lunedì 5 maggio 2014

Amos Oz, "Il monte del cattivo consiglio" ed.1976

                                                     Voci da mondi diversi. Medio Oriente
        il libro ritrovato


Amos Oz, “Il Monte del Cattivo Consiglio”
Ed. Feltrinelli, trad. Elena Loewenthal, pagg. 240, Euro 17,00
Titolo originale: The Hill of Evil Counsel

      Anche di notte, al chiaro di luna, i soldati inglesi avevano da fare nello spiazzo dell’adunata, entro le mura della caserma Schneller. Visti dalla mia finestra mi sembravano esausti. Che lunga che è la via, da qui a Tipperary. Dicono che forse la prossima settimana arriverà l’Alto commissario e passerà in rassegna la truppa qui. Dicono che il comandante della Resistenza si nasconda da qualche parte a Gerusalemme e stia mettendo a punto gli ultimi dettagli della rivolta.

      Tre novelle scritte negli anni 1974 e 1975 sono raccolte nel libro di Amos Oz appena pubblicato da Feltrinelli, “Il Monte del Cattivo Consiglio”. Come spesso avviene quando si ‘recuperano’ scritti di un autore di cui abbiamo già letto opere più recenti, la lettura diventa un’operazione intrigante alla ricerca di tracce di temi che- lo sappiamo- saranno nuovamente trattati oppure del tutto abbandonati, prestando l’orecchio alla musica delle parole per capire se qualcosa sia cambiato, negli anni, nello stile.
    La prima cosa che colpisce, leggendo “Il Monte del Cattivo Consiglio”, è l’effetto Tempo: stiamo leggendo, nel 2011, delle novelle di quasi quarant’anni fa che ci parlano di un tempo ancora più lontano, degli anni immediatamente precedenti il riconoscimento dello stato di Israele, il 1946 e 1947. E avvertiamo una sensazione di disagio per quella che sembra essere una situazione di guerra continua, o almeno di allerta continua, perché in tutte le tre novelle si parla di Resistenza, di armi nascoste, di preparativi per affrontare quello che succederà, di attacchi previsti sia da parte degli arabi sia da parte dei soldati inglesi.
    La seconda cosa- che non fa che aumentare il nostro disagio- è che il fermento, i timori, le dicerie, vengono visti e filtrati attraverso gli occhi e la voce di un bambino, che è poi lo scrittore stesso. E allora l’effetto è ancora più straniante, soprattutto in “Nostalgia”, l’ultima delle tre novelle, perché il bambino Uri sembra quasi giocare alla guerra, come hanno sempre fatto i bambini di tutto il mondo, soltanto che la cartucciera che ha sottratto ad un soldato australiano ubriaco contiene pallottole vere e, quando dice che ha scoperto un buco nel muro di cinta della caserma e che ci potrebbe passare e portare dentro volantini o dinamite, non sta facendo uno di quei giochi di guerra simulata sul computer che vanno di moda adesso- parla sul serio.

    Riconosciamo subito quel bambino che fa da trait d’union fra le tre novelle. Lo riconosciamo fin dalla prima storia che dà il titolo alla raccolta. Riconosciamo anche i suoi genitori, il padre così serio e la bella mamma che ha sempre mal di testa, per cui bisogna aggirarsi in punta di piedi per casa: è la famiglia dello scrittore che ritroviamo al centro di quel bellissimo libro che è “Una storia di amore e di tenebra”, del 2003. Nel 1974 Amos Oz non è ancora pronto per affrontare direttamente la tragedia che ha spezzato la sua vita, del suicidio della madre, inizia però ad elaborare il tema dell’assenza, della scomparsa: in questa novella l’ultima visione della mamma è quella di lei che balla con l’ammiraglio inglese. Scompare nella notte, leggera come la stoffa del suo abito azzurro, tra le braccia del nemico- ma non è forse un nemico anche la morte?
Nelle prime due storie è il bambino che narra, si chiama Hillel o Uriel, poco importa. E’ sempre lo stesso bambino che si sente emarginato perché diverso. Diverso solo perché è più riflessivo, più intelligente, i suoi interessi non sono quelli dei suoi coetanei: legge molto, ascolta musica con i genitori, fa discorsi da grande. I bambini sono crudeli, si sa. Basta poco per affibbiare a un bambino ‘speciale’ la nomina di ‘matto’, per imbastire filastrocche contro di lui. Nell’ultima storia il bambino c’è ma è in un angolo del quadro. Questa volta è un dottore gravemente ammalato a parlare e parla anche di lui nelle lettere che scrive alla donna che ha amato e con cui vorrebbe condividere la nostalgia per il vecchio mondo da cui gli ebrei sono stati cacciati.


    Lo scrittore Amos Oz adesso vive ad Arad, sul bordo del deserto, ma è nato a Gerusalemme e la Gerusalemme sognata da sempre da tutti gli ebrei della diaspora (se mai ti dimenticassi, Gerusalemme, si dimentichi di me la mia destra…), con le mura che il sole tinge d’oro al tramonto, è una presenza costante nei racconti. Protagonista anche lei, agognata futura capitale di Israele.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it

Amos Oz


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