giovedì 29 aprile 2021

Maaza Mengiste, “Il Re Ombra” ed. 2021

                                                                  Diaspora africana

        guerra d'Etiopia

Maaza Mengiste, “Il Re Ombra”

Ed. Einaudi, trad. A. Nadotti, pagg. 440, Euro 21,00

     Splendida immagine, quella che ci prospetta il titolo del romanzo della scrittrice etiope Maaza Mengiste di cui avevamo già letto un altro bellissimo libro, “Lo sguardo del leone”. “Il re ombra”- un doppio sconvolgente per quello che era stato il sole del suo popolo, il Negus d’Etiopia, il Leone, il Re dei Re, nato con il nome di Lij Tafari Makonnen e conosciuto dal 1930 come Hailé Selassié (‘Potenza della Trinità’), un sostituto che gli assomiglia ma è solo un umile contadino che la scrittrice chiama, significativamente, Minim che vuole dire Nulla. Un Nulla che, in groppa ad uno splendido cavallo, indossando le vesti regali, può, con la sua sola presenza, infondere coraggio nei guerrieri che combattono contro l’arrogante invasore italiano. Un’Ombra che può allontanare le ombre che oscurano il paese mentre il vero Re rimane nell’ombra. Nel suo rifugio di Bath, in Inghilterra.

Hailé Selassié

    Questo è un romanzo epico e grandioso che risuona degli echi delle composizioni epiche di una tradizione gloriosa, dei gridi di guerra degli eroi di Omero. La presenza del coro, che ritorna a punteggiare la narrazione, non è un caso- Cantate, figlie, di una donna e di mille, di quelle moltitudini accorse come il vento a liberare un paese da perfide belve…Cantate, uomini, della valorosa Aster e la furiosa Hirut e della loro luce accecante su una terra in ombra- ci fa pensare all’Iliade, alle donne del coro di Canterbury ne “Assassinio nella cattedrale” di Eliot.- perché il valore di Ettore e la furia di Achille sono attribuite a due donne che escono dall’ombra in cui la Storia è solita relegarle. Aster e Hirut sono le Amazzoni, le eroine di questo romanzo, le protagoniste che giganteggiano a fianco degli altri guerrieri.

    È il 1974 quando Hirut, seduta per terra in un angolo della stazione di Addis Abeba, attende qualcuno a cui deve restituire una cassetta piena di lettere, di articoli di giornale, di fotografie, di ‘innumerevoli morti che esigono risurrezione’. Le date di questo materiale: dal 1935 al 1941. Il proprietario della cassetta a lei affidata finché si fossero rivisti: Ettore Navarra, fotografo al seguito delle truppe italiane nella Campagna d’Africa Orientale o Guerra d’Etiopia, una guerra brutale, impari, razzista.

     1935. Inizia il lungo flashback sugli anni di guerra. Una giovanissima Hirut a servizio del nobile Kidane e di sua moglie Aster reclama per sé un ruolo attivo nella lotta contro l’invasore- dopo tutto suo padre le aveva affidato il fucile su cui cinque tacche segnavano gli italiani da lui uccisi nella guerra precedente. Anche Aster, in lutto per la morte di un figlio, gelosa di Hirut, indossa il mantello del marito e imbraccia le armi. Hirut diventerà la guardiana del Re Ombra, Aster si metterà a capo di un gruppuscolo di donne soldato, entrambe saranno prese prigioniere. E quello che passeranno è immaginabile- in guerra dove ogni istinto animalesco prende il sopravvento, in una società razzista e maschilista, la sorte di due donne prigioniere è peggiore ancora di quella degli uomini.


     Il colonnello Fucelli comanda il manipolo di italiani in quella postazione su un terrazzamento a strapiombo- posizione ideale per infliggere la morte che gli offre un piacere sadico facendo precipitare le vittime nel vuoto dall’alto. Non gli basta. Ettore Navarra, soprannominato ‘Foto’, deve cogliere quel tragico volo senza ali con il suo obiettivo. Sarà una testimonianza, una sciagurata forma di arte. Saranno le fotografie di cui Navarra conserverà una copia nella cassetta, insieme a quelle delle due prigioniere, corpi bellissimi che i dominatori vorrebbero umiliare ma che protestano la loro dignità.

   Non c’è salvezza per il colonnello Fucelli la cui crudeltà adombra quella del generale Graziani, il boia del Fezzan che utilizzò l’iprite vietata dalle convenzioni internazionali. Non c’è attenuante neppure per l’obbediente Navarra, nonostante sia lui stesso una vittima del fascismo- smetterà di ricevere lettere dai suoi genitori, finiti chissà dove in qualche rastrellamento, prigionieri in quanto ebrei, proprio come Aster e Hirut.

     È questa ampia visione della Storia che piace nel romanzo di Maaza Mengiste, così come piacciono le diverse angolature- dal punto di vista degli etiopi che difendono il loro paese, degli ascari che vengono considerati traditori, delle donne nella loro duplice veste di guerriere e di donne fragili che devono soggiacere alle voglie dei maschi, del Re in esilio, dell’umile Re Ombra che riveste panni non suoi, dei ‘cattivi’ che questa volta siamo noi, gli italiani ‘brava gente’.

    Un romanzo duro, fatto di guerra, di morti, di sangue, di stupri, primo fra tutti quello di una terra occupata a forza. Un romanzo che riesce ad avere la terribile bellezza poetica dei poemi epici. Da leggere.   

la recensione del precedente romanzo di Maaza Mengiste, insieme all'intervista con la scrittrice, si trova sotto l'etichetta 'diaspora africana'

 la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.it

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martedì 27 aprile 2021

Alessandro Robecchi, “Flora” ed. 2021

                                                                    Casa Nostra. Qui Italia

                                                    cento sfumature di giallo

Alessandro Robecchi, “Flora”

Ed. Sellerio, pagg. 365, Euro 15,00

    Siamo affezionati ai personaggi dei romanzi seriali di Alessandro Robecchi, a Carlo Monterossi che ha fatto fortuna ideando lo spettacolo televisivo Crazy Love, alla coppia di investigatori che lo affiancano, alla stravagante Flora che ha stravolto le intenzioni di Carlo trasformando lo spettacolo in uno show sensazionale di pessimo gusto che fa leva sulle curiosità morbose degli spettatori. In Crazy Love le vicende più squallide vengono date in pasto ad un pubblico che si nutre di schifezze.

    Il titolo ce lo dice: Flora è la protagonista del nuovo romanzo, insieme ad un poeta surrealista Robert Desnos, morto a Theresienstadt nel 1945. E’ un accostamento del tutto improbabile, se non fosse che Flora è stata rapita.

È una notizia che getta tutti nello sconcerto. Eppure è vera. Arriva il solito breve filmato che dimostra che Flora è prigioniera e la richiesta di riscatto, molto strana a dire il vero. I rapitori non chiedono solo dieci milioni di euro, ma anche di poter andare in onda per un’ora ad una data fissata.

Robert Desnos

  “Flora” è un anomalo thriller. Anzi, non ha assolutamente niente del romanzo poliziesco o del thriller. Non dubitiamo neppure per un attimo che Flora non sarà uccisa. Conosciamo da subito l’identità dei rapitori, un distinto uomo sulla sessantina, Corrado Straiano, e la commessa di una libreria, Caterina, che hanno preparato accuratamente ogni passo di quello che si propongono e che noi scopriamo a poco a poco, mentre la trama si alterna tra scene in una Milano estiva, semideserta e caldissima, e una Parigi degli anni ‘20 sul cui palcoscenico si muove Robert Desnos, tra genio, grandi amori e sregolatezze.

    Mentre Carlo Monterossi e gli altri personaggi dei precedenti romanzi scoloriscono, acquista risalto una nuova Flora a cui è impossibile negare, seppur prigioniera, i begli abiti a cui è abituata e la parrucchiera personale che l’ha sempre coccolata. Flora sembra essere afflitta dalla sindrome di Stoccolma, si cala perfettamente nel ruolo che le viene richiesto, diventerà la voce del messaggio dei suoi rapitori, si rivelerà una grande attrice nel momento in cui, per un’ora, parlerà di qualcosa che è l’opposto di quanto finora ha proposto ai suoi ascoltatori. E credendo in quello che dice, per di più.


    Il pregio di questo nuovo romanzo sta proprio in questo, nel distruggere, con intelligenza e ironia, lo spettacolo nauseante che va per la maggiore, del genere che ha contribuito ad abbassare le capacità critiche e il gusto degli spettatori, e nel sostituirlo con un altro che propone un messaggio più alto e ben diverso. Va da sé che era un’operazione che poteva essere fatta solo con un colpo di mano, che lo spettacolo doveva essere imposto senza lasciare scelta, che il pubblico doveva essere attirato mettendo in atto gli stessi stratagemmi a cui è abituato, solleticando il suo interesse per il sensazionale, titillando il suo gusto dell’orrore sadico.

    Non posso negare, tuttavia, di essere rimasta delusa, forse perché mi aspettavo tutt’altro da questo romanzo. Ho trovato interessante il contrasto tra la tragedia del passato e la futilità del presente, ma poco approfonditi i nuovi personaggi che rubano la scena a Monterossi e troppo lenta la narrativa.

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lunedì 26 aprile 2021

Ayesha Harruna Attah, “I cento pozzi di Salaga” ed. 2019

                                                    Voci da mondi diversi. Africa

                                                     il libro dimenticato

Ayesha Harruna Attah, “I cento pozzi di Salaga”

Ed. Marcos y Marcos, trad. Monica Pareschi, pagg. 300, Euro 18,00

   Fine dell’800. Africa. Salaga, situata nel centro del Ghana, luogo di passaggio per le carovane, con il più importante mercato di schiavi.

   Due protagoniste, due donne che sono una il doppio dell’altra, opposte e complementari. Due narrative che ad un certo punto si fondono, pur mantenendo il duplice punto di vista

Aminah, che vive in un villaggio sulle piste carovaniere, una madre che adora, un fratellino e due sorelline più piccoli, un padre che fa il calzolaio ed è spesso in viaggio per vendere le scarpe che lui stesso ha cucito. Ad Aminah piacerebbe fare scarpe, come lui, e ne sarebbe capace.

Wurche, una principessa, figlia del re, uno spirito guerriero che non vuole essere da meno dei suoi fratelli, che sa cavalcare e maneggiare le armi. Il suo primo desiderio è di governare a fianco del padre, l’ultimo è quello di sposarsi.


    In una razzia i mercanti di schiavi danno alle fiamme il villaggio di Aminah, lei è presa prigioniera insieme al fratellino e alle due sorelle gemelle, Hassana e Husseina, sua madre muore. La schiavitù è stata abolita, eppure il commercio prospera ancora, le sofferenze di Aminah, trascinata a piedi fino alla città, sono inenarrabili. In più, lungo il percorso perde due membri di quello che resta della sua famiglia- il fratellino non regge al trauma e alla fatica e una delle gemelle è venduta ad un altro mercante. L’urlo di Hassana quando vede scomparire Husseina risuona straziante nella foresta.

    A Wurche viene imposto il matrimonio con un uomo per cui lei prova subito avversione. Deve sottostare- con questo legame il re suo padre si assicura un’alleanza contro la tribù degli ashanti e cerca pure di avvicinarsi agli europei, tedeschi e inglesi, le cui mire non sono chiare.

   Seguire le vicende dell’una e dell’altra è quanto mai intrigante. Perché tutto, del romanzo, ci è nuovo e ci offre spunti di riflessione. L’ambientazione nei villaggi delle diverse tribù, la descrizione di Salaga e del mercato degli schiavi, la natura selvaggia dell’Africa, la Storia in anni che vedono la fine ‘ufficiale’ di un commercio indegno che tuttavia ancora continua di nascosto, e, nello stesso tempo, prospettano la nuova ingerenza coloniale degli europei, le diverse religioni praticate (i gonja, la tribù di Wurche, sono musulmani mentre Aminah crede in un’altra divinità onnipotente), la cultura e la cucina che fa parte di questa, i rapporti tra uomo e donna e all’interno della famiglia (è interessante sapere che una donna sposata può continuare a vivere nel villaggio della sua famiglia finché il suo primo bambino cammina da solo)- tutto questo ci incuriosisce e ci affascina.

    Aminah è una schiava. Wurche la compera- e poi si disprezzerà per averlo fatto- perché capisce che Aminah è destinata all’uomo molto bello di cui lei è innamorata. Eppure, queste due donne così diverse lottano entrambe per ottenere la libertà. Una libertà più ovvia, quella di Aminah che non si lamenta di come viene trattata da Wurche che le ha affidato il bambino avuto dal marito (si riesce ad amare un bambino avuto da un uomo per cui si ha revulsione?) e un altro tipo di libertà quello a cui aspira Wurche, una sorta di femminista antelitteram, attratta da entrambi i sessi, interessata alla politica e desiderosa di potere.


   Una galleria di personaggi maschili ruota intorno a queste due donne, quasi a metterle in risalto- il re che sembra amare di più questa figlia mascolina e battagliera e che però si uccide alla morte del figlio maschio, il marito di cui si sottolinea il ventre molle in contrasto con il fisico asciutto di Wurche, come se il carattere di ognuno fosse interpretato dai loro corpi, il mercante di schiavi (il nero principe azzurro di cui sia Aminah sia Wurche sono innamorate che abbandonerà il suo commercio per amore), il tedesco da cui Wurche spera di avere informazioni politiche e che la lascerà con una bambina dagli occhi chiari, e altri uomini ugualmente ignobili.

    Il seguito del romanzo è “Il grande azzurro”- da leggere entrambi.

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sabato 24 aprile 2021

Ayesha Harruna Attah, “Il grande azzurro” ed. 2021

                                                      Voci da mondi diversi. Africa


Ayesha Harruna Attah, “Il grande azzurro”

Ed. Marcos y Marcos, trad. F. Conte, pagg. 318, Euro 18,00

 

    Costa d’Oro, Africa, 1892. Fuggiamo. Le nostre mani si attaccano l’una all’altra con la forza della colla. Le sue dita sono le mie; le mie dita sono le sue……Una di noi inciampa. Il sudore scioglie la presa tra le nostre mani.

Hassana e Husseina, due gemelle di dieci anni in fuga. Il loro villaggio è stato razziato e dato alle fiamme. I mercanti di schiavi le separano, si incontreranno di nuovo soltanto sette anni dopo. Questa è la loro storia, la storia che prosegue quella iniziata nel romanzo precedente della scrittrice ghanese Ayesha Harruna Attah.

    Due voci si alternano nei capitoli in cui leggiamo delle vicende dell’una e dell’altra, quella di Hassana parla in prima persona (infatti è lei la gemella dalla personalità trainante), quella di Husseina attraverso un narratore- è un espediente narrativo che ci aiuta a riconoscerle. Nella sfortuna, nella perdita di tutto, le due bambine sono fortunate. Perché la schiavitù è perseguita ed entrambe riusciranno a sottrarsi ai rapitori, saranno aiutate da persone generose che, in una sorta di scambio, vorrebbero convertirle alle loro idee- la religione cristiana per Hassana (rifiuterà sempre di essere battezzata) e il condomblé, un sincretismo religioso in cui Husseina finirà per credere profondamente.


   Seguiamo le vicende delle due bambine, sempre consapevoli, entrambe, di essere ‘una metà’. Perché questo è il meraviglioso e stupefacente mistero della gemellarità, essere due in uno, avvertire con certezza che l’altra metà è da qualche parte, lontana ma presente, sognare i sogni l’una dell’altra, mandarsi messaggi a distanza nella lingua dei sogni. Eppure, forse, il destino aveva operato per il meglio, separando Hassana e Husseina. Le aveva lasciate libere di sviluppare ognuna la sua personalità. Perché Hassana era sempre stata la gemella dominante, la più estroversa e brillante- dopo tutto era quella che era nata per prima. Husseina era timida, dipendeva dalla sorella. Finché, ad un certo punto, a Husseina (che ormai ha cambiato nome in Vitoria) viene prospettato un altro punto di vista, un’altra spiegazione del legame della gemellarità. In realtà è lei, Husseina che, diventando Vitoria, è diventata anche un’altra persona, la più forte delle due. È vero che Hassana è nata per prima, ma è stata lei, Husseina, che ha spinto la sorella fuori dal ventre della madre, davanti a sé in esplorazione nel mondo, è lei che dà ordini.


Soltanto diventando grandi lontane l’una dall’altra, le gemelle trovano la loro strada. E noi le seguiremo- Hassana studierà, diventerà insegnante, Vitoria seguirà in Brasile la donna che l’ha accolta, imparerà a cucire. Finché il destino si ammanta di magia e una forza superiore le aiuterà a riunirsi.

    Il finale del romanzo non è, però, né banale né scontato. Non è un finale da ‘tutti vissero felici e contenti’. Tutt’altro. Il rapporto tra le gemelle non riprende da dove si era interrotto. Devono imparare a conoscersi, a rispettare le esigenze l’una dell’altra, a non dare per scontata la loro unione.

    “Il grande azzurro” ci porta in paesi lontani, ci fa scoprire i legami tra Africa e Brasile, ci sorprende con i riti del condomblé, ci fa assaggiare piatti esotici, soprattutto rimette in discussione quello che pensavamo di sapere di altri luoghi, altra gente, altre culture, rivelandoci in realtà tutto quello che non sapevamo affatto.

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mercoledì 21 aprile 2021

Asha Lemmie, “Cinquanta modi di dire pioggia” ed. 2021

                                 Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America

Asha Lemmie, “Cinquanta modi di dire pioggia”

Ed. Nord, trad. Anna Ricci, pagg. 432, Euro 18,00

    Se sei chiuso in una soffitta, per quanto sia ben arredata e confortevole, la solitudine pesa ed è la voce della pioggia che ascolti, che impari a differenziare e interpretare, una voce che ti fa compagnia.

Kyoto 1948. Noriko Kamiza viene reclusa dalla nonna nella soffitta della splendida magione quando ha solo otto anni. La sua colpa? Essere una figlia illegittima, una bastarda. Peggio ancora. Avere un aspetto- pelle color caramello e capelli ricci- che non lascia dubbi sul fatto che suo padre non sia giapponese. Inaccettabile. Imperdonabile. In una famiglia, poi, in cui la nonna di Nori è cugina dell’imperatore. Va da sé che nessuno debba vedere la bambina, che nessuno debba sapere della sua esistenza.

   Il romanzo mi aveva incuriosito. Mi prometteva un’evasione in Giappone, una storia che si annunciava più ‘leggera’, pur con il suo lato drammatico, di quella del libro impegnativo che avevo appena terminato. È stato un errore leggerlo, anche se ha mantenuto la promessa di distrarmi e addirittura di farmi sorridere per la serie di avvenimenti strappalacrime e al limite della credibilità. Perché il romanzo inizia con la bambina abbandonata dalla madre sul marciapiede davanti alla dimora dei suoi genitori con la raccomandazione di essere obbediente. La bambina sa che, al di là di quel cancello chiuso, abita la nonna, la madre di sua madre. Nella scena seguente la bambina è già nella soffitta, con una cameriera che la aiuta a fare il bagno in una vasca con acqua e varechina. È questo dettaglio che ci fa capire che Nori è diversa, che la nonna non la accetta per quello che è. È la prima di una serie di torture paragonabili a quelle subite da qualche piccolo orfano di dickensiana memoria.


    Ad un certo punto spunta un fratellastro, Akira, idolatrato dalla nonna perché sarà lui l’erede. Stranamente Akira diventa il paladino di Nori che naturalmente lo adora. Ci sono però in serbo per Nori altre bruttissime sorprese- sarà venduta, sarà salvata, sarà insidiata da un amico del fratello, la sua vita sarà in pericolo…E altro ancora. Lei si convincerà di portare con sé una maledizione, proprio come le diceva la nonna. Senza contare che scende in campo anche la yakuza, la nota mafia giapponese. Insomma, non manca proprio niente.

    “Cinquanta modi per dire pioggia” è una lettura da distrazione, si arriva alla fine trascinati dalla curiosità di sapere che cosa altro può accadere, anche se sappiamo che è una curiosità manovrata dalla scrittrice che fa leva sul tipo di suspense tipico dei romanzi d’appendice. E, inoltre, l’ambientazione in Giappone è solo una spolverata di colore, una patina superficiale, così come sono superficiali i personaggi a cui non viene data nessuna complessità.




 

   

lunedì 19 aprile 2021

Imamura Natsuko, “La donna dalla gonna viola” ed. 2021

                                       Voci da mondi diversi. Giappone

    cento sfumature di giallo

Imamura Natsuko, “La donna dalla gonna viola”

Ed. Salani, trad. Anna Specchio, pagg. 160, Euro 14,90

 

    Due personaggi, due donne identificate da due colori, la donna dalla gonna viola e la donna dal cardigan giallo. E chissà che questi due colori abbiano anche essi un significato per interpretare questo breve romanzo dal fascino enigmatico, perché l’accostamento di viola e giallo è insolito e bello, perché una gonna e un cardigan potrebbero essere l’abbigliamento di una sola donna.

    È la donna dal cardigan giallo a parlare, a raccontare della sua ‘ossessione’ per la donna dalla gonna viola che si siede sempre sulla stessa panchina nel parco e mangia ogni giorno la stessa brioche alla crema. Non è l’unica ad averla osservata, i ragazzini hanno stabilito di andare a batterle su una spalla come ‘pegno da pagare’ per chi di loro perde al gioco della morra cinese.


La donna dal cardigan giallo, seguendone di continuo i movimenti, ha capito che l’altra non ha un impiego, le lascia sulla panchina la pagina del giornale con le offerte di lavoro, riesce infine a farle avere un’occupazione dove lavora lei, a fare le pulizie in un albergo di lusso. La donna dal cardigan giallo continua a tenere d’occhio l’oggetto del suo amore/ossessione, desiderando farsi avanti e diventare la sua amica, restando, però, nell’ombra, trattenuta da…non sappiamo che cosa. Osserverà i cambiamenti della donna in viola, sia nella maniera di comportarsi, acquistando una maggiore sicurezza, sia nell’aspetto fisico (di certo ha acquistato peso e sembra più bella: anche lei, come le altre cameriere, mangia gli snack e i sandwich riservati ai clienti, quando pulisce le stanze?), sia nel suo rapporto con il direttore del personale.

Cambia anche l’atteggiamento verso di lei delle altre donne che lavorano nell’albergo- all’inizio erano tutte gentili, pronte a darle suggerimenti e ad aiutarla, poi incominciano a circolare pettegolezzi su di lei- guadagna molto di più di loro, si chiude a chiave nelle camere quando dovrebbe pulirle, arriva al lavoro sull’automobile del direttore…

    La donna dal cardigan giallo vede tutto questo così come vede che i bambini del parco mangiano di gusto i cioccolatini che la donna dalla gonna viola gli porta- la scatola di quelle prelibatezze ha il logo dell’albergo. E sente chiacchiere sul mercatino delle pulci dove si trova da comprare di tutto.

È un vero e proprio stalking, quello della donna dal cardigan giallo, dibattuta tra un malsano interesse che le fa saltare giornate di lavoro e la gelosia alimentata da quello che spia. Finché c’è un colpo di scena drammatico, seguito da un altro colpo di scena che capovolge il primo, tingendo l’intera scena dello stesso giallo del cardigan.


 Quanto al finale…ci lascia con parecchi interrogativi di cui sarebbe interessante discutere- che storia abbiamo letto? Un quasi-thriller? O sono forse la stessa persona, quella dalla donna viola e quella dal cardigan giallo? Forse l’una si comporta come vorrebbe comportarsi l’altra? Tutte le risposte sono possibili in questo romanzo decisamente notevole, che dice o suggerisce di più di quanto non appaia e per il quale la giovane scrittrice ha vinto nel 2019 il prestigioso premio Akutagawa.

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domenica 18 aprile 2021

Jorge Volpi, “Un romanzo messicano” ed. 2021

                                               Voci da mondi diversi. Messico

                 non-fiction

Jorge Volpi, “Un romanzo messicano”

Ed. Bompiani, trad. Bruno Arpaia, pagg.480, Euro 20,00

   Il miglior modo per introdurre il lettore al romanzo non-fiction ma documentale dello scrittore messicano Jorge Volpi è la citazione di un passo del libro: Nessuno si aspetti un racconto di ciò che è accaduto. Si aspetti soltanto un gioco di specchi delle mezze verità e delle menzogne senza testimoni che produce il procedimento di indagine e accusa vigente in Messico.

    L’8 dicembre 2005 a Città del Messico furono arrestati Israel Vallarta e Florence Cassez, accusati di rapimento e di far parte della banda criminale Lo Zodiaco. Florence sarebbe stata rilasciata soltanto sette anni dopo, quello di Israel sarebbe diventato il caso terribilmente paradossale del più lungo periodo- 15 anni- di detenzione senza alcuna accusa fondata.

    Jorge Volpi, una laurea in legge e una seconda laurea in Filologia spagnola, ricostruisce il caso Vallarta-Cassez, a partire dalla montatura del film divulgato dai media in cui si vede la polizia federale arrestare i due presunti colpevoli che non saranno mai presunti innocenti.


Quello che sconvolge, nella lettura dei documenti, è la ridda di dichiarazioni rese in un primo momento dai tre testimoni (i tre sequestrati, un uomo, una donna e un bambino), sostituite in seguito da altre dichiarazioni in cui veniva detto esattamente il contrario (ad esempio, la donna aveva raccontato di essere stata trattata benissimo e in seguito si era corretta accusando il sequestratore di averla violentata ogni giorno), la palese impossibilità di certe prove, il riconoscimento vocale alquanto improbabile, le confessioni, infine, forzate dalle torture. Tutte le falle della montatura del caso sono evidenti anche a chi non è esperto di diritto. Ci troviamo forse davanti ad un caso in cui le vittime sono doppiamente vittime, le une di un sequestro e di una manipolazione della polizia e le altre di una falsa accusa e di estorsione di una falsa verità? Quella che ne viene fuori è “una verità degna di sospetto o una menzogna degna di indignazione.”

   Di Florence Cassez, cittadina francese, si interessò lo stesso presidente Sarkozy che, durante il suo viaggio in Messico nel 2009, sollecitò l’estradizione di Florence. La risposta negativa portò all’annullamento del programmato anno dell’amicizia Francia-Messico. Mentre prosegue la prigionia di Florence e Israel, anche la famiglia di Israel subisce vessazioni da parte della polizia e lo scrittore Jorge Volpi inizia ad interessarsi al caso.


    A Jorge Volpi quasi dispiace che quello che sta scrivendo non sia un romanzo- in tal caso potrebbe inventare, potrebbe terminare la vicenda con un finale soddisfacente, potrebbe, in quanto scrittore onnisciente, sapere la verità che si rivela essere così elusiva. Perché, alla fine senza fine di questo processo, è la verità stessa ad essere sequestrata, riflette Jorge Volpi dopo aver incontrato i protagonisti del caso, incapace di capire la personalità di entrambi.

     “Un romanzo messicano” è lungo e dettagliato. Al di là della colpevolezza o dell’innocenza di Israel e Florence su cui non riesce a pronunciarsi, quello che colpisce il lettore è l’incredibile violenza e la diffusa pratica di soprusi esercitati dalle forze di polizia messicane. Termino con una barzelletta riportata nel libro: per mettere alla prova l’efficienza dei corpi di polizia speciali dei vari paesi, si lascia libero un coniglio per Città del Messico. I primi a cercarlo sono i membri dell’FBI: dopo due ore tornano con il coniglio. Segue la prova del Mossad: tornano dopo un’ora con la bestiola. Tocca infine all’AFI messicana: tornano dopo un quarto d’ora trascinandosi dietro un elefante malconcio che singhiozza, ‘io sono un coniglio, sono un coniglio, sono un coniglio’. È chiaro?



venerdì 16 aprile 2021

Alina Adams, "La scelta di Nataša" - Intervista

    


    Ho sentito Alina Adams raccontare la sua storia su youtube, una storia che potrebbe fare parte del suo romanzo “La scelta di Nataša”. Alina aveva sette anni quando lasciò Odessa con i genitori per emigrare negli Stati Uniti. Non sapeva nulla di quella che per lei sarebbe stata una grande avventura, era una bambina, avrebbe potuto parlare, lasciarsi sfuggire qualcosa. E Alina proprio non riusciva a capire perché tutti piangessero sul marciapiede della stazione- andavano via per una breve gita, no? Avevano seguito il solito itinerario, Vienna, poi Italia, Roma. A Roma si erano fermati quattro mesi, innamorati della città, della luce, del cibo. Lei ricorda i mandarini, le sembra di aver vissuto di mandarini. Avevano avuto la scelta di due destinazioni, o nel New Jersey o a San Francisco. Qualcuno gli aveva detto- nessun dubbio, andate a San Francisco. All’aeroporto di New York, in partenza per San Francisco, c’era stato un piccolo dramma- Alina non aveva più il suo orsetto di peluche. Impossibile partire senza l’orsetto. Suo padre aveva preso un taxi ed era tornato all’albergo. Avevano già rifatto le stanze e nessun orsetto era saltato fuori. Suo padre non si era arreso e aveva chiesto di essere portato nella lavanderia- orsetto ritrovato!

Alina con l'orsetto. Per gentile concessione della scrittrice

Alina ed io abbiamo continuato a parlare del suo libro- lei a New York, io a Milano- sulla piattaforma zoom.

Fino a che punto la storia raccontata ne “La scelta di Nataša” è una storia della sua famiglia? Quali personaggi sono veri e quali inventati?

    All’inizio di ogni romanzo si legge sempre che ogni riferimento a persone viventi è casuale, che nessuno dei personaggi corrisponde ad una persona vera, ed io lo ribadisco. Però il romanzo è un insieme di storie che ho sentito raccontare nella mia famiglia o in altre famiglie o da miei parenti. Specialmente gli aneddoti dell’arrivo a New York con i fraintendimenti riguardo a certe espressioni come ‘see you later’ che veniva interpretata come se ci si dovesse incontrare di nuovo quello stesso giorno o altre storielle del genere- sono tutti basati su storie vere.

La prima parte del libro, quella con la deportazione di Daria, Edward e le bambine in Siberia, è molto coinvolgente, ci fa rivivere la spietatezza di quella ‘prigionia’. Che cosa ha letto per documentarsi?

    Ho letto parecchie opere di non-fiction, lettere, diari, anche diari di guardie dei campi in Siberia degli anni ‘20, ’30, anche ‘50. Ho preso alcune storie da queste documentazioni e altre sono successe veramente alla mia famiglia. Così è veramente capitato che, in una frenetica ricerca di medicine, venisse chiesto alla mia trisnonna se voleva resuscitare un cadavere…

Nel romanzo c’è una straordinaria galleria di personaggi notevoli: quale è quello che ha amato di più?

   Non saprei dire se è il personaggio più amato, ma di certo Edward, il marito di Daria, è quello che mi è più caro. Perché non ha fatto niente di sbagliato. È cresciuto per una certa vita e sarebbe stato un marito meraviglioso, un padre meraviglioso, un pianista meraviglioso se non fosse successo quello che è successo. È stato incapace di adattarsi. Non è stato forte abbastanza. Ha avuto soltanto abbastanza forza da uccidersi. Ecco, non è il mio preferito ma simpatizzo con lui perché quello che succede cambia tutto e non dipende da qualcosa che lui abbia sbagliato.

Quello che ha amato di più coincide con quello che ha ammirato di più?

   No. Ho ammirato Adam: corrisponde alla mia idea di come dovrebbe essere una persona. Ho tre figli e penso che la cosa più importante da insegnargli è l’essere flessibili e trovare come sopravvivere non importa quello che accada.

Chi era, nella sua famiglia, la grande raccontatrice di storie?

    Mia nonna amava raccontare storie, amava recitare scene drammatiche, amava la poesia, amava essere un’attrice sul palcoscenico della vita famigliare. Mia nonna aveva una personalità straordinaria.


Quando ha iniziato a pensare che la sua famiglia sarebbe stata un soggetto ottimo per un romanzo?

   Avevo già scritto una storia ambientato in Russia ma la mia editor mi aveva scoraggiato. Mi aveva detto che a nessuno interessava la Russia, nessuno l’avrebbe voluta. Poi tre anni fa è cambiato tutto: la Russia è diventata un soggetto ‘bollente’. Posso immaginare il perché…

Osserviamo insieme come niente cambi mai veramente in Russia. Adesso come un tempo nessuna notizia filtra dalla Russia per quello che riguarda il covid, sembra che neppure abbiano avuto dei morti. E comunque- mi dice Alina- qualunque cosa si venisse a sapere, non potremmo essere certi che sia la verità. Anzi.

Ha scritto questo romanzo anche per mantenere viva per i suoi figli la memoria del passato?

   Sì. Avevo già scritto una serie di thriller che ruotavano intorno al pattinaggio artistico su ghiaccio e cinque anni fa ne è uscita un’edizione digitale. In quella occasione li ho riletti e mi sono accorta che avevo dimenticato molte storie che avevo inserito nelle trame. La risposta quindi è sì al 100%: ho scritto perché così avrei avuto dove riversare le storie di famiglia, perché io non dimenticassi e perché i miei figli avessero qualcosa da ricordare. I miei figli mi hanno detto, ‘il tuo è un passato drammatico’, ma, quando lo vivi, per te non è drammatico, è la vita.

Alina a Roma, con i cugino Igor a cui il libro è dedicato

Quello che mi è piaciuto più di tutto, quello che ho apprezzato di più, è stato che tutti gli uomini, più ancora delle donne, hanno i lati buoni e quelli cattivi. Ma noi apprezziamo soprattutto quelli buoni di Adam, di Edward e di Boris. Come ci è riuscita?

    Grazie per averlo osservato, perché ho cercato di farlo. Credo che la maggior parte delle persone non siano cattive, ma che le qualità possano essere buone o cattive secondo la situazione in cui le persone si trovano. Può darsi che Boris sia noioso e prevedibile e razionale, ma in certe situazioni essere sistematico, noioso e seguire le regole è quello che ci vuole, è quello di cui hai bisogno.


Prendiamo Dima, il primo amore di Nataša. Dima è un manipolatore, ma volevo rendere chiaro che Dima non è solo parole, volevo fargli mostrare che, anche se non è bravo nei rapporti personali, però è andato in prigione per quello in cui credeva. Anche nella storia di Zoe- Alex è ambizioso, intelligente, ma non è adatto per un rapporto uno-a-uno. Gideon è il suo opposto, Gideon non è ambizioso, ma nella vita ti trovi ad avere bisogno di una persona come è Gideon che è diventato mio marito.

Un’altra riflessione che ho fatto sugli uomini: sembra che siano loro quelli capaci di vero amore generoso.

    Sono d’accordo. Per giustificare le donne, bisogna dire che Daria e Nataša devono pensare alla sopravvivenza e non hanno possibilità di lasciar espandere il loro amore. C’è troppo di altro da fare per loro.

 


Per ultimo Le dico che sono curiosa di leggere i suoi thriller ambientati nel mondo del pattinaggio: come sono nati?

Mi piace leggere di tutto. Ero ricercatrice e scrittrice per una rete televisiva. A proposito, ero proprio a Milano per il Campionato Europeo di pattinaggio su ghiaccio. Quella di scrivere dei thriller ambientati nel mondo del pattinaggio è stata un’idea della mia editor. Era un mondo che conoscevo e tutti i misteri da risolvere in quei libri derivano da situazioni vere che mi erano capitate. Sì. C’è un personaggio ricorrente che è ricercatrice e scrittrice- come me- e ogni volta che va ad una competizione, c’è un mistero da risolvere.

giovedì 15 aprile 2021

Alina Adams, “La scelta di Nataša” ed. 2021

                             Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America

         storia di famiglia

Alina Adams, “La scelta di Nataša”

Ed. Nord, trad. G. Maugeri, pagg.426, Euro 18,00

 

   Sembra una frase buffa, detta da una donna anziana e magari un po’ fuori di testa, quella all’inizio del romanzo “La scelta di Nataša” di Alina Adams: ‘L’amore non è una patata’, dice la bisnonna Alisa. Per poi spiegare, però,: ‘Perché quando l’amore va a male non puoi buttarlo dalla finestra’- e la parola russa per finestra (okoška) fa rima con kartoška che significa ‘patata’. E a questo punto, quando leggiamo la frase di chiusura del libro che osserva che c’è una patata nel piatto che la bisnonna offre al ragazzo che la bisnipote Zoe ha invitato alla festa, comprendiamo l’allusione nascosta che suggella una storia d’amore.

   Un’altra storia d’amore, in questo romanzo che copre quasi un secolo e che è la storia di tre donne, anzi, di cinque se consideriamo tutte le generazioni,  tra Odessa in Ucraina, la Siberia, e poi ancora Odessa e Brighton Beach, la ‘Little Odessa’ di New York. Ma questo non è soltanto un libro che parla d’amore. E comunque non è mai un amore facile e rosa. È un amore che deve lottare per sopravvivere, che impone delle scelte che sembrano non avere nulla a che fare con questo sentimento, che sembra essere il surrogato di quello che si pensa essere il vero amore per poi rivelare la sua profondità, ben diversa dallo scintillio e dall’esaltazione di quell’altro.

   È una grande donna, quella Daria o Dvora che è la trisnonna di Zoe. A diciassette anni aveva sposato un pianista famoso, dopo uno di quei corteggiamenti di altri tempi in cui una ragazza doveva farsi corteggiare a lungo prima di cedere. Erano gli anni ‘30, quelli delle purghe di Stalin. Una delazione e Daria, il marito e le due bambine (una era Alisa) erano finiti in Siberia.

   La prima parte del romanzo, con il lungo viaggio sul treno che li porta in Siberia, la durissima vita laggiù, non da prigionieri ma per costruire l’Unione Sovietica (quanta crudele ironia in queste parole), il dolore nel vedere il crollo psicologico e fisico del marito, nel non riuscire a impedire la morte di una delle bambine, la scelta, infine, che Daria si trova obbligata a fare, è indubbiamente la parte più bella del libro. Questa è la prima delle scelte che Daria trova sul cammino della sua vita, ed è pure la prima delle scelte che, di generazione in generazione, le donne della sua famiglia si troveranno a fare. E tuttavia- questa è una grande lezione- a volte si sceglie quello che non si vorrebbe ma che si rivela essere giusto per noi.

Odessa. Università di Medicina

   Così è per Daria, che scopre in un altro uomo che non è suo marito e che aveva giudicato come malvagio, delle qualità di generosità e di forza d’animo inaspettate. Così sarà per la nipote Nataša- ma siamo già negli anni ‘70, Nataša non riesce ad iscriversi alla facoltà di matematica perché ebrea, si unisce ad un gruppo di dissidenti (per amore, o per quello che crede sia amore), mette a rischio la sua famiglia, fa anche lei una scelta. Un’altra scelta obbligata, perché lei non sceglierebbe di sposare Boris che, invece, si rivela essere la persona giusta per lei, un altro degli uomini generosi che incontriamo in queste pagine, che per amore accettano come propri i figli di un altro uomo e della donna che amano.

    Da Odessa a Brighton Beach. Come ci si adatta ad un nuovo paese, ad una nuova lingua, ad una nuova cultura e ad usanze diverse quando si ha tanta storia alle spalle? È Zoe, il cui nome in russo sarebbe Zoya o Zoyenka, la prima vera americana- riuscirà a liberarsi delle aspettative riposte su di lei, a sganciarsi dai modelli femminili di sua madre Julia, della Baba Nataša, della bisnonna Alisa? Il finale è perfetto nel crogiuolo americano.

Little Odessa

   Solo ad una lettura veloce questa ultima parte può sembrare meno coinvolgente delle altre. Certo, non c’è la tensione e la drammaticità dei capitoli del terrore staliniano e neppure la strisciante diffidenza e paura degli anni ‘70 in Odessa, ma è qui e adesso che il romanzo raggiunge la sua pienezza, la calma dopo la tempesta. È qui che possiamo ricomporre la matrioska che dà il titolo originale al libro, “The nesting dolls”, è qui che il futuro appare soffuso di serenità dopo tutto quel passato di livide angosce.

     Un libro molto bello, di Storia e di storie, di guerra e di amore, del trionfo della volontà di vivere. Da leggere.

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la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.it

a breve seguirà intervista con la scrittrice