domenica 28 febbraio 2021

Cristina Gregorin, “L’ultima testimone” ed. 2020

                                                                  Casa Nostra. Qui Italia

                                                    romanzo storico

Cristina Gregorin, “L’ultima testimone”

Ed. Garzanti, pagg. 311, Euro 17,00

     Fanno un brindisi finale, prima di separarsi, i protagonisti de “L’ultima testimone” di Cristina Gregorin. Brindano al “coraggio di guardarsi indietro”. Perché è questo che Mirko e Francesca hanno fatto, hanno rivissuto una storia vecchia di 75 anni e solo così possono essere liberi e dare libertà agli spiriti di quelli che l’hanno vissuta in prima persona. I conti sono presto fatti: 75 anni fa terminava la seconda guerra mondiale, “la guerra peggiore che ci sia mai stata”- dice Bruno Tommasi, il nonno di Mirko.

    Trieste. Bruno Tommasi, 94 anni. Prima di morire dice al nipote Mirko due frasi difficili da comprendere: “Trova Francesca Molin. Per la pace di tutti” e “Qualche volta i fratelli camminano sulle orme di Caino e Abele”. Chi è Francesca Molin? ‘la pace di tutti’: tutti chi? Di che pace sta parlando? E chi è nei panni di Caino e Abele?

    Mirko, insegnante di Storia medievale, adorava suo nonno. Pensa che si tratti di qualche colpa lieve, in una vita così lunga come è stata quella del nonno, gli sarà certamente capitato di fare degli sbagli.

   Francesca Molin si è trasferita da anni da Trieste a Milano. È ginecologa al Policlinico, il suo è un lavoro bellissimo: fa nascere i bambini, è il trionfo della vita su tutte le morti che si è lasciata alle spalle. Ora ritorna, malvolentieri, a Trieste. Vuole essere a fianco della nonna, ha saputo che Mirko andrà a parlarle- nonna Alba era amica del nonno di Mirko.

    Vasco Cekic. Era il grande amico di Bruno, quasi un fratello, entrambi istriani, italiani in un terra tormentata che era stata austriaca e diventerà iugoslava. E loro- si sarebbe potuto definirli esuli quando erano fuggiti a Trieste, o sarebbero invece stati in esilio se fossero rimasti là, in un paese che non era più il loro?

Esuli istriani

    Nel 1976 Vasco Cekic era morto suicida. Sarà questo il nodo centrale del romanzo, saranno le indagini per arrivare a capire quello che era successo e perché, sarà infrangere il muro del silenzio di Francesca, chiusa in una solitudine autoimposta, in una diffidenza che allontana gli altri. Nel 1976 Francesca aveva dodici anni, in nessun modo poteva aver avuto un ruolo in quel dramma. Ma, aveva visto qualcosa? Sapeva qualcosa?

    Un’altra figura esce dall’ombra, nella cerchia degli amici di cui solo la nonna di Francesca è ancora viva- Liliana a cui spesso Francesca era stata affidata, giovanissima anche Liliana in tempo di guerra, viene ricordata come ‘la bionda’ o ‘quella delle cartelle’.

   Pensiamo alle parole di Boris Pahor, leggendo il libro di Cristina Gregorin, “Ognuno sa purtroppo soltanto le cose che lo riguardano”. Perché leggiamo e ci rendiamo conto di quanto poco sappiamo, di quanto poco siamo capaci di immedesimarci nella Storia di un’area di frontiera che è stata usata come un bottino di guerra, merce di scambio tra uno Stato e l’altro. Austriaca, italiana dopo il 1918, jugoslava dopo il 1945 quando, come nella ruota che gira, i partigiani di Tito impiccavano e fucilavano gli italiani denunciati come fascisti, gettandone i corpi nelle foibe. Mentre tutta l’Italia festeggiava la fine della guerra, i nazisti si ritiravano dalla Venezia Giulia senza rinunciare alle loro imprese sadiche, i titini imperversavano a Trieste, e molti italiani si univano ai partigiani. E sì, i giovanissimi Bruno, Vasco, Liliana, Alba, erano partigiani. Avevano degli ideali, erano convinti di combattere il Male e non soltanto nazisti e titini.

   “La guerra è come il gioco dell’oca, alla fine si torna sempre allo stesso punto: le gelosie, le invidie, le vendette personali.” È in questa frase che si deve cercare la soluzione del mistero, lo svelarsi dei segreti racchiusi nelle cartelle di Liliana, celati nell’andirivieni di Bruno alla questura, colpe che sono state un fardello così pesante per Francesca da alterarne il carattere.

I personaggi che vivono in queste pagine sono complessi, non sono in bianco e nero, il Bruno che comprava il gelato a Francesca e più tardi a Mirko era quello che aveva imbracciato il fucile e ucciso, perché “non era facile distinguere il male dal bene, nemmeno dentro di noi”. Ognuno di loro ha la sua storia dentro la Storia più grande.

    I protagonisti delle piccole storie nel libro sono tutti morti e quelli della Storia grande stanno scomparendo uno dopo l’altro. E, se è giusto avere indagato in questa storia, se dobbiamo non dimenticare, è anche opportuno, come auspica Francesca, “chiuderla, relegarla ai sussidiari e ai manuali di storia.”

    “L’ultima testimone” è un libro che fa vivere la Storia, che la scolpisce nella memoria, che- come fanno tutti i bei libri- suscita il desiderio di saperne di più.

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a breve seguirà intervista con la scrittrice

recensione e intervista saranno pubblicate su www.stradanove.it



   

venerdì 26 febbraio 2021

Laura Forti, “Forse mio padre” ed. 2020

                                                                    Casa Nostra. Qui Italia

          romanzo autobiografico

Laura Forti, “Forse mio padre”

Ed. Giuntina, pagg. 158, Euro 15,00

     “Forse mio padre”. Che cosa ci dice quel ‘forse’? quale nascosto messaggio struggente contiene questo avverbio di dubbio? Mater semper certa est, lo sappiamo tutti. Ma, e il padre?

    L’io narrante di questo romanzo- la scrittrice stessa- ha saputo tardi da sua madre che il padre biologico non era l’uomo che l’aveva cresciuta, il padre delle sue sorelle e del fratello. Non ne era rimasta sconvolta- aveva sempre avvertito una certa qual lontananza da Mauro, il marito violento di sua madre.

    Quanti ‘forse’ in questo libro. Forse è suo padre l’uomo con la macchia sul viso la cui fotografia Laura vede sulla tomba al cimitero. Forse Mauro sapeva. Forse sapeva o sospettava anche la nonna Gilda, che invitava a casa sua solo sua sorella e mai lei. Forse l’uomo che ogni tanto telefonava era suo padre. Era forse lui l’uomo che una volta aveva visto in casa? Era forse da lui che la mamma andava quella volta che…? Forse…

   Se la memoria si può ricostruire, se la mente può costruire un personaggio come si farebbe con le tessere di un puzzle, fabbricando ad hoc i tasselli mancanti, questo è quello che Laura cerca di fare. Perché ne ha bisogno. Sa che ‘forse suo padre’ era stato l’amore della prima giovinezza di sua madre, quando durante la guerra era sfollata in un paesino in Toscana. Sa che, in un periodo di crisi, sua madre era andata ad Assisi dove si era fermata un mese e dopo nove mesi era nata lei. Da subito il suo rapporto con la madre era stato strettissimo- era forse un indizio anche questo, che la madre tenesse così legata a sé la ‘figlia dell’amore’? Forse perché la considerava solo come figlia ‘sua’, l’aveva fatta crescere nell’ebraismo, unica dei suoi figli?

   E poi, forse, questo non è soltanto un libro sulla ricerca del padre mancante- e, a pensarci bene, erano non uno ma due i padri mancanti nella vita di Laura-, ma un libro sulla complessità del rapporto tra madre e figlia,  un libro sulla madre, personaggio affascinante e ingombrante da cui, forse, l’io narrante riuscirà a staccarsi dopo averla trasformata in un personaggio sulla carta.

      Sua madre aveva quindici anni quando faceva la staffetta per i partigiani in Toscana, con quello sprezzo del pericolo, quella spavalderia che solo i giovani possono avere. Ed era bella, con un’aria fiera. Più tardi aveva piantato gli studi per andare in un kibbutz in Israele. Dopo, però, era tornata e aveva sposato quel Mauro che avrebbe segnato un cambiamento radicale nella sua vita. Aveva abbandonato sogni e ideali, incattivendosi.

    In questo romanzo così sofferto, che assume la forma di una lunga lettera o di un monologo rivolto ad un ‘tu’ che è il ‘forse’ suo padre, è lei la vera protagonista del racconto. È lei a portare il ricordo, l’attenzione dove vuole. Continuo a combattere con mia madre, un corpo a corpo di parole. Scrivo contro di lei, per lei”.

    Il pensiero torna però sempre a lui, alla domanda senza risposta- sarebbe stata forse diversa lei, la scrittrice, se il suo vero padre si fosse fatto conoscere?


Ancora un ‘forse’ che termina il libro, che spiega i tre tondi in copertina- una bambina, un uomo dall’aria discreta, un cane: era forse lui l’uomo con il cane che aveva incontrato nel parco con la nonna, che le aveva regalato il cane che lei desiderava?

    “Mi hai insegnato che si può amare discretamente qualcuno e uscire di scena in punta di piedi”. Non c’è alcun rancore per un padre che ha un posto nel suo cuore pur avendo scelto, e forse per il bene di tutti, di non rivelarsi, di amare da lontano.

    Un romanzo coraggioso per una ricerca coraggiosa.

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mercoledì 24 febbraio 2021

Charlotte Link, “Senza colpa” ed. 2021

                                                Voci da mondi diversi. Area germanica

cento sfumature di giallo

Charlotte Link, “Senza colpa”

Ed. Corbaccio, trad. A. Petrelli, pagg. 392, Euro 19,60

   Un antefatto datato 3 novembre 2006, a West Bromwich nelle vicinanze di Birmingham. La polizia riceve una chiamata di emergenza. La voce di una donna giovane, ansimante come se avesse corso o fosse molto agitata o per entrambi i motivi, sollecita l’intervento della polizia: in un box un ragazzo ha con sé una bambina piccola che non è di certo sua figlia. La ragazza conosce il nome del rapitore, Ian Slade, e sa anche che è malato mentalmente e pericoloso. Non vuole però dire il suo nome, perché ha paura che lui possa ucciderla.

   Tredici anni dopo, 2019. Succedono una serie di fatti che sembrano non aver alcun collegamento l’uno con l’altro, tranne che richiedono l’intervento delle forze dell’ordine e ci sono morti o feriti.

   A Scarborough, in un appartamento preso in affitto per le vacanze, un uomo spara alla moglie e alle due figlie, ma non ha il coraggio di uccidere se stesso.

   Nel corridoio del treno partito da Londra e diretto a Leeds, un uomo insegue Xenia sparando. Xenia ha la fortuna di incontrare il sergente investigativo Kate Linville (sul treno per un fine settimana di vacanza) che ha la presenza di spirito di chiudersi con lei nella toilette. L’uomo spara attraverso la porta, colpendo di striscio Kate. Xenia non lo ha mai visto prima, non ha idea di chi sia.

Scarborough

    In un monologo che sembra quasi una pagina di diario, una persona di 65 anni, divorziato da dodici anni da Alice, ha l’impressione che ci sia qualcuno che tiene d’occhio la sua casa da qualche giorno.

   Sophia Lewis, insegnante di matematica che si era trasferita da poco in un villaggio sperduto vicino a Scarborough, rimane vittima di un terribile incidente. Qualcuno ha teso un filo d’acciaio sul tratto di discesa del percorso che lei faceva ogni mattina in bicicletta. Il suo corpo è volato in alto prima di schiantarsi a terra. Quel ‘qualcuno’ le ha anche sparato senza colpirla (strano, avrebbe potuto finirla).

    Una donna, in parte gelosa e in parte preoccupata, denuncia la scomparsa della sua compagna dalla loro casa in Cornovaglia.

    Non è facile tirare le fila di queste storie diverse, anche perché la North Yorkshire Police è sguarnita- il suo uomo più valido, Caleb Hale, il funzionario per cui Kate aveva chiesto il trasferimento da Scotland Yard, era stato temporaneamente dimesso perché reputato responsabile della strage familiare di Scarborough. Era ubriaco al momento dei fatti e non aveva saputo gestire il dramma annunciato. L’ispettore Stewart, che prende il suo posto, non ha le capacità decisionali di Caleb e sarà Kate a guidare le indagini con il suo ottimo fiuto.

    Tanti filoni significa tanti personaggi e tanti segreti- c’è forse un segreto, però, che li unisce? Che collegamento ci può mai essere perché un assassino voglia eliminare persone che non hanno rapporti l’una con l’altra? scavando a fondo vengono fuori verità occultate, decisioni atroci, ambienti degradati, carenze affettive, fragilità nervose.

     La trama è tesissima, perché è chiaro che più di una persona è nel mirino dell’assassino della cui sanità mentale dubitiamo- chi riuscirà a scampare e chi ne resterà vittima? Per quanti anni è stata meditata questa vendetta? Alla fine i morti sono molti, Kate rischia troppo e tremiamo per lei, uno di quelli che vengono uccisi è ‘senza colpa’ (e finalmente capiamo il titolo)- a lui va tutta la nostra pena, è intorno a lui che ruota una serie di domande su cui non posso essere esplicita per non anticipare nulla ma che hanno a che fare con nostre problematiche quotidiane.

 C’è qualche forzatura e qualche esagerazione nel nuovo romanzo della prolifica scrittrice tedesca Charlotte Link, ma “Senza colpa” è una buona lettura per un week-end.


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lunedì 22 febbraio 2021

Ashraf al-Ashmawy, “Toya” ed. 2021

                                                                  Voci da mondi diversi. Egitto

Ashraf al-Ashmawy, “Toya”

Ed. Brioschi, trad. E. Bartuli, G. Longhi, pagg. 248, Euro 18,00

    Un avvenimento che ha segnato la storia dell’Egitto, all’inizio del romanzo di Ashraf al-Ashmawy, per dare il via alla vicenda del protagonista Yussef Naghib con una data precisa. Il 28 settembre 1970 muore il carismatico presidente egiziano Gamal Abd el-Nasser. Tutto il paese è in lutto, lo piange anche il padre di Yussef che morirà di lì a poco, quasi non accetti di vivere dopo la scomparsa del grande leader.

    Yussef, figlio di padre egiziano e di madre inglese, non è un idealista come il padre, un medico che ha dedicato la sua esistenza a curare i diseredati del Sudan. Yussef ha studiato medicina come il padre ma gli piace la bella vita, mira a fare carriera e carriera per lui significa denaro e ricchezza. Va a Liverpool, dove vive la madre, per conseguire il dottorato- forse ritornerà al Cairo, intravvede ottime possibilità di successo per una clinica privata che intende aprire laggiù. Sua madre è contraria, vuole tenerselo vicino, incoraggia la sua relazione (molto tiepida da parte di Yussef) con la bionda Katherine che è innamorata di lui. Finché Yussef incontra il professor Randall che gli pone una domanda e gli fa un’offerta.

     La domanda è, ‘che cosa significa per lui essere un medico?’, e l’offerta è una collaborazione per fare ricerca su un farmaco che aiuti a curare la lebbra. Yussef dovrebbe andare per sei mesi in Kenya.

   Yussef parte, anche se il suo intento è ben lontano da quello del professore. Tutto il contrario. Si dedicherà alla ricerca, ma pensa solo al vantaggio che gliene verrà, a come lo avvicinerà al termine del suo dottorato, alla possibilità di coinvolgere il professore nella futura clinica al Cairo.

Durante il viaggio per mare Yussef conosce alcune delle persone con cui dovrà avere a che fare durante il suo soggiorno- una di queste sarà suo amico, un’altra diventerà suo nemico, simbolo di un male assoluto. E dapprima Yussef si dedica alla ricerca quasi di malavoglia, con scarse speranze di successo, e conta i giorni che lo separano dal suo rientro a Liverpool. Poi incomincia gradualmente a cambiare. Quanto incidono, su questo cambiamento, l’amicizia improbabile con un ragazzino kikuyu sveglio e accattivante, la folgorazione per una ragazza bellissima che si chiama Toya, quasi come la regina egiziana madre di Ramses II, e il nuovo desiderio di aiutare gli ammalati di lebbra? Inoltre non può non lasciarsi coinvolgere dallo sdegno e dall’orrore quando scopre le macchinazioni di Neville (il bieco individuo conosciuto sulla nave) in combutta con il nero Iray che, per quanto possa sembrare impossibile, agiscono con il tacito assenso delle forze governative. Ogni denuncia sarà inutile, il risultato sarà una tragedia.


   Il romanzo di Ashraf al-Ashmawy, uno dei tre selezionati nella Long List per l’International Prize for Arab Fiction del 2013, è come una favola dell’Africa nera. C’è molto di nero, anzi di nerissimo, in questa storia, oltre al colore della pelle dei kenioti, c’è una malattia che da sempre è stata considerata una maledizione, c’è l’ignoranza di un popolo primitivo che crede che la furia di un vulcano possa essere placata con sacrifici umani e c’è lo spregevole sfruttamento di questa ignoranza da parte dei bianchi per i loro scopri di lucro.


C’è poi del rosa per attenuare l’oscurità del male, la speranza di un amore che superi le barriere, che crede che la felicità possa essere ‘due cuori e una capanna’, in senso letterale. Ed è prevedibile che tutto finisca molto male. E però, come nelle favole, i personaggi sono piuttosto schematizzati- o bianchi o neri (e non intendo per il colore della pelle), o buoni o malvagi- e il grande amore, proprio come avviene in tutte le favole nonché in molti romanzi, non trova una giustificazione se non nell’attrazione fisica.

     Tuttavia “Toya” si legge con piacere, lascia gustare il fascino dell’Africa, lancia messaggi su cui riflettere (non fanno così anche tutte le migliori favole?), svela realtà scomode che troppo spesso non vogliamo vedere.


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sabato 20 febbraio 2021

Elizabeth Wetmore, “La notte di san Valentino” Ed. 2021

                                               Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America


Elizabeth Wetmore, “La notte di san Valentino”

Ed. Ponte alle Grazie, trad. Tiziana Lo Porto, pagg.290, Euro 18,00

   Texas 1976, la zona petrolifera nelle vicinanze di Odessa, una terra di polvere e miasmi che tolgono il respiro.

  Notte di san Valentino.  Dovrebbe essere la festa degli innamorati. Soltanto in una coppia anziana, che non è neppure più una coppia perché il marito è morto, troviamo dei ‘valentini’- si amavano veramente, Corrine e Potter. Quanto alle altre coppie…E chissà se la ragazzina a cui succede qualcosa di tremendo riuscirà ancora a pensare ad un ‘valentino’, come sarebbe suo diritto fare.

  Gloria Ramírez, quattordici anni. Dopo, non vorrà più essere chiamata con quel nome. Risponderà solo se la chiamano Glory. Aveva perso molto di più che la vocale di un nome quella notte di san Valentino. Era stata sciocca e irresponsabile a salire sul furgone di Dale Strickland.

      Mary Rose. Abita in un ranch, con il marito e la figlia di nove anni. E’ incinta. Resta impietrita, quando apre la porta e vede quella bambina che barcolla ‘come uno scheletro ubriaco’, gli occhi gonfi e pesti, ferite sulle gambe e sui piedi. La ragazzina che sembra una bambina vuole un bicchier d’acqua. E la sua mamma.

Quando Mary Rose vede un furgone che avanza da lontano, ordina alle due bambine di chiudersi in casa e chiamare lo sceriffo e un’ambulanza. Lei si piazza sul portico con un fucile in mano. E, nonostante le minacce, rifiuterà di consegnare Gloria a quel giovane arrogante che blatera di un litigio tra fidanzati.

    Corrine. Faceva l’insegnante, da anni è in pensione. Non è molto che suo marito è morto e lei non è capace di andare avanti da sola, non gli perdona di averla lasciata così. Beve. È sempre ubriaca.

    Debra, dieci anni. Anche al suo nome manca una vocale, era stato l’impiegato dell’anagrafe a sbagliare e a non scrivere la o. Passa le giornate da sola, giocando con amici immaginari, imprigionando rospi, chiedendo al suo indovino di carta se la mamma tornerà. Perché la mamma se ne è andata (è colpa sua, di Debra?).

    

Queste sono solo quattro delle voci narrative di questo romanzo che cattura il lettore fin dalla prima pagina con una vicenda sempre attuale, in ogni tempo e in ogni luogo, e con un corollario di micro storie che ci parlano di ragazze, di donne, di problemi che le donne vengono lasciate sole ad affrontare, di solitudine, di amicizia, di solidarietà. Di coraggio, che non è solo quello di Mary Rose che imbraccia il fucile senza sapere se sia carico. È il coraggio che ci vuole a Mary Rose e a Corrine (ma è Mary Rose quella che rischia di più) per sfidare in tribunale un intero paese di bianchi, per testimoniare contro Dale Strickland che è figlio di un pastore anglicano, che nessuno vuole vedere rovinato da una ragazzetta che se l’è andata a cercare e che poi è messicana e si sa che i messicani sono diversi. Frasi pretestuose che abbiamo sentito anche noi, al di là dell’oceano e che condurranno ad un finale scontato.

     È anche il coraggio della piccola Debra che trova un amico vero e non inventato nel veterano mingherlino che dorme in un tubo- questa è una piccola storia parallela di disagio e disadattamento del ragazzo tornato dal Vietnam che non trova lavoro e che viene ‘bullizzato’ (lui che faceva il topo dei tunnel in Vietnam e che non riesce a dimenticare i due bambini che ha ucciso).

   È il coraggio della ragazza che fa la cameriera al bar lasciando la bambina di quattro mesi affidata alla madre- come lei, anche Mary Rose e pure la madre di Debra hanno dovuto affrontare una gravidanza quando erano giovanissime, perché non erano riuscite ad andare nella clinica degli aborti.

     Nessun Valentino per tutti questi personaggi femminili (ho già detto che l’unico Valentino è morto, e anche quello è un altro breve romanzo dentro il romanzo) che si muovono in un paesaggio che sembra rispecchiare il loro vuoto e la loro mancanza di prospettive, nell’arida terra su cui svettano trivelle invece di cattedrali, dove gli incidenti sul lavoro sono dati per scontati, dove la polvere ti entra in bocca e negli occhi e i cactus sono le uniche piante che sopravvivono.

     Bellissimo. Da questo libro verrà tratta una serie televisiva.

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giovedì 18 febbraio 2021

Paulette Jiles, "Notizie dal mondo"- official trailer del film


Il trailer del film tratto dal libro di Paulette Jiles, il primo western nella carriera cinematografica di Tom Hanks, regia di Paul Greengrass.

Paulette Jiles, “Notizie dal mondo” ed. 2021

                                      Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America


Paulette Jiles, “Notizie dal mondo”

Ed. Neri Pozza, trad. Laura Prandino, pagg. 200, Euro 18,00

 

  Texas. È il 1870 e Jeff Kidd, il protagonista di “Notizie dal mondo”, ha 75 anni. E’ passato attraverso più di una guerra, come sappiamo dai vari flashback dei suoi ricordi- nel 1812 quando era giovanissimo, poi negli anni ‘30 e infine aveva preso parte alla guerra civile. Aveva raggiunto il grado di ‘capitano’, anche se dopo aveva fatto lo stampatore ed ora girava il paese leggendo ad alta voce le notizie dal mondo ad un pubblico pagante e curioso di quello che accadeva in luoghi lontani. Sono anni inquieti, gli indiani pellerossa fanno scorrerie e assaltano carovane. Sono gli anni che conosciamo dai film sul Far West che è diventato una leggenda.

     A Wichita Falls, sul confine settentrionale dello stato del Texas, il capitano Kidd riceve un incarico da parte di un nero libero che fa il trasportatore- deve accompagnare dagli zii una bambina che è stata riscattata dagli indiani che l’avevano rapita quattro anni prima, dopo aver ucciso brutalmente i genitori e la sorellina. Kidd è perplesso, sì, è vero, ha avuto due figlie, ma doversi occupare di una bambina di dieci anni per un viaggio di tre settimane…Poi acconsente. Non è per i soldi, che verranno spesi per acquistare un carro, ma perché la bambina gli fa pena e nessun altro potrebbe occuparsene.

  C’è di che scoraggiarsi. La bambina- si chiama Johanna, ma Kidd deve insegnarle che quello è il suo nome- ha dimenticato tutto della sua vita precedente. Adesso la sua lingua è quella dei Kiowa, forse prima neppure parlava in inglese, perché i genitori erano tedeschi.

Mi chiamo Cicala. Mio padre è Acqua che Torna. Mia madre è Tre Macchie. Voglio andare a casa. La bimba lo mormora a bassa voce, ma intanto nessuno può capirla. È bionda, con gli occhi azzurrissimi, ma ha un volto inespressivo- anche quello lo ha appreso per imitazione dagli indiani, una immobilità imperscrutabile.

    Tre settimane di viaggio che trasformeranno sia Johanna sia il capitano. Quello di Johanna è un lento apprendimento, un adeguarsi a quello che si vuole da lei- che si vesta con abiti appropriati e si tolga le piume dai capelli, che impari a mangiare usando le posate, che non faccia il bagno nuda nel ruscello, che dorma in un letto. Sono regole per lei incomprensibili, ma il capitano Kidd è straordinario. È così per natura, sensibile e comprensivo. Non c’è bisogno che Johanna parli, non ne sarebbe capace. Lui capisce ogni sguardo, ogni fremito, i motivi di ogni fuga. Perché una volta Johanna tenta di scappare. Vede degli indiani al di là del fiume e cerca di farsi udire da loro.

   Viene però il giorno che cambierà tutto, dopo che la bambina e il vecchio affrontano insieme un bianco che li insegue- forse allora gli indiani non sono il male peggiore? Johanna è una piccola guerriera grandiosa, è grazie a lei che si salvano. È l’apice di questo romanzo che sembra una favola del Far West. Johanna inizia a chiamarlo Kontah, ‘nonno’ in lingua kiowa, e il nonno però si sente ringiovanire nonostante le giunture che gli fanno male.

  Ci saranno ancora pericoli e incontri dubbi, Kidd continuerà a leggere i giornali in pubblico con la piccola guerriera che, seduta all’ingresso, esigerà i soldi. Ci sarà il pericolo finale, quello di dover lasciare Johanna con degli zii che non mostrano la minima comprensione verso una bimba che ha subito dei traumi come quelli di Johanna. Ci sarà un secondo
la scrittrice

rapimento, per così dire, ben diverso dal primo.

   Questo è un romanzo molto bello sull’amicizia, sull’essere genitori o nonni al di là dei legami di sangue perché si risponde al richiamo dell’onore. E allora anche il leggere le notizie acquista un altro significato. “Forse la vita è solo portare notizie”, riflette Kidd. “Forse abbiamo un solo messaggio, che ci viene consegnato alla nascita e non sappiamo bene cosa dica; può non riguardarci personalmente ma dev’essere portato a mano per tutta la vita, per tutta la strada, e alla fine consegnato, ancora sigillato”. Come una bambina.

Da questo romanzo il film con Tom Hanks ora sugli schermi.

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martedì 16 febbraio 2021

Karoline Kan, “Sotto cieli rossi” ed. 2020

                                                               Voci da mondi diversi. Cina

          romanzo autobiografico

Karoline Kan, “Sotto cieli rossi”

Ed. Bollati Boringhieri, trad. B. Gallo, pagg. 304, Euro 16,50

   Io ho due compleanni. Il primo è quello segreto che festeggio a casa, il secondo è scritto sui documenti ufficiali.

   Due compleanni perché questa scrittrice della generazione millennial (quelli che sono nati negli anni ‘80 e ‘90 del ‘900) è nata fuorilegge. Proprio non avrebbe dovuto nascere in base alla legge del 1983 che imponeva ai cinesi di mettere al mondo un solo figlio, una legge che avrebbe portato all’uccisione di milioni di bambine perché, nel caso che il primogenito fosse una femmina, i genitori non avrebbero potuto provarci di nuovo, per avere l’agognato maschio che avrebbe tramandato il cognome e che sarebbe stato un sostegno economico. E invece sua madre voleva assolutamente un secondo figlio, anche se aveva già un maschietto. Voleva proprio una bimba. E le prime pagine del romanzo autobiografico di Karoline Kan ci parlano della volontà caparbia di sua madre, di come avesse nascosto la gravidanza, di come si fosse sottratta alle ecografie di controllo, pur sapendo che avrebbero dovuto pagare una multa di 6000 yuan (l’entrata media annuale di un cittadino cinese era di 1000 yuan). E infine di come, in ritardo nel saldo della multa, fosse riuscita a far posticipare la data di nascita della bambina che così avrebbe potuto festeggiare due compleanni.

    Il nonno aveva scelto per lei il nome di Chaoqun, che significa ‘fuori dal coro’ (un nome azzeccato, perché ‘diversità e lotta per la sopravvivenza sarebbero stati temi ricorrenti nella mia vita’). Più tardi, quando era diventata una scrittrice, lei avrebbe adottato lo pseudonimo di Karoline. La tempra battagliera della madre di Chaoqun si è già mostrata- è lei a prendere le decisioni importanti, a voler ritornare nella casa della sua famiglia quando la convivenza con lo suocero era diventata impossibile e, più tardi, a scegliere di traslocare in città, con la mira di ottenere un hukou migliore per i figli.

Una parola chiave, hukou, una delle tante che incontriamo in questo libro che ci spalanca una finestra su una Cina che conosciamo poco o affatto. L’hukou è il sistema di registrazione dei nuclei famigliari che stabilisce dove ciascun cittadino può andare a scuola, sposarsi, lavorare e ottenere cure ospedaliere. Senza un hukou non si è nessuno.

Università di Pechino

    Il racconto autobiografico ci fa rivivere il senso di emarginazione della bambina spaesata in un ambiente che non conosce, la lotta costante della madre per migliorare il loro stato, per iscrivere i figli nelle scuole migliori. La strada di Chaoqun è costellata di successi, mentre c’è anche una graduale presa di coscienza delle anomalie del vivere in Cina. Prendiamo ad esempio l’istruzione e la maniera acritica in cui si studia, o gli slogan che si ripetono a memoria all’infinito, Ama il tuo Paese, ama la nazione, ama il Partito Comunista, o il periodo obbligato di un tirocinio pseudo-militare all’inizio dell’università, o il controllo sulla vita privata, sui primi timidi legami d’amore, o la denigrazione dei nemici (inglesi, giapponesi, americani), o l’oscuramento della rete e la necessità di ricorrere ad una VPN, una rete privata, per avere notizie ‘scomode’ o imbarazzanti, o ancora l’assurda persecuzione di quelli che praticavano il Falung Gong.


    Una data in particolare incuriosisce Karoline, anche perché la tocca da vicino. Lei era nata due mesi prima di quel 4 giugno 1989 in cui l’esercito aveva stroncato la protesta pacifica degli studenti che chiedevano riforme democratiche. C’erano stati migliaia di morti, eppure il silenzio totale avvolgeva i fatti di piazza Tien an Men. È questo silenzio che è sconvolgente. Che non è neppure soltanto ufficiale, ma anche privato, perché neppure in famiglia qualcuno è disposto a parlarne. Così come tuttora non si parla del passato, di quello che riguarda le Guardie Rosse o Mao o dei milioni di morti del Gran Balzo in Avanti.

    Soltanto di un passato domestico la nonna è disposta a parlare, delle difficoltà di procurarsi il cibo, dei piedini ‘fior di loto’ della bisnonna e di come lei, la nonna, sia sfuggita a questa dolorosissima pratica, dei matrimoni combinati, dell’istruzione che non è necessaria per le donne. E allora Chaoqun/Karoline sventola la bandiera del femminismo, si fa paladina dell’emancipazione femminile, del diritto della donna di scegliersi il compagno oppure di vivere da sola, di studiare, di lavorare. Scontrandosi anche con la mamma che sembrava all’avanguardia.

   Un libro che val la pena di leggere, “Sotto cieli rossi”, una storia di tre generazioni di donne che arriva fin nel presente concedendoci una visione dei tempi moderni ancorata però nel passato.

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domenica 14 febbraio 2021

Alberto Beonio- Brocchieri, "Marc de Fer" Intervista

                                                Casa Nostra. Qui Italia

   

   La lettura di “Marc de Fer” mi ha trasportato in un’epoca, il ‘600, di cui avevo vaghi ricordi degli anni di scuola come di un secolo di guerre senza fine e con alleanze complicate, in un paese, la Francia, in cui non ho viaggiato molto tranne che per motivi di studio. Avevo la curiosità, quindi, di saperne di più, di parlare con Alberto Beonio Brocchieri, autore di “Marc de Fer” e di due intriganti romanzi che avevo molto apprezzato, “Il mistero della donna scomparsa” e “I bugiardi di Dio”.

Dal suo esordio come romanziere con un libro ambientato in un prossimo futuro, “Il mistero della donna scomparsa”, ad un tuffo nel passato con questo romanzo storico ambientato nel ‘600 attraverso un thriller ‘filosofico’, “I bugiardi di Dio”. Ci parla del suo percorso letterario?

   


Non mi è facile rispondere. Ho scritto il primo romanzo, “Il mistero della donna scomparsa”, dopo un soggiorno a Roma- Roma mi aveva conquistato e mi sembrava lo scenario giusto per una storia. Nel 2004 avevo la chiara percezione che il problema dell’immigrazione sarebbe diventato di estrema gravità nel corso degli anni e avevo avuto questa idea, di Roma arroccata in una cittadella e intorno c’era il mondo che in qualche modo la circondava e la assaliva.

    Il secondo romanzo, “I bugiardi di Dio”, è stato un salto in una dimensione diversa. Il thriller è una scusa per parlare di un personaggio scomodo, spretato ma che non ha abbandonato la fede. La vicenda gialla illumina il personaggio che scrive un libro, “I bugiardi di Dio”, per dire che il rapporto con Dio è inconoscibile e soprattutto lo è attraverso le segreterie religiose di qualunque religione si tratti. Ed è un romanzo ambientato ai nostri giorni.


    Questo terzo romanzo nasce da una confluenza di diverse cose: la più antica è la mia passione per la scherma e la seconda matrice è l’ignoranza. Mi sono reso conto che, nelle mie conoscenze, il ‘600 era un’area scura. Ricordavo qualche nome, qualche personaggio, e allora mi sono messo a frugarci dentro come quando c’è qualcosa che veramente ti interessa. Ne è venuto fuori un quadro non da storico ma da amateur, per cui sentivo questo periodo in tutto il suo fascino. Infine mi piaceva l’idea di percorrere questo tempo con un personaggio diverso dai soliti, un personaggio che, nel corso della sua vita, trascorre vicende straordinarie, sia in senso personale sia in senso storico. Straordinarie perché ha veramente fortuna, gli capitano situazioni fortunate di cui coglie il lato utile. Mentre va avanti nella sua vicenda si accorge che questo procedere nel mondo è molto bello, ma alla fine presenta un conto da pagare. E allora bisogna fare una scelta, capire a che cosa si è disposti a rinunciare per tenere il potere. Mi interessava la vicenda umana vista nella chiave interpretativa della storia di potere. Il potere è un personaggio importante. Alla fine Marc prende una decisione saggia ma anche coraggiosa che rispecchia quello che lui è, tutto il suo personaggio.

Mi ha incuriosito la scelta sia del periodo storico- scelta che Lei ha già spiegato- sia quella dell’ambientazione in Francia. Perché il ‘600 in Francia?

Brive

   Ho scelto la Francia per una questione di banale gusto estetico. Mi è sempre piaciuto il Midi della Francia- la Guascogna, la Borgogna, la zona moschettiera. Sono luoghi bellissimi, sia per la presenza storica e per la dolcezza paesaggistica. Non è una bellezza gridata ma è di una dolcezza straordinaria. E la vecchia casa dei conti di Ferréol, che sono significativamente presenti in tutta la narrazione, è proprio lì, a Brive, sul corso della Dordogna.

E veniamo al protagonista di questo che, oltre ad essere un romanzo storico, è un romanzo di formazione. Veniamo al ‘cavaliere senza macchia e senza paura’: ci parli di Marc, di quello che voleva che Marc fosse e rappresentasse.

    Marc non è senza macchia e senza paura. Senza paura sì, è coraggioso. Senza macchia no: sa navigare tra se stesso e gli eventi in un equilibrio non facile. Marc ha coraggio e molto buon senso. Istintivamente sa usare l’uno o l’altro. Molto spesso è indirizzato dall’idea di fare carriera.

Questo personaggio è venuto fuori perché mi interessava la figura di un uomo che parte da una condizione umile- appartiene ad una famiglia di contadini-, diventa per caso un oste aiutando suo padre nella locanda e poi soldato. E da lì incomincia il suo incontro con il potere, un potere grande che lo solleva in alto sulla scala sociale ed economica. Però questa scalata non è gratis. È per questo che mi piaceva creare questo personaggio, per cercare di indagare la dialettica tra individuo e potere.


 Tra i personaggi che affollano il libro, tutti descritti in maniera memorabile, ce ne sono due di cui vorrei sapere di più: il capitano de Ferréol, quasi un secondo padre per Marc, e il principe di Condé.

    Sono due figure diverse. Il Capitano de Ferréol è un personaggio molto segreto che si svela a poco a poco, una di quelle persone che sembrano fredde e distanti e poi si dimostrano in una dimensione di umanità profonda. Anche qui c’è la dialettica tra individuo e potere. È condizionato per tutta la vita dai pregiudizi della sua ascendenza di nobiltà. Se ne libererà anche grazie all’avvicinamento con Marc che gli fa scoprire il senso di una individualità piena e profonda.

  

Il principe di Condé

Condé è Condé, lo incontriamo dapprima giovane quando ruzzola giù da cavallo e poi lo affianchiamo durante la battaglia di Rocroi. Condé è l’impersonificazione del Potere, dei soldi e della casata, ma in accettabile dimensione umana. Non dimentica mai di essere un principe, d’altra parte essere un Condé significava essere uno degli uomini più in vista del paese. È un personaggio che mette sotto scacco la coscienza di Marc e gli impone una scelta difficile.

   Aggiungerei però un terzo personaggio importante: Dewick. Dewick è il ‘600, è l’uomo nuovo nel suo tempo. Non è simpatico e positivo, ma è un osservatore di quello che succede intorno a lui e nel pensiero di questo secolo. È uno scienziato del comportamento umano perché osserva, cataloga, capisce le persone intorno a lui e se ne serve.

Anche di due donne vorrei sapere di più. in un romanzo in cui la guerra è in primo piano, le donne sono marginali, però Magdalene è importante. Arianne è più sottotono, quasi in disparte. Sono due donne agli antitesi?

   Non del tutto. Lo sono per tipologia di vita e di persona. Hanno due elementi in comune: un’infanzia segnata da una tragedia e poi sono donne franche, oneste, che non si infingono, che non cercano di apparire diverse da quello che sono. Hanno fierezza della loro identità. Magdalene adombra anche la tragedia delle streghe: è un ambito in cui non ho voluto entrare, e però volevo che si avvertisse.

 I capitoli in cui Marc prende lezioni di spada da Monsieur Hermès sono scritti da qualcuno che non si è solo informato, ma che è un esperto: sbaglio?

lo scrittore in pedana con il nipote

    No, li ha scritti qualcuno che, tra quando era ragazzo e poi anziano, ha fatto vent’anni e più di pedana: per me quello per la scherma è stato amore vero, passione per l’incontro, lo scontro, il duello con un altro, con tutte le furbizie  e la preparazione. La scherma è uno sport bellissimo che mi ha accompagnato negli anni e che ho rivissuto in questo capitolo. Marc non fa sport, il non saper maneggiare la spada gli ha causato un problema serio e deve imparare.

Nelle scene dell’apprendistato con la spada appare un personaggio senza nome ma che noi riconosciamo benissimo: Cyrano de Bergérac. È una strizzata d’occhio ad un famoso personaggio veramente esistito e all’ancora più famoso dramma di Edmond Rostand?

    Ovviamente sì. È una strizzata d’occhio che non so se verrà riconosciuta. Ci ho giocato. Ho adorato Cyrano de Bergerac sia nella sua versione cartacea sia in quella cinematografica. Cyrano è proprio lui, in questa scena. E poi devo dire un’altra cosa: in una realtà dentro di me Cyrano è il padre del figlio della sorella di Marc. Potrebbe essere un altro romanzo…

Un’ultima domanda sulla guerra. Guerra vera, verissima, eppure, in un certo senso, anche metafora della condizione umana.

    Purtroppo sì. Ho lasciato trasparire l’amarezza di constatare che l’uomo è, per metà, ‘una schifezza’. In bocca a Gaston metto delle parole a questo proposito: la guerra è sacra ed è stata sacra perché in pace l’uomo si racconta favole su se stesso, ma in guerra cadono tutte le maschere. In guerra l’uomo diventa quello che è davvero, un’altra cosa. La realtà è che l’uomo gode nel far male ai suoi simili.

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Recensione e intervista saranno pubblicate su www.stradanove.it