mercoledì 26 aprile 2023

Ermal Meta, “Domani e per sempre” ed. 2022

                                                    Voci da mondi diversi. Albania

la Storia nel romanzo

Ermal Meta, “Domani e per sempre”

Ed. La Nave di Teseo, pagg. 546, Euro 20,00

 

   Se Mura, l’indimenticabile protagonista del romanzo di Alexandra Lapierre, era “La donna dalle cinque vite”, Kajan, l’altrettanto indimenticabile protagonista di “Domani e per sempre”, di Ermal Meta, è ‘l’uomo dalle sei vite’. E c’è qualcosa di straordinario che suscita la nostra ammirazione in chi è capace di mettere un punto ad una parte della propria vita, di girare pagina, di riinventarsi, di ricominciare di nuovo. Perché la prima vita di Kajan scorre in Albania, la seconda lo vedrà a Berlino Est, la terza a Berlino Ovest, la quarta in America e infine la quinta e la sesta di nuovo in Albania, nella chiusura del cerchio.

    È il 1943, quando conosciamo un Kajan di sette anni che vive con il nonno in un paese nel Nord dell’Albania. I nazisti hanno occupato l’Albania, i genitori di Kajan si sono uniti ai partigiani, la vita tra le montagne è lontana dalla guerra, finché appare Cornelius, un disertore nazista che il nonno decide di nascondere. È un uomo buono, Cornelius, una vittima della guerra. Ricambierà il bene che gli viene fatto e soprattutto regalerà la musica a Kajan. Perché c’è la musica, c’è il pianoforte nel futuro di Kajan. Diventerà il miglior pianista di Albania, aprendogli le porte per uscire dai confini, per andare a suonare a Berlino Est.


    La vita di Kajan Dervishi è talmente fitta di avvenimenti che sembrerebbero improbabili se non fosse che sono purtroppo molto reali e la descrizione del viaggio a Berlino, della continua sorveglianza, dei pedinamenti, dei sospetti ci comunicano un senso di disagio, un timore diffuso tipico degli anni della Guerra Fredda. Kajan è un puro, Kajan non ha capito che non ci si può fidare di nessuno e che il tradimento viene sempre da chi è più vicino a noi. Si troverà a Berlino Ovest senza neppure averlo voluto, costretto ad una fuga da topi, lasciandosi dei morti alle spalle, e dovrà assumere una nuova identità. Si chiamerà Jonas, come il compagno morto, che diventerà Joe più tardi in America. La libertà ha un prezzo molto caro.

    Nella sua quarta vita in America (ancora- non è una sua scelta, piuttosto una fuga) Kajan alias Jonas alias Joe deve imparare un’altra lingua per la seconda volta, dimenticare la musica- farà il lavapiatti. A New Orleans, dove scoprirà il jazz e qualcuno scoprirà lui e la magia della sua musica. Sarà l’inizio di una quinta vita di gloria, prima che la sorte si accanisca contro di lui.


      Il destino manovra le vite degli uomini- esistono le coincidenze? Ce ne sono parecchie nell’esistenza di Kajan e in America lo riportano indietro ad un passato che credeva letteralmente sepolto: non era andato lui stesso sulla tomba dei suoi cugini uccisi perché dissidenti? Eppure basta una parola in una lingua che credeva di aver dimenticato e la famiglia si ricompone.

Torna troppo presto in Albania, Kajan, per un compito che pensa sia suo dovere svolgere. Sotto un regime dittatoriale anche i genitori pagano gli errori dei figli- saranno ancora vivi gli zii mandati a lavorare nelle paludi? E sua madre, il suo ruolo nel Partito l’avrà protetta dalla defezione del figlio?

Prima del finale che, con una coincidenza più o meno credibile, porta la serenità, c’è la parte più dura e dolorosa del libro, il tradimento più crudele, gli anni di lavori forzati quando la morte sarebbe ben accolta.

   “Domani e per sempre” è un libro appassionante che in parte riflette la vita dello stesso scrittore che ha lasciato l’Albania con la madre, un fratello e una sorella, quando aveva 13 anni. Ha conosciuto di persona le durezze e la crudeltà della dittatura di Hoxha, ha respirato musica in casa (sua madre era il primo violino dell’orchestra di Fier, in Albania), scrive in una lingua che è diventata la sua e che, facendo eccezione per qualche similitudine strana, padroneggia egregiamente. Quello che piace, nel libro, è il quadro storico di un paese che si affaccia sul mare davanti alle nostre coste ma di cui sappiamo (colpevolmente) poco e la credibilità, la profondità e la vivezza del protagonista. Kajan è uno di quei personaggi che ci spiace abbandonare, quando terminiamo la lettura.

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martedì 25 aprile 2023

Paolo Malaguti, “Piero fa l’America” ed. 2023

                                                                 Casa Nostra. Qui Italia

    romanzo di formazione

Paolo Malaguti, “Piero fa l’America”

Ed. Einaudi, pagg. 208, Euro 18,50

     Un paesino nel Veneto. Fine 800. Una famiglia poverissima, i Gevori. Li chiamano ‘i bisnenti’, i due volte niente, tanto sono poveri. Con tanti figli, però. Il più grande, Piero, ha quindici anni. Dopo di lui, la sorella Lina e il fratellino Tonìn. Dei più piccoli- quanti sono, come si chiamano- sapremo molto dopo, restano ai margini di questa storia che leggiamo con una certa qual oppressione sul petto, perché il tempo, il luogo, i personaggi che la animano sono diversi, eppure ci parlano dell’oggi, di altra gente che affronta un ignoto diverso con le stesse difficoltà.

    Il romanzo di Paolo Malaguti si apre con una scena su cui forse ci poniamo delle domande, prima di renderci conto che, pur essendo tristemente vera, acquista un valore simbolico. Piero e Tonìn vanno in cerca di nidi nel bosco. A Tonìn tocca solo avvistarli, a Piero il compito di arrampicarsi e strappare gli uccellini dal nido, uccidendoli. Con una sensibilità tutta sua, da fratello maggiore, Piero vuole risparmiare a Tonìn questa esperienza cruenta. Si deve pur mangiare, polenta e oséi sfameranno la famiglia, ma non è una cosa che Piero faccia a cuor leggero. Quando saranno lontani migliaia di chilometri, laggiù dove tutto è al contrario, dove l’inverno è estate e dove Piero e Tonìn non capiscono come facciano gli uomini a non cadere se il mondo è rotondo e nell’emisfero sud sono a testa in giù, ci sarà un’altra scena memorabile in cui Piero protegge il fratello, prendendo per sé il fagiolo bianco che lo manderà con altri 49 uomini in una spedizione punitiva contro gli indigeni nella foresta. A Tonìn consegna il fagiolo nero che lo farà restare nella colonia, che non lo esporrà a rischio di morte, che non lo traumatizzerà per sempre con azioni che Piero non farebbe, se non vi fosse costretto. Perché l’autodifesa è come la fame, ti obbliga a fare il Male.


    I Gevori vengono spodestati, devono lasciare la loro casa, per misera che sia. Insieme ad altri del paese partiranno per il Brasile. Chi c’è già stato e viene a reclutare gente disposta ad andare a coltivare i campi laggiù, racconta di terra a volontà, di un paese di bengodi. Pur diffidenti, i Gevori non hanno scelta. Il racconto della prima parte del viaggio, in treno fino a Genova, ha il sapore della novità, il gusto della scoperta, risentiamo un’eco della meraviglia attonita di ‘Carlino scopre il mare’ di Nievo. Poi il viaggio su una nave che a Piero sembra abbia un nome minaccioso, Orione- Piero non conosce il mito di Orione, ed è un bene, visto che in nessuno dei miti che parlano di lui, Orione ha una sorte felice. Non è la nave degli schiavi di “Radici” di Haley, non è neppure un transatlantico di lusso, ma di certo è meglio dei barconi stracarichi che vediamo arrivare a Lampedusa.


    Il Brasile sarà l’infrangersi dei sogni. Il Brasile sarà il banco di prova della tempra di questi uomini che hanno abbandonato la miseria certa per un benessere incerto, per un lavoro durissimo, al pari di quello che avevano svolto, per il nulla davanti a cui si trovano di fronte, perché non c’è neppure una casa nel mato in cui li hanno portati (e loro pensano che il mato sia uno sconosciuto pazzo che si aggira lì). La differenza è che vogliono credere nel futuro, vogliono credere che, dopo aver disboscato, bruciato, seminato, il raccolto sarà abbondante, loro diventeranno ricchi, potranno far arrivare il resto della famiglia che hanno lasciato in Italia.

    “Piero fa la Merica”- il primo romanzo (molto bello) in cui Malaguti si allontana dalla sua terra, proprio come i personaggi del suo libro- è tanti libri insieme. È la nostra Storia, prima di tutto, di un tempo che forse vorremmo dimenticare nel momento in cui siamo chiamati ad allungare una mano ai migranti che sbarcano di continuo sulle nostre coste- le foto sgranate e scolorite di fine secolo mostrano visi di un incarnato un poco più chiaro ma con lo stesso sguardo di paura e di scoramento.


È un romanzo di formazione che inizia tipicamente con un viaggio, viaggio di scoperta anche se non è il Grand Tour dei poeti romantici, viaggio che fa conoscere la morte ma anche l’amore, la delusione d’amore, il tradimento (ancora più doloroso per Piero perché viene da qualcuno della sua stessa famiglia). È un romanzo d’avventura, alla scoperta di un paese lontano che, tuttavia, è già abitato e Piero, con quella sensibilità che gli conosciamo, ha dei dubbi- sul diritto che hanno, loro, di usurpare quelle terre comportandosi nella stessa maniera di chi ha cacciato loro da ‘casa’, di uccidere per affermare la loro supremazia. E gli vengono in mente i nidi e gli uccellini- non è forse la stessa cosa? Piero non dimenticherà mai quello che è stato costretto a fare.

    Dopo tante difficoltà, violenze, morti e colpi della sorte, il finale ha il sapore di una favola a lieto fine, è come il cerchio che si chiude, in un’atmosfera dorata con la compensazione del mal fatto.  

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sabato 22 aprile 2023

Simona Baldelli, “Vicolo dell’Immaginario” ed. 2019

                                                              Casa Nostra. Qui Italia



Simona Baldelli, “Vicolo dell’Immaginario”   

Ed. Sellerio, pagg. 245, Euro 16,00

 

    Lei si chiama Clelia, ha più o meno vent’anni.

    Lei si chiama Amalia e di anni ne ha quasi quaranta.

    Clelia abita in un paese della bassa pianura padana e lavora in una fabbrica di giostre.

    Amalia vive a Lisbona, al mattino si prende cura di una vecchia signora, di giorno fa la sarta e alla sera lavora in un’osteria, nel Vicolo dell’Immaginario.

    Clelia ha una madre incattivita dalla vita e una sorella che ha avuto la poliomelite e zoppica.

     Amalia è sola, ma la accompagna sempre una piccola ombra nera, che non è la stessa di quella che si allunga dietro di lei.

     Clelia si innamora, lui vuole sposarla, con un atto di stupida generosità lei rinuncia a lui.

     Amalia si innamora quando più non se lo aspetta. Lui è molto più giovane di lei, porta un garofano rosso all’occhiello.


    Clelia e Amalia sono la stessa persona ad anni di distanza, dopo che Clelia è andata via da casa con un nodo di dolore. Ha scelto Lisbona come destinazione perché sognavano di andarci insieme, lei e l’uomo che amava, e ha scelto un nuovo nome per sé, quello di Amalia Rodriguez, per ricordare una sera in cui ha ballato con lui.

   Le storie di Clelia e di Amalia sono come due vite parallele, storie di mancanza di affetto, di amore, di gelosia, di rinunce, di tragedia. E così come Simona Baldelli ci fa vivere prima in una realtà piccolo borghese e in un paesaggio che ci è noto, riesce dopo a trasportarci in un altro paese che impariamo a conoscere insieme ad Amalia- il tram che si arrampica per le strette strade di Lisbona, gli azulejos azzurri che decorano le case, il Tajo ampio come un mare. È in questa nuova realtà che se ne sovrappone un’altra sulla scia del realismo magico, in una dimensione fantastica che contiene un messaggio. Se Clelia/Amalia resta attaccata al ricordo del suo grande amore, la vecchia signora Francisca Josefa non riesce a staccarsi da quello di un amore che dura da secoli- tutto il Portogallo, e non solo Francisca Josefa, continua ad aspettare il re Sebastiano il cui corpo non fu mai trovato dopo la sconfitta in Marocco nel 1578; tutto il Portogallo, come Maria Josefa, crede nella leggenda che il Re ventiduenne tornerà come un messia in una mattina di nebbia.


    C’è una scena che è il trionfo del realismo magico e che può piacere o non piacere ma che è grandiosa. È una scena che ha una funzione catartica con le memorie che resuscita e la lezione sulla necessità del perdono- sale la prima nebbia e le anime dei morti escono dal Tago (più di 60000 persone erano stati i morti per il tremendo terremoto del 1755 e poi c’erano tutti gli altri, ognuno un caso a sé), vengono ad unirsi ai vivi che li aspettano e hanno preparato cibo per loro (nel Vicolo dell’Immaginario, per l’appunto), si chiamano l’un l’altro, si riconoscono, si riappacificano. E anche la piccola ombra nera di Amalia finirà per scomparire e lei prenderà una decisione.

   Simona Baldelli ha una scrittura piana, allo stesso tempo poetica e realistica, e piacciono le sue storie di gente comune che si trovano a lottare nelle difficoltà quotidiane.




mercoledì 19 aprile 2023

Patrick Hamilton, “Schiavi della solitudine” ed. 2023

                          Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda



Patrick Hamilton, “Schiavi della solitudine”

Ed. Fazi, trad. Isabella Zani, pagg. 304. Euro 20,00

 

     Ah, l’impagabile piacere di leggere una ‘British novel’! perché è innegabile che “Schiavi della solitudine” sia un romanzo britannico, anche se ora devo affrontare la difficoltà di chiarirne il perché.

    Per l’ambientazione, prima di tutto. Una pensione dal nome decisamente britannico, Rosamund Tea Rooms. L’unico romanzo che mi viene in mente e che si svolge in una pensione in Italia, è stato scritto da un inglese- è il delizioso “Una stanza con vista” di E. M. Forster.

   Per i personaggi. Una pensione è un microcosmo che offre la possibilità di raggruppare una serie di personaggi che hanno in comune la solitudine- se non fosse così, avrebbero una casa loro e una famiglia. E tra i personaggi ci sono sempre un paio di anziane signorine, qualche vecchietto strambo, qualche donna che, per età, può essere definita con il desueto termine di ‘zitella’, l’occasionale giovanotto e, infine, la padrona della pensione, che appare ai margini, impegnata a difendere la rispettabilità di quell’alloggio.

   Per lo stile, raffinato e mai sboccato, preciso, tinto di umorismo lieve ed ironia, colmo di empatia per questi protagonisti che vivono ai margini della vita.


    Ha un nome e un cognome sgradevoli, il personaggio principale di “Schiavi della solitudine”. Si chiama Enid Roach. Cockroach è la parola inglese per scarafaggio- facile immaginare come il suo cognome passasse di bocca in bocca tra gli studenti, quando insegnava, trasformandosi in un dileggiante ‘blatta’ o perfino ‘vecchia blatta’. Quando, alle Rosamond Tea Rooms, la situazione degenererà e quel vecchio soprannome balzerà di nuovo fuori, sarà un brutto colpo per lei. Miss Roach ha trentanove anni, lavora ancora a Londra presso una casa editrice ma si è rifugiata nella cittadina di Thames Lockdon dopo i pesanti bombardamenti. È il 1943, sono molti i soldati americani di stanza in Inghilterra. Un incontro casuale di Miss Roach con uno di questi, il tenente Pike, dà inizio ad un flirt su cui lei si illude, pensa anche che lui le abbia chiesto- tra i fumi dell’alcol- di sposarlo. Saprà dopo che non lo ha chiesto solo a lei. E comunque Miss Roach ha un sussulto di giovinezza, incomincia ad uscire la sera per incontrare il tenente al pub e bere insieme a lui. Finché la coppietta diventa un triangolo, quando pure Vicki, l’amica tedesca di Miss Roach, prende in affitto una stanza nella pensione.

     Miss Roach pensava di essere stata generosa, offrendo la sua amicizia ad una tedesca in tempo di guerra, quando tutti guardavano storto i tedeschi, sospettando che ognuno di loro potesse esser una spia, o comunque simpatizzasse con i nazisti. Verrà ricambiata molto male dall’amica che ne farà oggetto di frecciate malevole, aizzando contro di lei anche il già sgradevole vecchietto a cui piaceva punzecchiarla.


   “Schiavi della solitudine” è una commedia amara che sembra essere la controparte di “Camera con vista” dove l’amore sbocciato tra le stanze della pensione aveva un lieto fine, le chiacchiere intorno al tavolo da pranzo avevano la leggerezza di una vacanza e il paesaggio era quello soleggiato delle colline toscane. Nel romanzo di Hamilton c’è solo un ultimo sogno d’amore che dura un attimo, lo scambio di battute è spesso malevolo e per lo più sotto l’influsso di abbondanti libagioni, il colore che prevale è il grigio- quello delle macerie che ingombrano le strade di Londra, dell’aria, degli abiti, del cibo stesso. E il rombo degli aerei in volo non ci lascia mai dimenticare che c’è una guerra in corso.

    A chiusura del libro una bella postfazione di Doris Lessing ci parla di questo scrittore (nato nel 1904) ingiustamente dimenticato.



  

lunedì 17 aprile 2023

Paul Harding, “Un altro Eden” ed. 2023

                                 Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America

 


Paul Harding, “Un altro Eden”

Ed. Neri Pozza, trad. Massimo Ortelio, pagg. 221, Euro 18,00

 

     Dal 1793 al 1912- tanto lunga o tanto breve è stata la vita di una comunità sull’isola di Malaga, nel golfo del Maine, rinominata Apple Island nel romanzo di Paul Harding.

    L’isola delle mele perché in quella fine del secolo XVIII Benjamin Honey, nero nato in schiavitù, e la moglie irlandese erano arrivati sull’isola con un sacchetto di semi di mela- era il sogno di Benjamin, di diventare un frutticultore. A poco a poco l’isola si era popolata con una comunità di emarginati, pescatori afroamericani, bianchi poveri, irlandesi, indiani, che vivevano di pesca e di quel poco che la terra offriva, in condizioni veramente miserande. Non se ne rendevano conto, però- si può sentire la mancanza di quello che non si sa neppure esista?

    Era inevitabile che, essendo così pochi, si accoppiassero tra di loro- padri con le figlie, fratelli con sorelle. Nella Bibbia non ci viene detto, ma, dopo la fine del diluvio universale, non avevano fatto forse lo stesso, per ripopolare la terra, quelli che erano sull’arca e si erano salvati? Era inevitabile anche che ci fossero delle conseguenze geneticamente e che, nella stessa famiglia, ci fossero bambini dalla pelle scura, mulatti, o biondi e rosei. I Lark, poi, erano tutti ‘scoloriti’, pallidi come fantasmi e non sopportavano la luce del sole- i genitori dei bambini erano fratello e sorella. C’erano poi gli Honey, discendenti di Benjamin-, la vecchia Esther il cui figlio era anche suo fratello. Lei aveva avuto la tentazione di ucciderlo. Aveva ucciso qualcun altro. E c’erano le due sorelle che passavano le giornate lavando i panni degli altri, e Zachary Hand to God Proverbs che viveva dentro un albero cavo intagliando piccole sculture di legno.


    E poi c’era il missionario bianco Matthew Diamond che remava ogni giorno fino all’isola e insegnava ai bambini a leggere e scrivere. Una delle bambine aveva imparato perfino il latino, un’altra era un genio della matematica, un altro era un artista. Eppure Matthew Diamond non poteva fare a meno di esprimere il suo disgusto di fronte ad un nero e fu proprio lui a portare la catastrofe sull’isola segnalando la presenza della comunità che viveva secondo le sue proprie leggi al governatore del Maine.

    Quando sull’isola arrivano medici e specialisti con strani attrezzi per misurare il cranio degli abitanti e per verificare le condizioni di vita, non vedono nessun paradiso terrestre ma solo la sporcizia, i pidocchi, la promiscuità, gli stracci che fungono da abiti, la puzza, l’incredibile puzza. E decretano la fine di questo piccolo mondo: i quarantasette residenti saranno deportati, alcuni di loro saranno internati in un istituto per deboli di mente.

     La scena dei preparativi, del prelievo forzato, della partenza è straziante. È verso una vita migliore che vengono condotti? Può qualcuno arrogarsi questo diritto?


    Lo stile di Paul Harding infonde poesia nel realismo, raggiunge un tono epico nel racconto dell’uragano fatto dalla vecchia Esther che narrava come se lei stessa fosse stata la donna che si arrampicava su un albero stringendo un bambino al petto per resistere alla furia del vento e delle acque. È come rivivere la scena della Bibbia, è un anticipo della fine che verrà veramente, un secolo dopo, ma allora erano state le forze della natura a scatenarsi, adesso erano uomini quelli che strappavano altri uomini dalle loro case e dalla loro terra.

     Dopo il libro di Caroline Laurent, “La riva della collera”, un altro romanzo, simile per molti versi, che ci rivela un sopruso, uno sradicamento, una tragica fine.

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venerdì 14 aprile 2023

Kwon Yeo-Sun, “Lemon” ed. 2022

                                      Voci da mondi diversi. Corea

cento sfumature di giallo

Kwon Yeo-Sun, “Lemon”

Ed. il Saggiatore, trad. Benedetta Merlini, pagg.131, Euro 15,00

 

   Kim Hae-on indossava un vestito giallo come un limone quando era stata ritrovata morta, uccisa con un colpo di mattone alla testa e abbandonata in un parco. Sotto il vestito, niente. E però non recava tracce di violenze.

Era bellissima, Kim Hae-on. Un poco strana, questo sì. La sorella minore, Da-on, doveva controllare ogni giorno che si vestisse adeguatamente, che ricordasse di mettersi la biancheria. Chi poteva averla uccisa? La polizia sospetta di due ragazzi- Shin Jeong-jun e Han Manu. Il primo è un rampollo di buona famiglia, era lui al volante dell’automobile su cui Kim Hae-on era stata vista. Ed è stato Han Manu a testimoniare di averla vista sull’automobile, lui era sul motorino, aveva finito di fare le consegne a domicilio e stava andando a casa. Sul sellino dello scooter, dietro di lui, c’era Taerim, una ragazza che gli aveva chiesto un passaggio. Ma che motivo avevano, l’uno o l’altro, per uccidere Kim Hae-on? Vengono rilasciati entrambi per insufficienza di prove.


    È un ‘giallo’, o meglio, un ‘mystery’ diverso dai soliti, il romanzo della scrittrice sud-coreana Kwon Yeo-sun. Perché manca un’indagine poliziesca, chi continua a fare domande- in un arco di diciassette anni- è la sorella della vittima, ma scoprire chi sia il colpevole non è quello che importa. Quello che viene fuori sono correnti nascoste di rivalità e gelosie, discriminazioni e differenze sociali che incidono pesantemente sulla vita, ad iniziare dal benessere fisico per terminare con una dubbia innocenza comperata.

     Tre ragazze ci parlano di Kim Hae-on, di quanto è successo e delle conseguenze- Da-on, una sua amica e Taerim. I capitoli si alternano e deve esser il lettore a capire chi stia parlando. Uno di questi singolari racconti è sotto la forma di una telefonata in cerca di un supporto psicologico e, naturalmente, noi sentiamo solo una voce e non quella che fa domande all’altra estremità del filo. Sono soprattutto Da-on, la sorella della ragazza assassinata, e Taerim ad aver sofferto per quell’omicidio. Da-on, addirittura, è ricorsa alla chirurgia plastica per assumere le sembianze della sorella morta. Ci è riuscita? Non molto se l’amica, quando la rincontra a distanza di tempo, pensa che ci sia qualcosa di ‘dissonante’ in lei, che Da-on sia ‘a metà tra una Hae-on vecchia e una Hae-on deformata’.

    Il punto di vista dell’amica è quello esterno, quello che è più obiettivo nel parlarci della straordinaria bellezza di Hae-on, delle correnti che ha percepito, a scuola, tra lei ed altri studenti. Da-on è il punto di vista interno alla famiglia, sopraffatta dai ricordi, scossa da come il lutto abbia trasformata la madre che vuole cambiare anagraficamente il nome della figlia morta, dandole quello con cui avrebbe dovuto essere chiamata, incapace di interrompere la ricerca del colpevole. Taerim, infine, è la più elusiva. Ha finito per sposare il ragazzo con cui Hae-on era in automobile- era gelosa di lei? sospettava che il marito fosse colpevole? Perché altrimenti era stato mandato a studiare in America?


     Quanto ai due ragazzi sospettati, il loro ruolo è quello di dimostrare quanto sia ingiusta la vita, quanto siano ingiusti gli uomini. Perché uno è ricco e uno è povero, i loro alibi si equivalgono ma Han Manu, il ragazzo povero, quello che ha soltanto visto Hae-on seduta in automobile, continua ad essere tartassato, l’altro no. In più Han Manu sembra proprio essere perseguitato dalla sorte- ammalato di tumore, gli viene amputata una gamba e ne morirà, MA, se non fosse stato un poveraccio, se gli fosse stata prestata più attenzione, quando si lamentava mentre faceva il servizio militare, non avrebbe potuto salvarsi?

    “Lemon” è un libro interessante, anche se non appassionante. Interessante per quello che ci dice, per vie traverse, sulla Corea, pur lasciandoci perplessi sul finale, come se avessimo in bocca il gusto aspro del limone.




martedì 11 aprile 2023

Andreea Simionel, “Male a Est” ed. 2023

                                                                 Casa Nostra. Qui Italia

     romanzo autobiografico

Andreea Simionel, “Male a Est”

Ed. Italo Svevo, pagg.265, Euro 18,00

    Una città in Romania. Il nome della città lo sapremo molto dopo, quando la ragazzina che è l’io narrante non vive più in Romania ma in Italia ed è inutile dire da dove viene- non la capiscono, glielo fanno ripetere, lo pronunciano sbagliato. Botoşani. La città che ha dato i natali al poeta Mihai Eminescu che viene citato di continuo, una città con dei nomi molto belli per le strade, Strada della Pace, dove abitano loro, dove è difficile attraversare, Strada della Primavera…

   Una famiglia di tre persone- la madre e due figlie- perché il padre è andato a lavorare a Torino, in Italia.

   La prima metà del libro di Andreea Simionel è ambientata in Romania- la scuola, i compagni di scuola, le incursioni nel cimitero che è dietro la Strada della Pace, i piccoli litigi tra le sorelle, i messaggi che mandano al padre sul cellulare, i pacchi che arrivano dall’Italia, attesi con ansia, scartati con gioia sia che contengano cibo (sembra sempre squisito, ‘viene dall’Italia’) o articoli di vestiario. È la madre che sente di più l’assenza dell’uomo di famiglia, che chiede che lui ritorni- due anni sono stati lunghissimi. Quando lui ritorna, lo accoglie come un innamorato.

Eminescu

    Poi la partenza. Ritorneranno tutti con lui in Italia. Anche il cane, sì, anche il cane avrà i documenti per andare a Torino. L’aereo costa caro, il viaggio è lungo e scomodo.

   Torino. E qui il sogno si infrange. Dapprima c’è l’abbuffarsi di tutte le novità, compreso il cibo spazzatura. Dopo viene lo scontro con le difficoltà, con l’essere stranieri ed estranei, con l’essere messi al margine di tutto. A scuola, prima di tutto. Andreea non frequenterà la scuola media, come avrebbe fatto in Romania. In Italia ci sono cinque anni di elementari. E poi non sa la lingua. No, non è stupida, ci vuole tempo per imparare. Dopo otto mesi tutti si meraviglieranno di come parli bene, senza accento. Ci sono poi i litigi in famiglia, per i soldi che non bastano, perché il padre china la testa sul lavoro e non sa farsi valere, perché quello che sembrava bello dentro i pacchi quando li ricevevano i Romania, non lo è più a Torino quando tutti i compagni di scuola riconoscono che viene dal mercato di Porta Palazzo. Non è facile ambientarsi.

Botoşani.

    È la sua propria esperienza che Andreea Simionel racconta, in “Male a Est”. E la racconta nella lingua che ha fatto sua con fatica e che usa in una maniera tutta personale in uno stile secco, asciutto, dalle frasi corte e brusche come di chi ha le idee ben chiare di che cosa vuole dire. E niente come questo tono brusco velato di ironia potrebbe rendere meglio il contrasto tra due tempi e due stili di vita, tra il sogno e la realtà, tra un mondo di certezze e la destabilizzazione causata da chi vive nelle sue proprie certezze e neppure fa lo sforzo di capire ‘l’altro’, lo straniero, la bambina che si chiama Andreea con due e e quello è un nome femminile nel paese da dove viene.

    Un bel romanzo, da leggere perché non esiste una sola verità e neppure una sola realtà, ‘l’altro’ è qui con noi ed è il nostro futuro.

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sabato 8 aprile 2023

Arno Camenisch, “Anni d’oro” ed. 2023

                                                      Voci da mondi diversi. Svizzera


Arno Camenisch, “Anni d’oro”

Ed. Keller, trad. Elisa Leonzio, pagg. 124, Euro 13,50

   Un chiosco con la pompa della benzina, ma anche con barattoli di caramelle ben in mostra, giornali e la possibilità di bere un caffè o una bibita. E poi non è un chiosco qualunque, ha un’insegna luminosa che si vede da lontano, che attira i viaggiatori. E questa insegna, vanto di Margrit e di Rosa-Maria che da cinquantun anni gestiscono il chiosco, assume un valore simbolico- la luce non è solo quella dell’insegna, è pure quella che emanano le due anziane signorine, con la loro empatia, con il loro amabile chiacchiericcio che riporta in vita il passato. Perché loro due sono lì ‘per ascoltare’, per raccogliere le confidenze e gli sfoghi delle persone.

   Cinquantun anni è già più di mezzo secolo. Mezzo secolo visto da un piccolo angolo di mondo in Svizzera, con i ricordi che iniziano dallo storico allunaggio nell’estate del 1969. E già abbiamo un’idea di ‘come’ Margrit e Rosa-Maria (del loro aspetto sappiamo poco o niente, solo che Rosa-Maria deve sempre spingere in su gli occhiali dorati che le scivolano sul naso) rievochino il passato, mescolando le notizie che hanno la vivezza delle immagini viste in televisione o su uno dei giornali che vendono nel chiosco, con qualche aneddoto, qualche battuta che aggiunge un tocco ilare alla notizia ‘pubblica’. Immaginiamo, ad esempio, che qualcuno si sia perso la scena del primo uomo sulla luna perché proprio in quel momento doveva andare al cesso- per sempre lo avrebbe raccontato così, a sua vergogna.


Il tour dei ciclisti che passava sulla strada (e non si parlava allora di doping e neppure di biciclette che in pratica vanno da sole), personaggi famosi, il parroco che va a comprare dei giornaletti che loro gli danno facendo finta di niente, le pene d’amore del postino, le grandi catastrofi naturali, allagamenti e uragani, il compaesano che è rifiorito dopo che la moglie lo ha lasciato, osservazioni sui cambiamenti climatici (e a loro vengono in mente i Moonboots che furoreggiavano in passato quando le temperature erano spesso sotto lo zero, così come i colbacchi di pelliccia), Chernobyl e le conseguenze, qualcuno che ha il vizio del gioco e qualcuno invece che vince al biglietto della lotteria, l’allegria della gente quando è caduto il muro di Berlino…


    “Anni d’oro” è una straordinaria carrellata su cinquant’anni della nostra Storia, mescolando piccole vicende private con eventi di importanza mondiale, perché la nostra Storia è proprio in quel miscuglio, e le vite dei ‘piccoli’ hanno la stessa importanza di quelle dei ‘grandi’ di cui sono un riflesso. E il fascino di questo racconto è proprio in questo, è nella voce delle due donne che sembrano aver vissuto attraverso la vita degli altri- di loro non sappiamo quasi nulla, a parte una serata stravagante di cui parlano gioiosamente.

    Terminiamo la lettura pensando che l’oro del passato è negli occhi e nella mente di chi lo ricorda, è nello scenario illuminato dall’insegna che è come un faro per i viaggiatori, che indica la strada da seguire- e non solo letteralmente.



mercoledì 5 aprile 2023

Hwang Sōk-yŏng, “Il signor Han” ed. 2023

                                                       Voci da mondi diversi. Corea



Hwang Sōk-yŏng, “Il signor Han”

Ed. ObarraO, trad. Andrea De Benedittis, pagg. 144, Euro 14,00

 

  Storia di un uomo, che per ora chiameremo solo ‘signor Han’, come nel titolo di questo breve romanzo- una cronaca dice il titolo originale- dello scrittore coreano Hwang Sōk-yŏng

 

   Storia di una tragica guerra, quella che durò tre anni in Corea- dal 1950 al 1953.

   Storia di un paese che nel 1945 era stato spezzato in due, con un tratto di demarcazione al 38° parallelo.

   Storia vera perché ispirata alla vita dello zio materno dell’autore, medico a P’yŏngyang, nonché alla sorella di questi, madre di Hwang Sōk-yŏng. Da parte sua lo scrittore, nato in Manciuria nel 1943, visse e crebbe a Seoul dove i suoi genitori si erano trasferiti quando lui aveva quattro anni, lasciando il resto della famiglia nella Corea del Nord.


   Storia vera perché anche la traumatizzante esperienza personale di Hwang Sōk-yŏng entra nel romanzo- lui stesso, come avviene al signor Han, fu condannato a ben sette anni di reclusione quando fu considerato colpevole di crimini contro la sicurezza nazionale al suo rientro nella Corea del Sud dopo essersi recato a P’yŏngyang su invito della Federazione della Letteratura. In totale isolamento, Hwang Sōk-yŏng aveva fatto lo sciopero della fame per ben diciannove volte, aveva perso quattordici denti, aveva cercato di continuare a leggere ma poi si era arreso, dimenticando perfino le parole della sua lingua. Fino a risorgere, con uno sforzo di volontà eccezionale, per non diventare un relitto.

P’yŏngyang oggi

    Un relitto. È così che ci appare il signor Han quando lo conosciamo, all’inizio del libro. È il 1971 e lui abita da tre anni in una vecchia casa dove alloggiano altre quattro famiglie. Ha un aspetto miserando, cicatrici sul viso, soffre di insonnia, è spesso ubriaco, tutti lo evitano. Qualcuno ha visto, nella sua stanza, una fotografia in cui il signor Han, ben vestito e giovane, ha al suo fianco una donna molto bella e due bambini. Adesso è giunta l’ultima ora per il signor Han. Mentre i vicini speculano per impossessarsi della sua stanza, il fratello e un amico tratteggiano una prima immagine di questo eroe misconosciuto. Un uomo che ‘era troppo severo con tutti, anche con se stesso’ (prima di tutto con se stesso, come vedremo), che ‘si è sempre fatto carico dei mali di tutto il mondo’, che ‘era inevitabile che finisse vittima di un mondo di carnefici come il nostro’.

    Torniamo indietro nel tempo, un salto brusco che ci presenta il dottor Han Yŏng-dŏk, già professore del Collegio di Medicina di P’yŏngyang ed ora medico presso l’Ospedale del Popolo. È proprio lui, il signor Han, ma un altro uomo, in un altro luogo e in un altro tempo, stimato ginecologo e chirurgo. C’è grande agitazione intorno a lui, la maggior parte dei suoi colleghi sono stati mobilitati, i nemici avanzano, l’ospedale trabocca di feriti. Ecco, come veniamo a conoscere il dottor Han. Per lui i feriti sono tutti uguali, lui non accetta di dare la precedenza ai membri del Partito, sta operando una bambina che ha una scheggia nell’addome, per lei sottrae la morfina e le garze, non si cura delle conseguenze. Ci saranno conseguenze, di tutto il suo comportamento, del suo estraniarsi dalla politica, della sua onestà, della sua integrità. Sfuggirà ad una esecuzione di massa dopo un arresto, fuggirà al Sud e qui- paradossale- sarà accusato di essere una spia del Nord. Si adatterà a fare da copertura, con il suo titolo, in uno studio di sedicenti medici che sono dei macellai. E poi…e poi…finirà come abbiamo visto, diventerà il signor Han.

Seoul oggi

    Soltanto in apparenza il signor Han è un vinto. È lui il vincitore, l’eroe misconosciuto che si piega sotto le torture, ma è solo il suo corpo che si piega, straziato, non il suo spirito. Muore l’ometto alcolizzato e solo, non muore il grande uomo che non è mai venuto meno al giuramento che ha fatto di salvare le vite umane qualunque sia il prezzo personale che deve pagare. Il signor Han ci dà una lezione di coraggio, di umanità, di generosità.

Da leggere.

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