sabato 17 maggio 2014

Hoda Barakat, "L'uomo che arava le acque"- intervista 2003

                                                         Voci da mondi diversi. Medio Oriente



INTERVISTA A HODA BARAKAT, autrice di "L'uomo che arava le acque"


Hoda Barakat è nata nel 1952 in un villaggio di montagna nel nord del Libano, ha studiato a Beirut dove si è laureata in letteratura francese poco prima dello scoppio della guerra civile. Nel 1989 si è trasferita a Parigi dove vive e lavora come giornalista. Nel 2000 ha vinto il prestigioso premio letterario Naghib Mahfouz e nel 2002 è stata insignita dal governo francese del titolo di cavaliere, un onore inconsueto, visto che Hoda Barakat scrive in lingua araba. Stradanove l'ha intervistata in occasione della presentazione del suo romanzo a Milano.


Una Beirut fantasma sullo sfondo del suo romanzo "L'uomo che arava le acque", una visione struggente di una città amata e in rovina. Lei ha vissuto a Beirut, è questa l'immagine che ha con sé della sua città?

      Probabilmente sì. E' vero che è una città inventata, inventata dal dolore che ho accumulato durante il periodo che cadeva in rovina, una città che ho rivisto in sogno, cercando di ricordarmi come era prima che tutto questo cominciasse. E' durato 16 anni il saccheggio e a volte mi domando se ho veramente mai abitato là, nella città che io ricordo. Beirut è passata attraverso una lunga agonia, distrutta giorno dopo giorno, è come un cadavere che è appartenuto un tempo a una persona.

Immagino che Lei usi il francese nella sua attività giornalistica: come mai ha scelto di scrivere in arabo il suo romanzo? anche i suoi precedenti romanzi sono stati scritti in arabo?
   Sì, i miei libri sono tutti scritti in arabo. E' la mia lingua, la mia scelta, il mio ultimo paese. E' vero anche che sarebbe più attraente per il mercato, per essere conosciuta, se scrivessi in francese. Ma il francese non è la mia lingua, né la mia lingua madre, né la lingua da me scelta. Il francese è una lingua magnifica, ma scriverei diversamente se scegliessi di scrivere in francese. Ho quasi un bisogno fisico di questa lingua araba antica e moderna, ricca e difficile da lavorare.

C'è il rombo della guerra continua nel romanzo: lei ha vissuto questa esperienza?
    Ho vissuto a Beirut fino al 1989. Ho accompagnato la mia città e il mio paese nella guerra civile. E continuo a vivere questo dramma per procura, non si esce mai indenni da una guerra così lunga.

 Il personaggio narrante è un uomo: come mai questa scelta? le è stato difficile dare voce a un personaggio maschile?
    Tutti i miei romanzi hanno come protagonista un personaggio maschile molto speciale. Nel primo romanzo un omosessuale, o qualcuno che in ogni modo ha perso la sua identità sessuale; nel secondo, "Malati d'amore", è un uomo che racconta la storia d'amore vissuta con una donna. Non pretendo di prendere il ruolo dell'uomo scrivendo, ma per me è più attraente complicare la composizione, distanziarmi dai miei personaggi e, poichè non parlo di me, voglio essere libera e dimenticare la mia identità sessuale per essere uomo e donna insieme. In fin dei conti uno scrittore non ha sesso. In questo romanzo l'uomo è un lato di un triangolo che non può esistere senza gli altri due lati, che sono la madre e la donna da lui amata.

La donna amata da Niqula, Shamsa, è curda: in che termini si pone il problema delle diverse etnie e delle diverse religioni in Libano?
   La guerra civile ha ridotto il sogno collettivo in briciole. Ne sono stata particolarmente ferita perché io ho creduto a questa armonia che poteva venire da un crogiuolo di persone e pensieri diversi. Sono sempre stata attratta dalle persone diverse da me, mi sono sempre sembrate una fonte di ricchezza. Ma il mondo attuale non va in questa direzione, tende a ripiegarsi su se stesso, a creare gruppi che si isolano, escludendo i "non puri". Questa è una vera perdita, perché si abdica ad aprirsi ed è una perdita non solo locale e regionale, ma universale.

Affascinante il tema delle stoffe come simbolo della bellezza e dell'arte che sono eterne. Da dove le è venuta l'idea e come ha raccolto tutte le storie incantatrici sui tessuti?

    La storia dei tessuti è una storia magnifica, ma almeno all'inizio mi è servita come un alibi per raccontare la storia del mondo attraverso qualcosa di bello. All'inizio questa idea si è accompagnata in me al senso della perdita di un'epoca, quando si sceglievano i tessuti che si adattavano al corpo e c'era una dimensione erotica dell'abito. Ricordo quando ero piccola e andavo con mia mamma nel suk a scegliere le stoffe, toccandole, pensando come potevano essere lavorate e poi c'era il rito della sarta che veniva in casa. Per documentarmi sui tessuti sono andata a vedere esposizioni, mercati e ho scoperto un sacco di cose. La grande scoperta è stata che la storia delle stoffe poteva raccontare la storia di una regione, la storia del mondo, la storia delle antiche civiltà.


E il particolare della malattia della seta studiata da Clérambault?
    E' tutto vero. Clérambault è un vero psichiatra ed è esistito proprio come ho raccontato. Sono stata a vedere gli archivi della sua clinica, gli studi da lui fatti di come la vicinanza della seta poteva far ammalare una donna. D'altra parte perché i musulmani trovavano che fosse troppo pericoloso che le donne uscissero vestite di seta? Perché due perfezioni messe insieme attirano l'ira e il castigo di Dio. Infatti il corpo della donna è già una perfezione e vi si aggiungeva un'altra perfezione, quella della seta che è una perfezione della creazione, perché viene da una proteina e il filo di seta non si lavora, la seta nasce perfetta.

 Da dove viene il titolo del libro?
    Nella citazione di Borges all'inizio del libro si parla degli antichi fenici che solcavano il mare. I libanesi sono una progenie degli antichi fenici e perciò da un lato abbiamo la storia del solcare il mare che è uguale all'arare - e io sono orgogliosa di questa razza curiosa che è andata per mare per vedere che cosa ci fosse oltre l'orizzonte, dall'altra parte è vero che arando l'acqua non si ottiene nulla. Alla fine del libro Niqula si domanda a che cosa sia servito tutto quello che il padre gli ha insegnato, perché si rende conto che è la fine di un'epoca, che lui è proprio come "l'uomo che arava le acque" non lasciando nulla dietro di sé.

Hoda Barakat, "L'uomo che arava le acque"
Ed. Ponte alle Grazie, pagg.184, Euro 12,00        



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