mercoledì 30 dicembre 2020

I dieci bellissimi del 2020

 

    Un anno orrendo. Resterà nella memoria come annus horribilis. Ricorderemo per sempre che era il 2020. Forse la cupezza di quest’anno ha influito anche sui libri pubblicati. O forse ha influito su di me che li leggevo e non li trovavo mai abbastanza belli. O forse alcuni libri bellissimi mi sono sfuggiti. Perché, per la prima volta, non ho trovato 10 titoli di libri bellissimi tra i 141 letti durante l’anno- specifico il numero perché non sembri che ne ho scelto dieci su venti. E, per la prima volta, non seguirò l’ordine alfabetico per elencarli, perché il libro che indicherò per primo si distanzia dagli altri e ha un posto a sé nella lista, occupando anche quello del secondo e del terzo.

Come ogni anno sottolineo che, naturalmente, è una scelta che riflette il mio gusto personale e non vuole togliere nulla ad altri libri che non ho considerato e che non ho usato la bilancia dell’orefice per soppesare il grado di bellezza.

1-        1     Nino Haratishvili, “L’ottava vita”    Ed. Marsilio

2-        2

3-        3  

4-    Kiran Millwood Hargrave, “Vardø. Dopo la tempesta”   Ed. Neri Pozza

5     Kader Abdolah, “Il sentiero delle babbucce gialle”     Ed. Iperborea

6     Daniel Mason, “Soldato d’inverno”   Ed. Neri Pozza

 Nogami Yaeko, “Hideyoshi e Rikyu. Il Signore della guerra e il maestro del       tè”                                                                                 Ed. ObarraO

8      Elizabeth Strout, “Olive, ancora lei”      Ed. Einaudi

9      Uwe Timm, “La scoperta della currywurst”  Ed. Sellerio

10    Sandro Veronesi, “Il colibrì”   Ed. La Nave di Teseo

 

lunedì 28 dicembre 2020

Bae Suah, “Notti invisibili, giorni sconosciuti” ed. 2020

                                                                 Voci da mondi diversi. Corea


Bae Suah, “Notti invisibili, giorni sconosciuti”

Ed. Add, trad. Andrea De Benedettis, pagg. 162, Euro 18,00

    Il teatro per non vedenti di Seoul chiude i battenti. Ultimo giorno di lavoro per la ventinovenne ex-attrice Ayami che, però, ha già trovato un’altra temporanea occupazione- la sua amica le ha chiesto di fare da guida ad un poeta straniero che arriverà all’aeroporto di Seoul quella stessa sera. Mentre è seduta sugli scalini del teatro, Ayami sente una voce provenire da una radio nascosta chissà dove e i versi della poesia di Neruda, Non star lontana da me…un solo giorno…perché,/ perché…è lungo il giorno,/ e ti starò attendendo… A volte, però, la voce della radio comunica le condizioni meteorologiche che interessano i marinai, la forza del vento, pioggia in arrivo…Dovevano essere interferenze, ma il tecnico del suono, che arrivava su un autobus bianco di cui era il guidatore e l’unico passeggero, non aveva mai risolto il problema.

   I versi di Neruda, le previsioni meteo (in una Seoul che si sta sciogliendo per il caldo), l’autobus bianco e un’infinità di altri dettagli- l’abito inamidato della bambina cieca, una fotografia che ritrae Ayami, l’uomo folle con gli occhi striati dai capillari rossi, un paio di scarpe, “La civetta cieca” (capolavoro della letteratura iraniana, una discesa negli abissi allucinati della coscienza, dello scrittore Sadegh Hedayat), scorci di strade- ritornano più e più volte nelle pagine del romanzo della giovane scrittrice coreana Bae Suah. È un romanzo con una trama sfilacciata che non è neppure una trama, se da una trama ci aspettiamo che ci narri qualcosa che accade. Una trama che, ridotta all’osso, si riduce  a ventiquattr’ore in cui Ayami prima pranza con il suo capo, poi si dirige all’aeroporto e infine visita Seoul con il poeta straniero. Ma i punti fermi della narrazione sono pochi perché prevale un’atmosfera fluttuante e indefinita da sogno in cui non è mai chiaro il confine tra il reale e l’immaginato, tra il concreto e la fantasia della mente. Pensiamo al verso di Calderòn de la Barca, la vita è sogno e i sogni sono sogni. Pensiamo a “Doppio sogno” di Schnitzler e al film “Eyes wide shut” e smettiamo di chiederci il significato di quello che leggiamo, lasciandoci trascinare in un labirinto in cui inseguiamo divertiti le immagini fuggevoli che giocano con noi, cercando di ricordare dove le abbiamo già incontrate, sorprendendoci a fare come Ayami che legge il labiale anche sulle labbra delle persone che può perfettamente udire con le sue orecchie. Perché il labiale è meno esplicito, nel labiale anche il linguaggio fluttua tra il vero e l’immaginato.

   Questa incertezza costante, che  sembra essere la cifra del nostro mondo, riguarda anche i personaggi- Ayami sembra a tratti trasformarsi nella sua amica Yoni, così come è incerta l’identità del suo capo e pure del poeta scrittore. E la scomparsa di Yoni, su cui si indaga, non è mai risolta. Ma esisteva davvero, poi, Yoni? O era un doppio di Ayami?

    Quanto a Seoul, è una città altrettanto sfuggente quanto i protagonisti di questa storia. Mai ben delineata, effimera, avvolta nell’oscurità della notte o in una foschia da sogno- il sogno di chi? Chi è che sta dormendo e ci sta sognando? “Portami in un altro mondo”, sussurra il direttore prima di morire in maniera alquanto misteriosa. Quale altro mondo? Perché Ayami ha detto al poeta che nessun treno può superare il confine e il mondo, allora, incomincia e finisce in Corea.

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sabato 26 dicembre 2020

William Andrews, “Le figlie del dragone” ed. 2020

                             Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America

   Corea

William Andrews, “Le figlie del dragone”

Ed. Superbeat, trad. Chiara Brovelli, pagg. 298, Euro 18,00

   Anna aveva solo cinque mesi quando era arrivata all’aeroporto di Minneapolis per essere consegnata ai genitori adottivi. Da loro avrebbe ricevuto amore incondizionato, la possibilità di studiare, il calore e la sicurezza che una famiglia può offrire. Se la madre adottiva- la sua mamma, l’unica che conosceva- non fosse morta, Anna non avrebbe mai sentito la necessità di cercare la madre biologica, di partire per la Corea dove era nata ma che non riusciva a considerare come il suo paese.

   È così che Anna si ritrova, insieme al padre che l’ha accompagnata, nella sala d’attesa di un orfanotrofio di Seoul, per sentirsi dire che sua madre è morta dandola alla luce. È delusa, Anna? Forse, forse si era immaginata di conoscere anche dei fratelli e delle sorelle. Mentre sta andando via, però, viene raggiunta da una donna anziana che le mette in mano un pacchettino  e le chiede di andare da lei, da sola, all’indirizzo che le ha scritto. Quando Anna srotola il tessuto che avvolge il pacchetto, si trova tra le mani un oggetto bellissimo che sa di antico, che sa di una storia che deve esserle rivelata. È un pettine di tartaruga con il dorso d’oro e il manico d’avorio in cui, con un lavoro finissimo, è intagliato un drago a due teste. E- un dettaglio che le verrà fatto osservare in seguito- cinque dita nelle zampe.

Mugunghwa, fiore simbolo della Corea del Sud

   La vecchia signora è la nonna materna di Anna, Anna con il nome palindromo che porta in sé la sua duplice identità, quella americana e quella coreana che però ha un altro nome, Ja- young, il nome di un’imperatrice.

La storia di Hong Jae-hee è una storia tragica di cui abbiamo già letto ma che, nel romanzo di William Andrews si arricchisce di un elemento politico con la Storia di una doppia Corea (un altro doppio, dopo quello dell’identità di Anna?). Inizia nel 1943 quando Hong Jae-hee e la sorella maggiore, obbedendo all’ordine dei giapponesi che dal 1910 hanno assoggettato la Corea, si presentano per lavorare in una fabbrica di stivali. Si tratta di tutt’altro. Insieme ad altre ragazze, ignare quanto loro, sono destinate ad essere ‘le donne di conforto’ dei soldati giapponesi. Quale ironia in questo eufemismo che definisce le schiave del sesso per cui neppure la parola prostitute è adeguata.


Una prostituta viene pagata, invece queste ragazze dovrebbero sentirsi onorate di offrire conforto ai soldati, al ritmo di trentacinque al giorno. Stuprate, maltrattate, obbligate a sottostare ad ogni ignobile richiesta, sempre affamate, costrette ad abortire se restavano incinte e quasi sempre destinate a morire di conseguenza. E Jae-hee aveva solo quattordici anni.

    È veramente il drago intagliato nel pettine che le porta fortuna, che le permette di scampare alla strage finale, quando ormai i giapponesi sanno di aver perso la guerra, di fuggire, di trovare aiuto unendosi ai comunisti di Pyong-yang che seguono il leader Kim Il?

   Ci vogliono ore alla nonna per raccontare la storia della sua vita, che non finisce a Pyong-yang ma continua con un’altra fuga in cui Jae-hee deve tenere nascosto il suo passato, per vergogna quello come ianfu e per prudenza quello come comunista. Deve arrivare a dirle della sua nascita, del nome che le aveva dato. Soprattutto deve dirle la storia del pettine e del drago che, con le due teste rivolte in due direzioni diverse, difende la Corea dalla Cina e dal Giappone.

   

vaso di ceramica celadon 

“Le figlie del dragone”, con un epilogo che lascio a voi scoprire, è un romanzo che appassiona, che unisce la realtà di una Storia per cui tuttora le poche donne superstiti cercano giustizia (il Giappone ha sempre tergiversato e non ha mai riconosciuto del tutto le sue colpe e tantomeno risarcito adeguatamente le vittime), con quella della Storia più recente della guerra civile e con una storia fantastica che sa di leggenda e di antichi miti. È come se il romanzo volesse sottolineare il valore dell’inestimabile patrimonio culturale di un paese antico, diverso ma non di certo inferiore rispetto all’America e a quello che il suo nuovo mondo rappresenta. Soltanto scoprendo il suo paese di origine Anna dal doppio nome riuscirà a conciliare la sua doppia identità in questo che è, anche e forse soprattutto, un romanzo sulla ricerca di un’identità sradicata e trapiantata.

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martedì 22 dicembre 2020

Haruki Murakami, “Abbandonare un gatto” ed. 2020

                                                 Voci da mondi diversi. Giappone

Haruki Murakami, “Abbandonare un gatto”

Ed. Einaudi, trad. A. Pastore, illustrazioni di E. Ponzi, pagg. 76, Euro 15,00

    ‘Dove parlo di mio padre’, recita il sottotitolo. E, ‘Cosa ricordo di lui…’, è la frase con cui inizia questo libro breve di memorie senza un ordine, il tentativo di Haruki Murakami- forse il massimo scrittore giapponese vivente- di dare una sorta di eternità alla figura di suo padre con cui non aveva avuto contatti per anni. C’è una punta di rimorso o di rimpianto, quando si accorge di questa cesura nelle loro vite? O c’è l’accettazione di un allontanamento naturale, reso necessario dall’esigenza di costruire un sé indipendente dalla personalità paterna?

   I ricordi si presentano senza una logica di importanza, o forse con una loro logica non apparente, per una rilevanza soggettiva in quel momento in cui sono stati vissuti. Così il primo ricordo è del giorno in cui lo scrittore bambino, con in mano una scatola che conteneva una gatta e appollaiato sul portapacchi della bicicletta, era andato con il padre alla spiaggia per abbandonarvi la gatta. Erano tutti amanti dei gatti, in casa sua, ma quella gatta randagia era incinta e forse era di troppo. Fatto sta che padre e figlio depositarono la scatola sulla sabbia, risalirono in bicicletta e tornarono a casa. Dove avevano trovato la gatta lì, sulla porta, a salutarli con il suo miagolio. Come aveva fatto ad essere più veloce di loro? Un miracolo che doveva restare impresso nella memoria del bambino, insieme all’allegria e al sollievo del padre nel vedere la gatta.

   Eppure, nonostante l’apparenza, non è affatto un ricordo irrilevante. Ci anticipa qualcosa del carattere mite del padre, del groviglio di sentimenti e ricordi suoi che deve portarsi dentro. Che cosa ci vuol dire, infatti, suo padre, con la preghiera mattutina davanti alla statuetta di un bodhisattva (ricordiamo che il bodhisattva è colui che, pur avendo raggiunto l’illuminazione, rinuncia al nirvana e continua a reincarnarsi per aiutare gli altri a raggiungerlo, spendendo per loro i propri meriti)? Alla domanda del figlio aveva risposto che pregava per “le anime di chi è morto in guerra”, per i soldati giapponesi e per quelli cinesi, quindi, senza fare distinzione. Perché suo padre, nato nel 1917, era appartenuto ad una generazione sfortunata. Aveva studiato in scuole a indirizzo buddista, era stato arruolato nel 1938, aveva combattuto in Cina. C’erano delle incertezze riguardo al suo reggimento e il figlio aveva preferito a lungo di non sapere nulla di preciso. Era arruolato forse nel 20° reggimento che era stato responsabile del massacro di Nanchino? E però- un macigno che si solleva dal cuore- se suo padre era stato arruolato nel ‘38, non poteva aver preso parte ai crimini di guerra, a quello che viene chiamato sia ‘lo stupro di Nanchino’ sia, più ambiguamente, ‘l’incidente di Nanchino’, dividendo tuttora le coscienze giapponesi e che era avvenuto nel dicembre del 1937. Dopo ci sarebbe stata la seconda guerra mondiale…La generazione sfortunata.

   Suo padre non parlava mai della guerra e per il figlio è più facile immaginarlo come lo studioso di buddismo e poi di letteratura che come l’uomo che imbraccia un fucile. Come lo scrittore di haiku, piuttosto che come l’uomo che assiste alla decapitazione di un prigioniero- un’immagine che doveva essere impressa a fuoco nella mente del padre se aveva dovuto cercare di alleviarne il ricordo condividendolo con il figlio. E lui, il figlio nato nel 1949 nel difficile dopoguerra del Giappone (è strano che non ci sia alcun accenno alla ‘bomba’), era stato una delusione per il padre? Lo aveva desiderato più studioso e invece a lui la scuola non interessava?

   Riorganizzare i ricordi ha la sua importanza per Haruki Murakami, che per la prima volta si ripiega su se stesso in una confessione intimistica- forse è quello che accade ad ognuno di noi con il passare degli anni, quando abbiamo raggiunto l’età che era quella dei nostri genitori.

   “Io riesco a pensare soltanto scrivendo, ho bisogno di rivangare la memoria, riconsiderare il passato e trasformarlo in parole che si vedano e in frasi che si possano leggere.” Mi fermo a queste parole, aggiungendo quelle, pure molto belle, di poche pagine più avanti: “Ognuno di noi è una delle innumerevoli, anonime gocce di pioggia che cadono su una vasta pianura. Una goccia che ha una sua individualità, ma è sostituibile. Eppure quella goccia ha i suoi pensieri, ha la sua storia e il dovere di continuarla.” Questa è una prosa bella come i versi di un haiku.

    I disegni di Emiliano Ponzi che illustrano il libro, mutuando in maniera mitigata i tratti dei manga giapponesi, sono stupendi.

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domenica 20 dicembre 2020

Henning Mankell, “L’uomo della dinamite” ed. 2020

                                                                      vento del Nord

Henning Mankell, “L’uomo della dinamite”

Ed. Marsilio, trad. A. Albertari e A. Scali, pagg. 172, Euro 16,00

    Henning Mankell aveva venticinque anni quando scrisse “L’uomo della dinamite”, il suo romanzo d’esordio. Nella prefazione, scritta un quarto di secolo dopo, per una nuova edizione nel 1997, Mankell ricorda il periodo di felicità, di energia e di speranze in cui si dedicava alla stesura del libro- su una macchina da scrivere inaffidabile, con tasti norvegesi. Un tempo in cui “tutto era ancora possibile. Nulla era ancora perduto, né già scritto.” In quei venticinque anni tante cose erano cambiate, “ma i poveri e gli emarginati sono diventati ancora più poveri” e “rileggendo questo libro, dopo tutto questo tempo, mi accorgo che un quarto di secolo non è stato poi così lungo. Quello che ci trovo scritto vale in gran parte ancora oggi.”     

     Perché la storia dell’uomo della dinamite è una storia emblematica e non è un caso che Mankell l’abbia scelta per raccontarcela. Il Mankell giovane che sentiamo partecipe della sorte dell’operaio Oskar Johansson è lo stesso Mankell desideroso di giustizia sociale che abbiamo conosciuto con il personaggio mitico di Wallander, il protagonista dei romanzi scritti più tardi con una scelta di genere che poteva raggiungere un pubblico più vasto di lettori. E in questa luce, dopo aver letto le vicende di Oskar, comprendiamo anche quanto sia stato adeguato affidare ad un commissario di polizia, che nell’immaginario rappresenta ‘la legge’, il suo messaggio di giustizia e uguaglianza.

    Nel 1911 il giovane Oskar Johansson rimane vittima di un grave incidente durante i lavori di perforazione di una montagna per la creazione di una galleria ferroviaria. Lo davano per morto e invece era sopravvissuto. Aveva perso un occhio e una mano, aveva subito un’infinità di interventi ricostruttivi e aveva perso anche la fidanzatina. Eppure Oskar aveva ripreso a lavorare come brillatore, ormai era una figura leggendaria.

    Leggiamo il racconto della vita di Oskar Johansson, parte in terza persona, parte filtrato da un ascoltatore/narratore che lo conosce quando Oskar è ormai anziano e vive in solitudine su un’isoletta dell’arcipelago- il suo interesse per il socialismo e la reazione del padre che lo aveva cacciato di casa, la ragazza incontrata ad una manifestazione e che, guarda caso, era la sorella della sua ex fidanzata (sarebbe stato un matrimonio felice, con la nascita di due figli), il lavoro e l’inizio delle rivendicazioni operaie, l’acquisto della casetta di legno sull’isola, il bisogno di solitudine, il declino della salute già gravemente compromessa.

   C’è una riflessione costante che accompagna tutta la narrazione, quella sulla sorte comune dei lavoratori- e Oskar vede se stesso come una copia di prolungamento degli uomini della sua famiglia, padre, nonno, bisnonno. Eppure qualcosa deve cambiare. Oskar non è un rivoluzionario. Che strano, che sorte paradossale. Un uomo che ha lavorato come brillatore, che ha sempre maneggiato la dinamite, usa l’esplosivo soltanto per raffigurare quello che si auspica, quello che ci vorrebbe per cambiare una società in cui un uomo può diventare uno storpio come lui e non essere protetto da alcuna garanzia assicurativa. “Un bel botto di dinamite, e tanti saluti a tutti.”

    Che cosa leggiamo in queste parole? Più scoraggiamento che speranza, perché, “Dove diavolo è andato a finire il socialismo? Allora si camminava tutti insieme. Volevamo cambiare le cose, per noi stessi e per gli altri.”

  Sono passati cinque anni da quando Henning Mankell ci ha lasciato. La sua voce, però, si fa sentire ancora, ed è un poco straniante. Sembra che venga dall’aldilà eppure è vicinissima a noi perché ci parla di un problema sempre attuale. E dobbiamo confermare la nostra ammirazione per un grande scrittore, capace di anticipare, in questo libro della giovinezza, la tematica dei romanzi che avrebbe scritto in futuro, con una costanza di pensiero, di ideali, di intenti, con una semplicità di stile che si adatta perfettamente all’uomo semplice che era Oskar Johansson. 

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venerdì 18 dicembre 2020

Nogami Yaeko, “Hideyosh e Rikyu” ed. 2020

                                                   Voci da mondi diversi. Giappone

       biografia romanzata
   la Storia nel romanzo

Nogami Yaeko, “Hideyosh e Rikyu”

Ed. ObarraO, trad. B. Torrani, pagg. 436, Euro 18,00

    “Il signore della guerra e il maestro del tè”, recita il sottotitolo di questo romanzo affascinante scritto da una donna eccezionale, la scrittrice giapponese Nogami Yaeko nata nel 1885 e morta nel 1985- una vita lunghissima vissuta all’insegna della cultura. Nagomi Yaeko aveva studiato a Tokyo in una scuola femminile di stampo occidentale, il che spiega il suo interesse per la letteratura europea- tradusse in giapponese “Orgoglio e pregiudizio” e disse lei stessa di aver avuto in mente il legame tra Nerone e Petronio in “Quo vadis” per raccontarci quello tra il signore della guerra e il maestro del tè, due figure agli antipodi per ciò che rappresentano. Sono il mondo dell’azione violenta, dell’uomo che sguaina una spada, e quello della serenità e della calma, dei gesti rituali che versano l’acqua calda nella ciotola raku con la polvere del tè. Il signore della guerra Hideyoshi e il maestro del tè Rikyu, il samurai e il monaco zen.

   La parte iniziale del romanzo può essere un poco sconcertante per il lettore occidentale, precipitato dentro il mondo lontano del Giappone del 1500 in cui ogni momento della vita quotidiana è scandito da usanze a noi ignote. Nonostante che nel titolo il nome di Hideyoshi preceda quello di Rikyu, è quest’ultimo il primo personaggio che conosciamo e sarà lui il vero protagonista, il maestro del tè che si darà la morte per ordine del suo signore e che resterà per sempre vivo nel suo insegnamento. Perché l’essenza del pensiero di Rikyu è il concetto di wabi-cha: il wabi è semplicità, povertà, rifiuto dell’ostentazione.


Nel castello di Osaka la stanza del Tè di Hideyoshi era in oro- soffitto, pareti, l’alcova, i telai delle finestre di quella stanza di tre tatami erano in oro. Anche gli utensili erano d’oro- il contenitore del tè, il mestolo, il vassoio, le bacchette per disporre i carboni per scaldare l’acqua. La stanza del Tè preferita di Rikyu seguiva invece lo stile wabi: piccolissima, in una capanna di paglia, con gli utensili di una spoglia bellezza. Il maestro di Rikyu gli aveva insegnato che “wabi significa avere uno splendido cavallo in una capanna di paglia” e forse “l’essenza della cerimonia del tè era semplicemente nel far bollire dell’acqua e bere il tè”. Anche l’ingresso della stanza wabi di Rikyu aveva il suo significato- era così piccolo e basso che bisognava mettersi in ginocchio per entrare o uscire. E acquista allora un significato, che il potente e possente Hideyoshi debba gattonare per assaporare il tè che Rikyu, il maestro del tè a suo servizio nonché suo consigliere politico, gli ha preparato?

Wabi-cha stanza del té

   Di certo alla fine Hideyoshi lo interpreta come un desiderio di umiliarlo da parte di Rikyu e legge la stessa intenzione nella statua lignea di Rikyu che è stata messa all’ingresso del tempio di Daitokuji, proprio sopra il portale, così che chiunque entri debba passare sotto i suoi piedi. È intollerabile per Hideyoshi, che soffre nella consapevolezza di essere inferiore a Rikyu per nascita e per educazione, nonostante abbia creato una leggenda intorno a sé, inventandosi di essere figlio illegittimo dell’imperatore. E forse aveva finito per crederci pure lui.

    Quando gli avevano riferito che Rikyu aveva messo in dubbio il successo della guerra che Hideyoshi, con le sue ambizioni espansionistiche, pensava di intraprendere contro la Cina, per Hideyoshi era stato il colmo- era un’offesa inaccettabile alla sua grandezza, era disfattismo. Dapprima aveva allontanato il maestro del tè dalla corte, poi aveva emesso l’ordine che Rikyu facesse seppuku, per eliminare del tutto la sua presenza.

    Eppure Hideyoshi non odiava Rikyu. La bellezza straordinaria di questo romanzo sta nella maniera in cui, con quella finezza di tratto che è tutta giapponese, il rapporto amore-odio, rispetto-invidia, viene messo a fuoco a poco a poco, mentre i due personaggi principali sono circondati da mogli, concubine, fratelli, figli, ognuno che aggiunge qualcosa alla vicenda. E intanto a noi, sciagurati bevitori frettolosi di tè in bustine, viene svelato un mondo che ha una sua sacralità e un suo significato di pace e di bellezza, di purificazione e di riflessione. Fuori della capanna di paglia che serve da stanza del tè c’è furore e vanitas, dentro c’è un fiore, un kakemono appeso nel tokonoma, le braci ardenti, la tazza, l’acqua che gorgoglia.

Tokonoma

    Un libro da leggere. Perché vi arricchirà. Perché non è solo la storia di un signore della guerra e del suo maestro del tè.

    Da questo libro il film “Morte di un maestro del tè”, con la regia di Kei Kumai, vincitore del Leone d’Argento a Venezia nel 1989.

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martedì 22 dicembre, h.15, il libro sarà presentato ne "Il salotto in libreria della Libreria Bocca"  in Galleria Vittorio Emanuele II, e in diretta Facebook sul profilo della libreria.




mercoledì 16 dicembre 2020

INTERVISTA A NICOLE VOSSELER, autrice de "La Baronessa del Ghiaccio" 2020

                                         Voci da mondi diversi. Area germanica

   

È una delle tante cose che ci mancano, in questo terribile anno 2020, il non poter incontrare di persona uno scrittore per chiedergli di soddisfare tutte le nostre curiosità riguardo al libro che abbiamo letto. E dobbiamo accontentarci allora, meglio che niente, di una intervista per posta elettronica.

C’è un personaggio vero nel romanzo ed è Frederic Tudor, il Re del Ghiaccio. È stato lui a darLe l’idea iniziale? Che cosa è vero e che cosa è finzione ne “La Baronessa del ghiaccio”?

     

Un giorno mi ha telefonato il mio agente, mi ha chiesto se avevo mai sentito parlare del Re del Ghiaccio di Boston. Sapevo che prima dell’epoca dei frigoriferi il ghiaccio veniva tagliato dai fiumi e dai laghi gelati. Ma mi pareva del tutto assurdo mandare per nave il ghiaccio in India, come faceva Tudor, perdendo a volte più di metà del carico durante il viaggio e ricavandoci ugualmente una fortuna. Ed era, decisamente, una storia che volevo raccontare. Oltretutto, nella stessa telefonata, il mio agente citò un libro illustrato che avevano avuto in agenzia, sulla Russia del secolo XIX. Ricordava nettamente la figura di un ragazzino che raccoglieva ghiaccio sul fiume Neva gelato e subito Grisha fece capolino nella mia testa.

     Fu quella la scintilla iniziale da cui sviluppai la storia di Katja e Grisha. I personaggi di un romanzo sono sempre reali per me, devo soltanto trovarli nel loro mondo fittizio, ognuno una personalità autonoma. Il mio lavoro- non molto diverso da quello di un archeologo- è quello di scavare nel loro sfondo culturale e storico per trovare le loro biografie.

Nei documenti non sono riuscita a trovare nessun riferimento a commercianti di ghiaccio in Amburgo- con quello mi sono presa una libertà. Anche se, con il suo porto e la sua storia di commerci, Amburgo sembrava una base perfetta per questo tipo di affari, oltre ad avere una storia interessante da raccontare di per sé.

Anche il ghiaccio è un personaggio, insieme a Katja e a Grisha. Mi sono piaciute e mi hanno interessato molto le definizioni delle diverse specie di ghiaccio all’inizio di ogni parte. Mi è sembrato che fossero un tentativo per raccontare al lettore le sfumature di un personaggio chiamato ‘Ghiaccio’. Era questo che aveva in mente?

    Mi piace molto l’idea del ghiaccio come un personaggio! Volevo che il ghiaccio fosse presente in tutto il romanzo, non soltanto dentro la vicenda, ma come una sorta di sottocorrente. Ormai sappiamo tutti che il nostro pianeta, così come lo conosciamo, verrà scardinato se non fermiamo il riscaldamento globale che causa lo scioglimento della calotta polare e dei ghiacciai. Però era per me una novità che il ghiaccio fosse stato una forza conduttrice nel far emergere la vita sulla terra, che ogni goccia di pioggia fosse ghiaccio prima di cadere sul terreno e che la frizione dei cristalli di ghiaccio nelle nuvole causasse tuoni e lampi.

Era questo che volevo esprimere: il ghiaccio, in apparenza così semplice, così fragile ed evanescente, non è niente di meno che una forza della natura. Che è sempre presente e che foggia il nostro mondo- qualcosa di cui per lo più non siamo consapevoli.


E poi avevo anche l’impressione che ci fosse un rapporto sottile tra il tipo di Ghiaccio che introduceva ogni sezione e il contenuto di quella parte del romanzo- l’esempio più chiaro è il ghiaccio Polvere di Diamante per l’ultima parte che termina con uno scintillante successo. È tutta una mia immaginazione?

     Questa era esattamente la mia intenzione. Ero affascinata dalle molte forme del ghiaccio descritte nei testi di glaciologia, dai loro nomi nelle diverse lingue- mi parevano poesia. E scoprii presto che alcuni erano dei perfetti leitmotifs per i diversi stadi della storia che avevo in mente.

In un altro tempo Katja sarebbe potuta diventare una glaciologa come Smilla, a cui ho pensato, mentre leggevo. I due personaggi sono diversi, le vicende sono diversissime, ma Smilla le è servita in parte come ispirazione, insieme a Frederic Tudor?

   
   Sì, certamente dovevo pensare anche a “Il senso di Smilla per la neve” mentre prendeva forma il personaggio di Katja con il suo dono speciale. Ho letto il romanzo per la prima volta quando avevo da poco iniziato a scrivere e sono convinta che il soffio gelido che sentivo mentre leggevo mi abbia aiutato a scrivere le scene ambientate nel ghiaccio e nella neve. Mi ha dato letteralmente un assaggio delle regioni polari. E poi, fin dall’inizio, un’ispirazione sono state le favole di Hans Christian Andersen, “La regina delle nevi” e “Cigni selvatici”, che ho sempre amato fin da quando ero bambina. Volevo che il romanzo avesse un tocco di favolistico, perché la mia idea della saga era di una storia ancorata nel passato ma essenzialmente senza tempo.

I due principali personaggi femminili, Katja e Henny, sono l’una l’opposto dell’altra. Sembra che Henny sia lì per mettere in risalto Katja. Katja è un’anticipazione della donna ‘nuova’ del secolo XX?

      Se si osserva la Storia con attenzione, si trovano sempre donne che sfidano le probabilità del loro tempo. Mai ce ne sono state tante come nel secolo XIX, epoca di grande conservatorismo, ma anche di cambiamento e trasformazione.

     Henny rappresenta quello che è familiare, la stabilità, e Katja rappresenta il nuovo e l’ignoto. Insieme abbozzano i contrastanti movimenti di quegli anni.

Anche i quattro personaggi maschili sembrano fatti apposta per far risaltare Katja. Tutti e quattro, Grisha, i due fratelli e l’esperto del ghiaccio, hanno un punto debole. E in un’epoca in cui le donne contavano meno di niente, Katja è una splendida eccezione.    

     Quello che trovavo intrigante nel personaggio di Katja è il fatto che non coincide con lo stereotipo della ragazza ribelle. Ostinata fin dall’inizio, sì, ma non pensa che la vita potrebbe prendere un corso differente da quello di restare ad essere la serva della famiglia. Si aggrappa semplicemente a Grisha quando lui sta per abbandonare per sempre la fattoria. Ma, con il passare del tempo, il suo esempio, le sue esperienze durante il viaggio, e infine (ma non da ultimo) l’impatto di Silja e Johann la incoraggiano a sviluppare e inseguire dei sogni suoi propri. Con il dono speciale che ha, con la sua conoscenza del ghiaccio, lei non è solo di cruciale importanza per il successo dell’impresa. Fin dall’inizio l’ho immaginata come il centro gravitazionale nei rapporti tra i tre uomini, anche nei loro conflitti.

Silberberg- che bel nome per un esperto del ghiaccio- dice a Christian che è incapace di distinguere tra lussuria, amore ed amicizia. In realtà tutti i personaggi sembrano spesso non sapere chiaramente quello che provano. L’amore è traditore come il ghiaccio?

    Tengo una lista di nomi insoliti o belli, per usarli, un giorno, in qualche romanzo. E nel momento in cui ho capito che Katja avrebbe avuto bisogno di un mentore che le insegnasse i fatti scientifici su cui basare il suo commercio, ho saputo che Silberberg sarebbe stato perfetto.

Quando diciamo ‘ghiaccio’, proprio come quando diciamo ‘amore’, in genere immaginiamo soltanto una forma, senza pensare che ce ne possono essere molte altre. Siamo convinti  di sapere come sia il ghiaccio, o l’amore, e come maneggiarlo. Restiamo sorpresi quando, prima o poi, scopriamo che è, in effetti, qualcosa di diverso da quello che ci aspettavamo. Ed entrambi, il ghiaccio e l’amore, sono niente di meno che un miracolo e sono troppo spesso dati per scontati.  

Finora ho letto solo tre suoi libri, ma c’è un viaggio in ognuno. Che cosa è che fa del viaggio- allora ed adesso, a qualunque età- un punto di svolta nella nostra vita?

     Per quanto diversi i miei romanzi possano essere, finora un viaggio è stato, decisamente, il filo conduttore del mio lavoro. Un viaggio espande non solo i nostri limiti esterni ma anche quelli interni. In ambienti nuovi, con incontri, esperienze e sfide inaspettati, scopriamo dentro di noi nuovi lati, buoni o cattivi. A volte dobbiamo perfino superare noi stessi. In ogni caso non ritorneremo mai a casa gli stessi di quando siamo partiti.

So che in Germania è già stato pubblicato il seguito de “La Baronessa del Ghiaccio”. Ero così curiosa che ne ho letto la trama sperando che mi dicesse qualcosa di quello che accadrà dopo, ma naturalmente non mi ha anticipato proprio nulla. Senza rivelare troppo, mi può dire che cosa c’è in serbo per Katja nel suo futuro?

  

Successo e fallimento, tradimento e cuore spezzato, amore e matrimonio- non necessariamente in questo ordine. Una delle sfide più grandi che Katja deve affrontare è diventare la madre adottiva di Betje, una piccola mendicante dei vicoli di Amburgo. Abbandonata dai genitori per un braccio inerte, Betje è colma di rabbia e sfiducia e, senza saperlo, porterà il caos nelle vite dei quattro baroni del ghiaccio. Li aspettano anni burrascosi e, quando Amburgo sarà distrutta da un incendio nel 1842, tutto è in gioco- e nasce un bambino che avrà un ruolo di primo piano nel terzo volume della saga. Lo sto scrivendo adesso…



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Recensione e intervista saranno pubblicate su www.stradanove.it




domenica 13 dicembre 2020

Sophie van Llewyn, “Bottigliette” ed. 2020

                                                            Voci da mondi diversi. Europa dell'Est

    la Storia nel romanzo

        love story

Sophie van Llewyn, “Bottigliette”

Ed. Keller, trad. Elvira Grassi, pagg. 232, Euro 16,00

   Primo flash. Prima bottiglietta da cui escono i ricordi come il jinn dalla lampada di Aladino, in una delle tante interpretazioni che possiamo dare del titolo, “Bottled goods” in originale. Un funerale molto strano, alla presenza di Alina (protagonista e voce narrante), il cugino Matei e la zia Theresa. Nessuna bara sulla Volga nera (viene precisato che nel 1967, in Romania, questa automobile è prerogativa dei notabili del partito), solo una maleodorante scatola delle dimensioni di una scatola di Ramino. Le parole di zia Theresa, riguardo al nonno che era un membro del Partito liberale e che la nonna aveva rimpicciolito per risparmiargli la sorte dei suoi amici, tutti morti mentre scavavano il Canale, suonano oscure ad Alina e a noi lettori.

    Secondo flash. L’inizio della storia d’amore tra Alina e Liviu. È il 1969, in una località di mare. Il mare, quel mistero. Alina non c’era mai andata ed ora le era possibile perché faceva la guida turistica, come Liviu. Stranezza che per noi è un piccolo indizio dell’atmosfera della Romania di Ceaušescu: quando Alina accompagna il gruppo di tedeschi in un negozio per turisti, lei non può entrare. E ai turisti che obiettano, ma come si fa a fare a meno della cioccolata Toblerone o delle scarpe italiane?, Alina parla per bocca del Partito: “A nessuno manca nulla in questo paese”. Agli sposi viene dato un appartamento, il Leader ha a cuore l’interesse di tutti.

Costanza in Romania

   Terzo flash, il più tenero, il più sincero. Una lettera di Alina a Babbo Natale che però non si può nominare in Romania. Il primo desiderio è che Babbo Natale le porti un paio di jeans Levi’s. Seguono gli altri, che leggiamo con una stretta al cuore. Termina con un “Ti prego, non mi deludere”.

    Uno dopo l’altro, leviamo il tappo delle bottigliette. Ogni capitolo è uno squarcio sul passato, la tessera di un puzzle, la ricostruzione degli anni bui della Romania con una dittatura tentacolare. Le nozze di Alina- e potrebbe essere una love story tinta di rosa. Finché il fratello di Liviu fuoriesce dal paese e iniziano gli interrogatori. E non solo quelli, non con metodi garbati. Quando Liviu torna a casa dopo essere stato prelevato dagli uomini vestiti di grigio della Securitate, non è più lui. Non finisce qui. Viene mandato ad insegnare in un paese sperduto, ci impiega tre ore per arrivare. Mentre il rapporto tra Liviu e Alina si sgretola, anche Alina cade nel mirino degli uomini grigi. Un incubo.

i Ceaušescu

    Lascio a voi il compito di completare il puzzle, di stappare le bottigliette, di scoprire come ci possa trasformare un regime politico che si basa sulla forza bruta, che ricorre alla tortura come forma di intimidazione, che incoraggia alla delazione e al tradimento, anche se non c’è mai niente di nuovo sotto il sole- “1984” di Orwell insegna. È molto difficile che l’amore possa resistere, la paura e il dolore fisico hanno la meglio su ogni rapporto, anche quello che dovrebbe essere il più forte, tra madre e figli. E allora, quando è più o meno impossibile evadere dalla prigione che un intero paese è diventato, si ricorre ad un pizzico di magia, come se Aladino imprigionasse di nuovo il jinn nella lampada, con finalità diverse. Un realismo magico rumeno per contrastare gli uomini grigi e tutto quello che rappresentano.

    Sophie van Llewyn, scrittrice nata e cresciuta in Romania che ora vive in Germania e scrive in inglese, ha saputo scrivere un romanzo breve che dice tutto di una realtà che, se ha un colore, è un grigio più scuro di quello degli abiti-uniforme degli agenti della Securitate e che, tuttavia, ha una certa ariosità, una certa poesia, contiene un messaggio di resistenza e di opposizione che è un soffio di speranza.

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