lacrime del lago Tai" ed. 2013

                                                        Voci da mondi diversi. Cina
                                                         cento sfumature di giallo
  il libro ritrovato


Qiu Xiaolong, “Le lacrime del lago Tai”
Ed. Marsilio, trad. Fabio Zucchella, pagg. 330, Euro 18,00
Titolo originale: Don’t Cry, Tai Lake


“Perché la gente è capace di fare qualunque cosa per denaro? Una parziale risposta potrebbe essere il crollo del sistema etico. Il popolo cinese credeva al confucianesimo, poi al maoismo, ma adesso? I nostri giornali sono pieni degli ‘onori e disonori’ di questa nuova era materialistica. Ma chi ci crede più?”

        Sono andata a cercare il Lago Tai su Internet.  Pensavo che il lago del romanzo di Qiu Xiaolong fosse reale ma con un nome fittizio, e invece, eccolo lì: “un grande lago nella pianura del delta dello Yangtze, sul confine tra le provincie Jiangsu e Zhejiang nella Cina orientale.” Il terzo per ampiezza tra i laghi cinesi. Ma c’è dell’altro.  Il luogo descritto ne “Le lacrime del lago Tai” esiste con questo nome e le fotografie illustrative sono la peggiore conferma della pesante accusa contenuta nel romanzo di Xiaolong: una poltiglia di un verde accecante ricopre la superficie del lago e non c’è nulla di poetico in questa immagine. Dopo aver letto “Le lacrime del lago Tai” non possiamo illuderci neppure per un attimo che quella che vediamo sia una crescita rigogliosa di alghe. Sono alghe melmose dovute all’inquinamento: le fabbriche che sono sorte lungo le coste scaricano le acque reflue nel lago. Gli impianti di depurazione ci sono, ma non vengono fatti funzionare per diminuire i costi e aumentare il guadagno, in una corsa verso una ricchezza neppure lontanamente immaginabile ai tempi di Mao.  Eppure la cosa è risaputa. Chi abita nelle vicinanze sa bene che ci sono morie di pesci e che sarebbe meglio non mangiare le tre specialità bianche per cui il lago una volta era famoso. Qualcosa però si deve mangiare, giusto? Di qualcosa si muore sempre, se poi  aumentano i casi di tumore...non era forse peggio durante la rivoluzione culturale o comunque all’epoca del Grande Timoniere? La gente comune si cuce la bocca, gli ambientalisti che lanciano allarmi vengono messi a tacere.

    “Le lacrime del lago Tai” è un libro coraggioso, di certo il più ‘impegnato’ tra i romanzi seriali di Xiaolong che hanno il commissario capo Chen come protagonista- personaggio singolare che si è laureato in letteratura inglese ed è finito in polizia, che traduce libri polizieschi e scrive poesie, che ha sempre pronta una citazione di versi adeguata (perfin troppo spesso, a dire il vero). Per portare Chen sulle sponde del lago Tai,  Xiaolong gli fa accettare una vacanza insperata in uno splendido Centro per alti Quadri a Wuksi, e chissà che il compagno Zhao di Pechino non abbia fatto apposta, a mandarlo al suo posto, per avere informazioni di prima mano. Chen è arrivato da poco, ha incontrato una ragazza deliziosa che è incaricata di rilevare il grado di inquinamento (per quello che può servire e con l’opposizione che incontra) e che gli apre gli occhi su quello che sta succedendo (altro che bere il té speciale, dal sapore unico, fatto con l’acqua del lago!), quando il dirigente di una delle fabbriche viene ucciso. E sarà impossibile per Chen restare fuori dalle indagini, anche se è in vacanza. Può essere stato un noto ambientalista ad ucciderlo? Si sa che i due avevano litigato. Però si avvicinava la data della privatizzazione della fabbrica- chi poteva essere avvantaggiato dalla morte di Liu? E la moglie, era forse gelosa del legame che il marito aveva con la piccola segretaria (designazione eufemistica per l’amante)? E la ragazza deliziosa di cui Chen si è innamorato- perché è sorvegliata dalla Sicurezza Interna?
     Quando un romanzo del genere poliziesco tratta un argomento così importante e scottante come è quello dello scempio compiuto dall’uomo ai danni della natura, con conseguenze nefaste sulla salute sia di chi vive nel presente sia sulle generazioni che seguiranno, lo svolgimento dell’indagine per scoprire l’identità dell’assassino ha poca importanza, ci sono assassini peggiori e non perseguiti dalla giustizia, colpevoli di crimini di una portata ben più vasta. Con l’occhio puntato sulle acque verdi del lago Tai, lo scrittore Xiaolong traccia anche le linee di un quadro più vasto, la ricerca non è solo di chi abbia ucciso Liu ma anche delle cause della trasformazione radicale della società cinese. L’improvvisa disponibilità di beni di consumo ha portato ad una sfrenata avidità, al desiderio di arricchirsi ad ogni costo per ‘possedere’ beni materiali. Le massime di Confucio che l’ispettore Chen ama citare non dicono più niente a nessuno, e non c’è mai stata una religione in Cina a cui aggrapparsi per dei valori etici.
E tuttavia, se si pensa che il romanzo “Le lacrime del lago Tai” riguardi solo la Cina, ci si sbaglia. Non fingiamo di scandalizzarci, guardiamoci intorno e vediamo le lacrime dei nostri fiumi, dei nostri mari, dei laghi e delle terre.
   

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giovedì 24 luglio 2014

Qiu Xiaolong, "La ragazza che danzava per Mao" ed. 2012

                                                        Voci da mondi diversi. Cina
                                                         cento sfumature di giallo
   il libro ritrovato


Qiu Xiaolong, “La ragazza che danzava per Mao”
Ed. Marsilio, trad. Fabio Zucchella, pagg. 363, Euro 18,00
Titolo originale: The Mao Case


Data l’età, forse Vecchio Cacciatore poteva sapere molte più cose di Chen sulla Rivoluzione Culturale, periodo in cui lui ancora era alle scuole elementari. Per questa indagine, pensò Chen, sarebbe stato meglio sondare il vecchio. Su Mao, la gente aveva opinioni diverse. In questo periodo di corruzione sempre più sfrenata, in cui il divario tra i ricchi e i poveri si allargava a dismisura, qualcuno cominciava ad avere nostalgia di Mao, pensando che sotto di lui le cose sarebbero state migliori. La società utopica ed egalitaria propugnata da Mao affascinava ancora molte persone.

      Qiu Xiaolong, lo scrittore cinese che ha creato il personaggio dell’ispettore poeta Chen Cao, ritorna alla grande, con un nuovo romanzo, “La donna che danzava per Mao”. Alla grande perché è proprio il Presidente Mao, il Grande Timoniere, il protagonista del libro. O, se non lui in persona, il suo fantasma o spirito che dir si voglia, ancora presente nella Cina di oggi che ha invertito rotta. Dopotutto, il suo ritratto non giganteggia ancora in piazza Tienanmen, all’ingresso della Città Proibita? Non ci sono ogni giorno code di persone che attendono di entrare nel mausoleo dove il suo corpo è chiuso in una bara di cristallo? C’è una nostalgia di Mao che serpeggia nascosta  nella nuova Cina, un leggero rimpianto per un tempo in cui tutti erano, o almeno sembravano, uguali. Anche se il prezzo pagato per quell’uguaglianza era stato altissimo.  

     Quello di cui dovrà occuparsi l’ispettore Chen è decisamente un ‘caso Mao’. Delicatissimo e segreto, dunque. La singolarità del romanzo è nell’assenza di morti su cui indagare, almeno all’inizio. Quando ci saranno, saranno quasi degli incidenti di percorso a cui non viene data molta importanza. Un morto in più o in meno non è di rilievo, quando si tratta degli interessi di Mao. Chen viene contattato direttamente dal Ministero della Sicurezza: una bella ragazza, Jiao, sembra avere all’improvviso delle disponibilità economiche di gran lunga superiori a quelle che il suo lavoro potrebbe concederle. La ragazza non è un’illustre sconosciuta. Appartiene ad una famiglia ‘nera’ in cui le donne hanno avuto una tragica fine: Shang, la nonna di Jiao, era stata una famosa attrice. Era molto bella, era stata notata anche da Mao. Shang aveva ‘danzato per Mao’, una poetica perifrasi cinese per lasciar intendere dell’altro. Il che aveva fatto ingelosire alla follia Madame Mao. Shang era morta suicida. O era stata assassinata? Qian, la madre di Jiao, aveva cercato di fuggire a Hong Kong con il giovane amante, erano stati presi e riportati a Shanghai, dopo di che il ragazzo si era ucciso. Qian era stata lasciata in vita perché incinta, era morta in un incidente alla fine della Rivoluzione Culturale. E la piccola Jiao era cresciuta in un orfanotrofio. Dove trovava adesso i soldi per il lussuoso appartamento, per gli abiti, per le lezioni di pittura da Xie, uno degli ultimi proprietari di una delle vecchie case di pregio di Shanghai, molto ambita da immobiliaristi che vorrebbero acquistarla per poi demolirla ed erigere un vertiginoso edificio al suo posto? Si teme che Jiao sia in possesso di qualcosa appartenuto a Mao, qualcosa magari di indiscreto, qualcosa che potrebbe danneggiarne l’immagine pubblica. Oppure qualcosa di prezioso che non dovrebbe essere messo sul mercato dell’antiquariato folkloristico che ruota intorno a Mao.

     Il romanzo di Xiaolong prende una piega inedita, a questo punto, perché ci rivela il Mao meno noto, il Mao donnaiolo che abbandonava una moglie nella città assediata dai nazionalisti, pur sapendo che fine questi le avrebbero fatto fare, e intanto diventava bigamo sposandone un’altra, il Mao che condannava il ballo come divertimento borghese e però amava danzare, il Mao che scriveva poesie- e più di una veramente pregevoli. Xiaolong non intende certo esaltare Mao nel romanzo. Il suo raffinato ispettore Chen, con una laurea in letteratura, gode del lato artistico dell’indagine anche se non dimentica mai i milioni di vittime della Rivoluzione Culturale, la rieducazione forzata, le violenze e gli abusi, tutti fatti in nome dell’utopia maoista.

    La soluzione del caso ha qualcosa di incredibile e di grottesco. E’ la dimostrazione del punto a cui si può arrivare con il culto della personalità. In Cina, ma non solo. Nel passato e nel presente.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


martedì 22 luglio 2014

Qiu Xiaolong, "Di seta e di sangue" ed. 2011

                                                       Voci da mondi diversi. Cina
   cento sfumature di giallo
   il libro ritrovato


Qiu Xiaolong, “Di seta e di sangue”
Ed. Marsilio, trad. Fabio Zucchella, pagg. 392, Euro 18,50
Titolo originale: Red Mandarin Dress


    “Dopo Jasmine, una era una ragazza-commensale, l’altra una ragazza-cantante. A rigor di logica, la successiva dovrebbe essere una ragazza-ballerina. Le persone sono tutte creature abitudinarie” disse Hong. “Quindi individua le sue vittime frequentando quel genere di locali. Sono obiettivi facili, come avete appena detto. Ma, cosa più importante, si tratta di una persona incline ai simbolismi. Il qipao rosso potrebbe essere una componente. Quindi, secondo il suo complicato schema, con tutta probabilità sceglierà come prossima vittima una ragazza-ballerina.”

     Nessuno in Cina ama parlare della Rivoluzione Culturale della metà degli anni ‘60. Nessuno vuole ricordare. A maggior ragione dopo che nel 1980 Deng Xiaoping definì la Rivoluzione Culturale un errore in buona fede commesso da Mao. E tutte le atrocità commesse, le vite spezzate, gli sradicamenti, le morti? ‘danni collaterali’, direbbero gli americani. Eppure, proprio perché nessuno ne parla, i danni causati mezzo secolo fa continuano a suppurare, come una ferita aperta. Nel nuovo romanzo dello scrittore cinese Qiu Xiaolong è qualcosa avvenuto in quegli anni di fanatismo sfrenato che spiegherà i delitti ‘del qipao rosso’- il primo indizio sarà proprio nella stranezza del tessuto di seta rossa del qipao (l’elegante abito della tradizione mandarina) indossato dalle donne assassinate e ritrovate, una dopo l’altra, puntualmente, una settimana  dopo l’altra, abbandonate in strada. Così come del fatto che le spaccature laterali del vestito siano stracciate, i bottoncini slacciati, che le donne non indossino biancheria intima e abbiano i piedi nudi. E tuttavia non hanno subito violenza. Un serial killer a Shanghai?
La polizia non si è mai trovata davanti a casi di delitti commessi da un omicida seriale, quelle sono cose che accadono in un paese decadente e capitalista come l’America. Vero è che ormai anche la Cina del 2000 è un paese capitalista. Ne è la prova il processo in corso contro il Riccone Numero Uno di Shanghai, un ex venditore ambulante che si è arricchito con le speculazioni immobiliari. Aveva appoggi al governo, naturalmente- il caso scotta, anche i servizi segreti sono all’opera. E l’ispettore capo Chen Cao (il poliziotto poeta che è il protagonista dei romanzi di Xiaolong) riceve l’incarico di informarsi sul Riccone, nonché, subito dopo, di indagare sulla prima donna uccisa con indosso il qipao: una brava ragazza che si prendeva cura del padre ammalato. Una famiglia disgraziata, quella di Jasmine, colpita da una serie di sventure: avevano un karma negativo? Suo padre aveva fatto parte della Squadra di Propaganda del Pensiero di Mao…
      Il personaggio di Chen Cao è quello che, al di là dell’ambientazione ricca di dettagli (attenzione alla ricette per una cena ‘crudele’!), rende diversi i romanzi polizieschi di Xiaolong. Tra la folla dei suoi ‘colleghi’ che vivono nelle pagine dei libri, Chen Cao si distingue per quello che è e per il suo passato. Chen Cao ha studiato letteratura inglese all’università- è finito a fare il poliziotto perché la scelta personale di un lavoro non era possibile nella Cina in cui è cresciuto (come non era possibile avere relazioni amorose, e neppure innamorarsi o parlare di matrimonio d’amore- lo apprendiamo nel corso del romanzo). Chen Cao ha scritto poesie ed è in grado di citare a memoria versi di poesie, oltre a detti confuciani imparati da suo padre (citazioni un po’ troppo frequenti, a dire il vero). Sta seguendo un secondo corso di laurea, in letteratura cinese, e il suo approccio al romanzo cinese classico, che ribalta l’interpretazione romantica della figura femminile trasformandola da vittima d’amore in femme fatale- da positiva in negativa- gli servirà anche per arrivare alla soluzione del caso. Poeta, un poco filosofo, comprensivo perché sa che quello che è accaduto ad altri sarebbe potuto succedere a lui, Chen Cao è- come gli viene detto da qualcuno- un poliziotto insolito, perché ‘sa che le storie non sono semplicemente bianche e nere.’ ‘Non se ne vada dalla polizia’, gli dice un personaggio: c’è più bisogno di bravi poliziotti che di studiosi?
Come negli altri suoi romanzi, sotto forma di intrattenimento intelligente Qiu Xiaolong tratteggia la nuova Cina che sembra essere la prima a stupirsi della distanza che la separa dalla Cina di solo un decennio fa.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it





lunedì 21 luglio 2014

Qiu Xiaolong, "Ratti rossi" ed. 2008

                                                        Voci da mondi diversi. Cina
                                                        cento sfumature di giallo
                                                         il libro ritrovato


 Qiu Xiaolong, “Ratti rossi”
Ed. Marsilio, trad. Vittorio Curtoni, pagg. 322, Euro 17,00
Titolo originale: A Case of Two Cities  


    In una recente conferenza stampa, il premier cinese aveva fatto una dichiarazione sulla corruzione che divorava il sistema come un cancro. “Per combattere quei funzionari di Partito corrotti ho preparato cento bare. Novantanove per loro, una per me.” Non era un discorso retorico per colpire il pubblico. Con funzionari di Partito connessi a “una gigantesca rete che copre cielo e terra”,non era inconcepibile che il premier potesse diventare una vittima.

   E’ proprio così: ci si affeziona ai personaggi dei romanzi, ci sorprendiamo a sorridere di gioia e soddisfazione quando vediamo, sullo scaffale di una libreria, la copertina chiaramente nuova di un libro di uno scrittore che amiamo. Ed ecco che ci accingiamo a leggere la quarta avventura di Chen Cao, ispettore di polizia di Shanghai, protagonista di “Ratti rossi” di Qiu Xiaolong.
    Una telefonata anonima segnala la necessità di andare a vedere che cosa è successo nella stanza 135 di una casa di piacere. E in effetti ci sono una ragazza addormentata e un uomo morto. Naturalmente l’uomo è nudo e, ancora più imbarazzante, era un ispettore di polizia- piuttosto importante, pure; gli erano state affidate delle indagini per cercare di mettere un freno alla dilagante corruzione della nuova Cina social-capitalista. La ragazza è in stato confusionale, non ricorda nulla; pare che Hua sia morto per una dose troppo forte di stimolante sessuale. Hua? Hua? Chi lo conosce lo reputa assolutamente impossibile. Ed è a questo punto che entra in gioco il nostro ispettore poeta Chen Cao con il suo aiutante Yu, nonché con il padre di questi, l’ex poliziotto Vecchio Cacciatore.
    Chi conosce già Qiu Xiaolong, scrittore cinese che vive negli Stati Uniti, sa che i suoi romanzi sono qualcosa di diverso da una lunga scia di morti o da una sequenza di scene cruente. Troveremo un altro paio di persone assassinate- una donna molto bella che lavorava in un’agenzia di pubblicità (è quasi così ovunque, ma in Cina i guanxi, i contatti giusti, magari un po’ oliati da qualche fascio di banconote, sono essenziali) e la guida turistica che accompagna la delegazione degli scrittori cinesi in America. E guarda caso, la donna aveva appena cenato con Chen e la guida aveva chiesto a Chen di usare la sua vasca da bagno con idromassaggio e usciva dalla sua stanza…Eppure la nostra attenzione è focalizzata su altre cose: la realtà sorprendente della Cina che è nata nell’ultimo decennio e che stupisce i personaggi più ancora, forse, di noi lettori del paese di “Gomorra” che non ci stupiamo più di niente. La Cina delle speculazioni immobiliari, dei conti bancari all’estero, della ricerca forsennata di quello che una volta era il decadente piacere borghese. La Cina in cui l’ispettore Chen scende da un autobus affollato perché il puzzo dei corpi è insopportabile, ma chi è che usa i mezzi pubblici ormai, a Shanghai (come in Italia, d’altra parte), se non i poveracci che neppure hanno un pezzo di sapone, per non dire una vasca da bagno?

   C’è una novità in “Ratti rossi”. All’improvviso Chen Cao viene messo a capo di una delegazione di scrittori cinesi in partenza per Los Angeles, dove si svolgerà un convegno letterario America-Cina, il primo dal 1989. E’ vero che il magnate ricercato per corruzione è fuggito negli Stati Uniti e Chen potrebbe portare avanti la sua indagine laggiù, ma la sensazione è che qualcuno voglia allontanarlo di proposito dalla Cina. Quello che a noi interessa, tuttavia, è che il soggiorno di Chen a Los Angeles offre a Qiu Xiaolong- lui stesso residente negli Stati Uniti dal 1989- una straordinaria opportunità per mettere a confronto da vicino due mondi e soprattutto due culture, dalle banalità di vita quotidiana e diversi stili di vita all’assenza quasi totale di traduzioni dal cinese e la conseguente ignoranza della letteratura cinese. E allora il contrasto tra l’americano, anche se colto, e il nostro Chen è ancora più forte. Perché Chen non ci ha solo deliziato, come al solito, con le citazioni degli antichi poeti cinesi ma improvvisa- alla fine, quando la tentazione d’amore per l’americana che aveva incontrato a Shanghai in “Quando il rosso è nero” e che ha rivisto ora diventa anche una tentazione di cambiare vita- un lungo poema parodistico della “Canzone d’amore di Prufrock” di T.S.Eliot. Come se Chen, che ha gli strumenti per comprendere entrambi i mondi, trasformando i commenti delle donne ciarliere che parlano alle spalle di Prufrock in osservazioni su di lui, (Penseranno: “Com’è gialla la sua pelle!”, Diranno: “Ma quant’è marcato il suo accento!”), desse voce ai suoi dubbi che i tempi possano essere maturi per un’integrazione.

     Qiu Xiaolong non ci delude mai. Nonostante un calo di tensione dopo un inizio coinvolgente che ci ha trascinato in una Cina paragonata ad un granaio in cui scorazzano a piacere grossi ratti, riconosciamo a Xiaolong  la capacità unica di mettere a confronto, attraverso i suoi personaggi, presente e passato, la Cina e il mondo fuori della Cina. E se c’è un abisso tra quelli, quasi non c’è più differenza tra questi.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it

          

Qiu Xiaolong, "Quando il rosso è nero" ed. 2006

                                                          Voci da mondi diversi. Cina
                                                           cento sfumature di giallo
                                                           il libro ritrovato

Qiu Xiaolong, “Quando il rosso è nero”
Ed. Marsilio, trad. Fabio Zucchella, pagg. 285, Euro 16,00

     “Quando il rosso è nero”, di Qiu Xiaolong, è il terzo episodio della serie che ha per protagonista Chen, capo della squadra di polizia che indaga sui crimini con implicazioni politiche a Shanghai e, ancora una volta, si inserisce nel genere “thriller” solo perché vi si svolgono delle indagini su un assassinio: in una sovraffollata casa di Shanghai viene trovata morta una scrittrice il cui romanzo aveva suscitato scalpore perché parlava della sua storia d’amore con un intellettuale perseguitato durante la Rivoluzione Culturale e il caso viene affidato a Yu, il vice dell’ispettore Chen. In realtà il caso e l’indagine sono un pretesto per ascoltare voci diverse, rivangare nel passato, osservare i cambiamenti nella Cina degli anni ‘90.
    Molto abilmente, Qiu Xiaolong ricorre a due espedienti narrativi per mettere in moto la trama gialla e parlarci di altro: porta in primo piano Yu, l’aiutante di Chen, e impiega Chen in un incarico diverso, una traduzione in inglese che gli viene affidata dall’impresario Gu. Un’offerta impossibile da rifiutare, una cifra da capogiro come ricompensa. Si tratta di un’operazione di marketing, piazzare bene la vendita di un’area della città in cui ricostruire un “nuovo mondo” secondo i modelli europei. L’ambizione è quella di mantenere il guscio architettonico delle tipiche shikumen di Shanghai e trasformare questi edifici in ristoranti, negozi, locali alla moda.

    Da questo punto di partenza il romanzo di Qiu Xiaolong diventa un confronto costante tra presente e passato, con una prospettiva incerta di futuro. C’è un passato remoto ricordato con nostalgia, gli anni ‘30 quando Shanghai era la mitica  “Parigi dell’Est” ed è questa atmosfera romanticamente luccicante che la società del New World mira a ricreare. C’è poi un passato recente di cui nessuno- soprattutto chi lo ha vissuto- ama parlare, mentre il presente fluttua in un vuoto: Chen, di cui conosciamo il perfetto inglese, si trova in difficoltà con la traduzione che gli è stata affidata, per il semplice fatto che tratta di qualcosa- il marketing- che non è mai esistito in Cina. Se la visione del futuro è quella di gente allegra che spende allegramente soldi nelle shikumen riadattate, quella del presente è di decine di famiglie che vivono nelle shikumen dove un tempo alloggiava una sola unità famigliare, edifici fatiscenti in cui ogni spazio è impiegato ad uso abitativo. E l’ispettore Yu abita con la moglie e il figlio in una di queste stanze, deluso nell’aspettativa di avere un alloggio migliore, a disagio in una società che non lavora più per la sacra causa del comunismo. Se lo slogan politico rivoluzionario era Xiang qian kan, “Guarda al futuro”, adesso ci si fa beffe di quelle parole e si gioca sul significato di qian che vuol dire denaro, oltre che futuro. E naturalmente ci sono grossi interessi in ballo nella ricostruzione del “nuovo mondo”. Ma Yu e Chen e tanti altri non riescono ad adattarsi alla nuova mentalità, incapaci di liberarsi dal passato che li ha marchiati, quello della Rivoluzione Culturale. E’ l’ombra di questo “disastro nazionale” che si estende sul presente che ha finito per inghiottire la scrittrice assassinata. Aveva scritto un solo romanzo, “Morte di un professore in Cina”, e aveva curato la pubblicazione delle poesie del professore con cui aveva vissuto una storia d’amore proibita, argomento del suo libro. Ma questo è un romanzo dentro il romanzo, una sorta di Dottor Zivago cinese, e, siccome in Cina niente può esulare dalla politica, anche l’amore si tinge di rosso e di nero. E del sangue di un assassinio.

    Un ottimo noir, per sapere di più sulla Cina di oggi- e di ieri- con qualche brivido.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net

Qiu Xiaolong