domenica 31 marzo 2019

Ivy Compton-Burnett, “Più donne che uomini” ed. 2019


                                       Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                                                            un classico



Ivy Compton-Burnett, “Più donne che uomini”
Ed. Fazi, trad. S. Tummolini, pagg. 260, Euro 19,00

       Ci sono dei romanzi che lasciano indovinare, fin dalle prime frasi, la nazionalità dell’autore o dell’autrice. “Più donne che uomini” è uno di questi- squisitamente inglese in ogni sua parola, in ogni significato non detto esplicitamente, nell’uso sottile dell’arte britannica dell’understatement, nell’humour secco che- lo ripeto- può essere solamente inglese. E’ un libro fatto di dialoghi, questo di Ivy Compton- Burnett, una scrittrice così moderna che dobbiamo rileggere la sua data di nascita- 1884- per capacitarci di non aver fatto un errore. Non troverete descrizioni in “Più donne che uomini”, tocca al lettore immaginare l’aspetto fisico dei personaggi e l’ambiente in cui si muovono.
      Siamo in un collegio femminile, la direttrice è Josephine, una donna di polso. Le prime pagine ci introducono al corpo insegnante, tutte donne, come si addice ad una scuola femminile. E già, nei discorsi che intrecciano nel ritrovarsi dopo un periodo di vacanza, avvertiamo correnti di sentimenti fuori dai soliti binari, fanno pensare ad amori lesbici. E sussultiamo (il romanzo è stato scritto nel 1933). Quello di amori ‘proibiti’, tra donne o tra uomini, è una delle tracce narrative del romanzo che si innesta, però, sulla traccia più ampia dei rapporti amorosi tra marito e moglie, tra padre o madre e figli, tra ex innamorati. Il microcosmo della scuola è un covo di segreti che vengono svelati a poco a poco dopo un tragico avvenimento che sembra scoperchiare il vaso di Pandora.

      Un accenno agli altri personaggi che hanno un ruolo importante- Felix, giovane di bella presenza con tendenze chiaramente omosessuali anche se finisce per sposare una delle insegnanti della scuola; Jonathan, fratello di Josephine che è stato una sorta di tutor per Felix insegnandogli però anche altro dalle materie scolastiche (di certo il padre di Felix non ne sarebbe contento); Gabriel, figlio di Jonathan che lo ha affidato alle cure della sorella quando era appena nato; Elizabeth, vecchia amica di Josephine che assume il ruolo di governante nel collegio. Strani legami uniscono questi personaggi, è come se l’amore sia stato in qualche modo distorto, soffocato per mancanza di ossigeno. Padri che hanno allontanato i figli, una madre surrogata che ha un rapporto morboso con il figlio adottivo, fidanzati ‘rubati’ (ma che uomo è che si lascia ‘rubare’? ha senso incolpare e volersi vendicare della donna che si è presa l’uomo di un’altra?), fidanzate boicottate. E, di continuo, in battute ‘botta e risposta’, un confronto tra uomini e donne. Negli anni in cui le donne intraprendono le prime lotte femministe e si battono per la dignità di un loro lavoro, nel romanzo di Ivy Compton-Burnett sono le donne ad avere più nerbo a fianco di uomini scialbi che mancano di iniziativa.

     Può darsi che non sia immediato, per il lettore, entrare nell’atmosfera del romanzo, capirne la chiave di lettura. Dopo, però, è impossibile non godere della vivacità dei dialoghi con i loro significati nascosti, non essere stuzzicati da quanto non viene detto apertamente ma solo accennato, non provare piacere davanti alla rivelazione di segreti che avevamo fiutato. Un bel quadro d’epoca.

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sabato 30 marzo 2019

Giulio Bedeschi, “Centomila gavette di ghiaccio” ed. 1963


                                                              Casa Nostra. Qui Italia
                                                              seconda guerra mondiale
           riletture


Giulio Bedeschi, “Centomila gavette di ghiaccio”
Ed. Gedi, pagg. 471

       Sono cresciuta sentendo parlare della ritirata di Russia. Un amico dei miei genitori non era ritornato. Ho letto su internet che più di 500 giovani della provincia del mio paese di mare sono morti o sono stati dati per dispersi nella tragica operazione Barbarossa. Quando vado nel mio cimitero marino passo davanti ad una lapide che ogni volta mi strazia il cuore. C’è la foto di un ragazzo- le date dicono che ha vent’anni appena compiuti. L’aspetto è quello di un tempo passato, quando si diventava maggiorenni a 21 anni e però si poteva essere mandati a morire a diciotto. Sembra più grande. In realtà sembra senza età. Una frase incisa in lettere di bronzo, un grido accorato, “Figlio mio, dove sei?”, e poi, ‘disperso in Russia, gennaio 1943.’ Mi fermo, penso a quel ragazzo che non ha ancora vissuto e al suo sgomento nel biancore sterminato. Penso alla colonna di alpini che si snoda nella pianura innevata, come la abbiamo vista nelle fotografie che lasciano capire la lentezza del passo e la sofferenza inaudita. Sarà stato tra quelli che ad un certo punto non sono più riusciti ad avanzare, il ragazzo della foto? O sarà stato tra quelli stritolati dai carri armati russi nella zona di Popowka? “Figlio mio, dove sei?”.

     Quando ho visto che un’iniziativa di Repubblica ristampava e vendeva in edicola “Centomila gavette di ghiaccio” di Giulio Bedeschi, l’ho comprato, anche se lo avevo già letto, anche se avevo già il libro in casa, chissà dove, però. E l’ho subito riletto.
Le riletture sono sempre a sorpresa- un libro può deludere a distanza di anni, oppure, al contrario, può piacere di più. Ho divorato- di nuovo- “Centomila gavette di ghiaccio”. Forse l’ho anche capito meglio, forse avevo più strumenti per leggere dietro le parole sobrie di Bedeschi che affida il suo racconto, i suoi ricordi, ad una narrativa in terza persona con un personaggio principale, il tenente medico ventiseienne Italo Serri. Non è lui, però, il protagonista del libro, sono tutti gli alpini della divisione Julia in un grandioso romanzo corale storico che inizia con la campagna di Albania. Già era sembrata dura, la campagna di Albania. Già il freddo era parso insopportabile. Eppure era niente in confronto a quello che avrebbero sperimentato in Russia. La ritirata dei nostri alpini dal fronte del Don è descritta da Bedeschi in maniera accurata sia storicamente sia- e qui è il valore intramontabile del libro- umanamente. Mai, neppure nelle circostanze più dure delle temperature che scendono a 48 sotto zero, della mancanza di cibo, delle ferite spaventose, mai viene meno lo spirito di corpo, la solidarietà, l’affetto che lega gli uomini della divisione, che dà loro la forza di mettere un piede davanti all’altro. Alcuni personaggi, alcuni episodi, sono indimenticabili. Come quando l’umile guidatore di muli che ha le mani congelate e inservibili cede il pezzo di formaggio che si era portato in tasca per un mese ad un compagno che altrimenti si lascerebbe cadere nella neve. E ci scherza su, minimizzando. Lui che aveva minacciato di uccidere chi avesse cercato di rubarglielo.

     Non c’è molto da aggiungere su di un libro pubblicato nel 1963 e su cui si è già detto tutto. Neppure la domanda, ‘come è stato possibile mandare questi giovani allo sbaraglio, ad una morte certa?’, è una novità. Continuo a pensare ai numeri, 1300 chilometri nella neve a più di 40 gradi sotto zero in 40 giorni. E vale la pena di rileggere il libro, di continuare a parlarne, perché fra un poco la storia degli alpini in Russia sembrerà una Storia lontana, tanto lontana quanto quella della ritirata di Napoleone.



giovedì 28 marzo 2019

Madeleine Thien, “Certainty” (“Certezze”) ed. 2007


                                                     Voci da mondi diversi. Canada
                                                          il libro dimenticato
        

Madeleine Thien, “Certainty” (“Certezze”)
Ed. Granta, pagg. 306 (in italiano ed. Mondadori)

     Ho scoperto Madeleine Thien leggendo “Non dite che non abbiamo niente”, il suo romanzo candidato al Man Booker Prize del 2016- grandioso, straordinario, indimenticabile. Mi è stato regalato in originale la sua prima prova narrativa che desideravo leggere, “Certainty”, pubblicato nel 2007. E sono stata contenta di essermi avvicinata a lei con “Non dite che non abbiamo niente” perché “Certainty” è un bel primo libro, con una bella scrittura tersa, una narrativa ben costruita nell’alternarsi dei tempi e dei luoghi d’azione, ma non ha certamente l’ampio respiro del secondo romanzo. Dà l’idea di essere una sorta di prova, un esperimento per la neo-scrittrice.
    L’inizio introduce il personaggio del dottor Ansel, in Canada, un uomo intristito che vive nel ricordo della moglie Gail, morta sei mesi prima. Gail era giovane, si occupava di documentari per servizi radiofonici. Madeleine Thien porta alla ribalta un personaggio per volta, soprattutto i membri della famiglia di Gail, immigrati dall’Indonesia. In realtà Matthew, il padre di Gail, era cresciuto in Malesia, era un bambino all’epoca dell’occupazione della Malesia da parte del Giappone.
E nel capitolo in cui l’attenzione è centrata su di lui, lo vediamo giocare e nascondersi nella giungla con l’amichetta Ani, e poi assistere all’uccisione del padre da parte dei giapponesi stessi con cui aveva collaborato. Quello di essere figlio di un disprezzato collaboratore è un marchio che Matthew porterà su di sé tutta la vita, che gli impedirà di vivere nel luogo dove è nato, dove ancora ci sono le piantagioni di gomma che appartenevano a suo padre.
E’ un segreto che lo rode dentro, qualcosa di cui non ha mai parlato con nessuno, neppure con la moglie che ha conosciuto e sposato a Melbourne dove è andato a studiare. Lasciando dietro di sé la deliziosa Ani- anzi è Ani che si allontana da lui, altrimenti Matthew non sarebbe mai partito per l’Australia, avrebbe compromesso il suo futuro. E questo- il legame tra Matthew e Ani- è il secondo segreto che lo riguarda. Sarà Gail, bella e inquieta, che cercherà di scoprirlo, così come cerca di scoprire la chiave per decodificare il diario di un internato inglese in un campo di prigionia giapponese.
   E’ la certezza che si cerca nel romanzo di Madeleine Thien, un intreccio di storie d’amore e di perdite, di sacrificio individuale e di appartenenza, di radici che affondano nel terreno, preziose come il tesoro in moneta inglese che il padre aveva ordinato a Matthew di seppellire alla base del trentesimo albero della trentesima fila della piantagione.



lunedì 25 marzo 2019

Joachim Meyerhoff, “Tutti i morti volano in alto” ed. 2019


                                        Voci da mondi diversi. Area germanica
                                                         romanzo di formazione


Joachim Meyerhoff, “Tutti i morti volano in alto”
Ed. Marsilio, trad. G. Agabio, pagg. 303, Euro 18,00


   E’ stupenda, la frase che conclude il romanzo di formazione di Joachim Meyerhoff, “Tutti i morti volano in alto”. Il protagonista Joachim ha visto su una rivista la foto del migliore amico di suo fratello. Del fratello di mezzo che è morto in un incidente d’auto. L’amico, che era al volante, si era salvato e la foto è di lui che adesso è medico specialista del ginocchio. Guardandola, Joachim si rende conto che anche suo fratello avrebbe quell’età, adesso. “Dimentico sempre che sarebbe invecchiato. Nel frattempo io sono già molto più vecchio di lui. Già da tempo non sono il più giovane di noi tre. Adesso è lui.”. Frase bellissima e commovente.
    E’ tutto bellissimo il romanzo di Joachim Meyerhoff, ad iniziare dalla voce narrante che è quella di Joachim- sempre la stessa che abbiamo sentito in “Quando tutto tornerà ad essere come non è mai stato” (2015) anche se lui non è più il bambino di sette anni, ma un adolescente che si prepara per il grande salto, un anno in America, per la prima volta lontano da casa. Lontano dallo straordinario padre, medico e direttore della clinica psichiatrica, dall’affettuosa madre, dal fratello maggiore e dal fratello di mezzo che lo fanno bersaglio dei loro scherzi. Joachim desidera andare, ne ha bisogno, teme però di non passare la selezione- si sente così inferiore ai liceali di Amburgo, ai ragazzi eleganti con nonchalance, alle ragazze truccate che lo guardano come fosse trasparente. E invece, con sua sorpresa, nonostante abbia risposto alle domande del test mentendo, con l’obiettivo di evitare l’ovvio (scrive che non gli importa vivere in una grande città e neppure di condividere la stanza con qualcun altro, nonché di essere molto religioso…), Joachim viene scelto: la sua famiglia abita nello Wyoming (dove è mai lo Wyoming?), è composta da padre, madre e tre figli, proprio come la sua.

      Il mio anno in America, potrebbe essere il sottotitolo delle avventure di Joachim. Avventure, sì, ad iniziare dal viaggio in automobile per andare all’aeroporto, con la guida spericolata del fratello e del suo amico (Joachim riesce, in una qualche maniera, ad insinuare un triste presagio in questa bravata), il volo seduto fra un grassone strabordante e uno strano tipo, e poi l’incontro con i genitori ospitanti che si riveleranno ottime persone, affettuose e comprensive. Tutto è nuovo per Joachim, dalla lingua che capisce poco, al paesaggio immenso, dal materasso ad acqua alle cerimonie in chiesa, dal programma scolastico agli insegnanti. La tragedia della morte del fratello di mezzo spezza in due questo anno esaltante ed è un’altra tappa nella crescita del diciassettenne Joachim, come saranno altre tappe gli allenamenti intensivi di basket che cambiano il suo fisico prima mingherlino e il sesso facile con una ragazza americana.

     L’esperienza non sarebbe completa se Joachim non raccontasse anche la controparte della scoperta dell’America, il suo ritorno a casa e il confronto inevitabile. La scena in cui suo padre, mentre tornano dall’aeroporto di Amburgo, gli offre quello che una volta era il cibo preferito di Joachim- pane nero spalmato di paté di fegato- acquista un valore simbolico. “Masticando quel pane nero umido e spesso, intuivo già come sarebbe stata irta di ostacoli la via per riaffondare i denti nella mia vecchia vita di pane integrale.”
Gli sembrava che non sarebbe riuscito a sopportare la cupezza del dolore della sua famiglia, che sarebbe stato impossibile abituarsi all’assenza del fratello di mezzo laddove un tempo era sempre presente. E invece il tempo aiuta. La bilancia non pende a favore né dell’America né della Germania. E’ come se quest’anno avesse reso Joachim saggio, facendogli accettare il meglio e il peggio di entrambe perché è così che si può costruire se stessi.
     Ci sorprendiamo a sorridere, leggendo il romanzo di Joachim Meyerhoff, tranne quando il dolore della morte ci chiude la gola. Perché lo stile è scoppiettante, vivace, traboccante di uno humour speciale- chi ha detto che l’umorismo è inglese? Può essere anche tedesco, “Tutti i morti volano in alto” ne è un ottimo esempio.

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sabato 23 marzo 2019

Henning Mankell, “Il cervello di Kennedy” ed. 2007


                                                                         vento del Nord
          cento sfumature di giallo
           il libro dimenticato

Henning Mankell, “Il cervello di Kennedy”
Ed. Mondadori, trad. B. Fagnoni, pagg. 328, Euro 16,50

     Non avevo letto “Il cervello di Kennedy” quando era stato pubblicato, nel 2007. Il libro era rimasto sullo scaffale, in attesa. L’ho preso in mano perché…perché si sceglie un libro piuttosto di un altro? Forse sentivo la mancanza di Henning Mankell, forse ero certa che sarebbe stato il libro giusto in quel preciso momento, che non mi avrebbe deluso come avevano fatto i libri di recente iniziati e interrotti, uno dopo l’altro. Non mi ha deluso.
     Louise Cantor, archeologa che sta prendendo parte a degli scavi in Grecia, deve tornare in Svezia per un seminario sugli scavi delle tombe risalenti all’età del bronzo. Prima di partire non riesce a mettersi in contatto con il figlio Henrik. E Henrik non risponde al telefono neppure dopo che lei prova a chiamarlo, ripetutamente, quando arriva a Stoccolma. Allarmata, Louise va a casa del figlio e lo trova morto, sul letto, in pigiama. In apparenza è un suicidio per overdose di tranquillanti. Eppure, nonostante sia sotto shock, Louise ‘sente’ che Henrik non può essersi suicidato. No, non Henrik. E poi, era in pigiama: Henrik non andava mai a letto in pigiama. E’ vero, non si conoscono mai bene i propri figli- Louise non sapeva che Henrik avesse una ragazza, non sapeva che avesse un appartamentino a Barcellona, non sapeva che avesse un discreto conto in banca. Che cos’altro non sapeva di lui, Louise? Aveva cresciuto Henrik da sola, con l’aiuto di suo padre (uno scultore di alberi che, in qualche modo, ci ricorda il padre di Wallander), perché il marito (padre di Henrik) l’aveva abbandonata. Un uomo con cui aveva avuto una bellissima intesa ma inaffidabile.

     Inizia la ricerca di Henrik. Non di lui fisicamente, ma di quello che era stato, seguendone le tracce, che porteranno Louise prima in Spagna, insieme al marito che è andata a ‘recuperare’ in Australia e che scompare misteriosamente a Barcellona (un’ennesima sua scomparsa perché è incapace di affrontare le difficoltà? O l’hanno ucciso?), e poi in Africa. Il viaggio di Louise è una discesa agli inferi, un viaggio nel cuore di tenebra. Inseguendo il passato di suo figlio, incontrando le persone che lui aveva conosciuto, Louise si scontra con la terribile realtà dell’Aids, la peste del secolo XX, e, ancora peggio, con le mendaci organizzazione umanitarie che nascondono turpi intenti sotto un falso altruismo, con la mancanza di scrupoli delle case farmaceutiche che si trincerano dietro la difesa del fine che giustifica i mezzi.
Da questo inferno nessuno può tornare alla luce per gridare al mondo quale Male si nasconda nell’oscurità. Non c’è nessuno scrupolo a mettere a tacere chiunque ci provi- Louise vede morire sotto i suoi occhi chi ha cercato di parlare con lei.

     Come tutti i libri del grande scrittore scomparso nel 2015, anche “Il cervello di Kennedy” è un romanzo di ampio respiro. Se il nostro cuore salta un battito per la paura, non è per il timore che può incuterci un assassino che uccide per i soliti bassi motivi. E’ per un Male che sembra coprire tutto il mondo come una nuvola nera, come nel regno di Mordor in una scena de “Il signore degli anelli”. Potremmo tranquillizzarci dicendo a noi stessi che, dopo tutto, questa non è la realtà, questo è solo un romanzo. Sappiamo bene, invece, che c’è anche finzione narrativa, certo, ma c’è moltissimo di vero nell’inferno che Mankell descrive. E allora il suo scritto diventa anche una denuncia coraggiosa che possiamo raccogliere, se vogliamo.




venerdì 22 marzo 2019

Sara Blaedel, “La donna scomparsa” ed. 2019


                                                                   vento del Nord
    cento sfumature di giallo


Sara Blaedel, “La donna scomparsa”
Ed. Fazi, trad. A. Storti, pagg. 255, Euro 16,00

     Scena iniziale nel buio. Anzi. Contrasto fra un interno di luce e il buio esterno. Tra una scena di tranquilla quotidianità familiare (una donna che si affaccenda in cucina) e la canna di un fucile puntata sulla finestra. Quasi un’opposizione visiva di Bene e Male.
Lo sparo colpisce la donna in piena fronte. Gli schizzi di sangue macchiano la camicia del marito. La figlia adolescente, sulla soglia di casa, ha una fuggevole visione dell’uomo che ha sparato.
    Sapremo più tardi che questa scena si è svolta in una cittadina inglese, perché subito dopo l’obiettivo si sposta in Danimarca sulla coppia di ispettori della Omicidi che già conosciamo, Louise Rick ed Eik Nordstrøm. Ormai convivono, tutto sembra andare per il meglio. Poi un banale litigio, Eik esce con il cane per andare a comperare le sigarette e…scompare (come da manuale). Non è da Eik, però, scomparire abbandonando il cane fuori dal negozio (pazienza non farsi vivo con Louise, ma lasciare il cane al freddo, no, non è da lui). Quando Louise avrà notizie di lui, Eik è stato arrestato per inquinamento di prove in Inghilterra. Era andato in Inghilterra così, un momento per l’altro? A fare che cosa? Qual è il suo legame con la donna che è stata uccisa e che era danese?

     Finalmente, ne “La donna scomparsa”, sappiamo di più di quello che è successo in passato e di cui c’erano solo dei cenni nei romanzi precedenti, quando un giovane Eik, in barca nel Mediterraneo, aveva litigato con la sua ragazza, era sceso a terra, la barca era salpata senza di lui e in seguito i corpi dei due occasionali compagni di viaggio (proprietari dell’imbarcazione) erano stati trovati in mare, annegati. Nessuna traccia della ragazza che risultava ‘scomparsa’ da allora, diciotto anni prima.
      Il tempo del libro è soprattutto il presente, ma ci sono dei flashback sul passato di Sophie Parker, sul suo legame con la madre e su un primo matrimonio. Per Eik, però, quello era un episodio definitivamente relegato nel passato- che cosa fa sì che ora sia tanto coinvolto? E come si spiegano i versamenti di denaro su un conto in Svizzera intestato a Sophie Parker?
     Questo è un romanzo ‘giallo’ in cui più che mai si deve fare attenzione a non dire neppure una parola di troppo, anche se il lettore attento capirà ben presto quale sia il nodo centrale. Che è una tematica molto attuale e non originale, a ben vedere.
Quello che è originale è, invece, il modo in cui viene affrontata, nella cornice di un’indagine poliziesca in cui Louise si dovrà affrettare a scoprire l’identità di quello che diventa un serial killer per impedirgli di portare a termine il suo piano di eliminare, una dopo l’altra, tutte le persone che ha in lista. E originali sono pure le diverse prospettive da cui si considera un quesito su cui ognuno di noi si è di certo trovato a riflettere.

     La tensione tipica del genere ‘giallo’, la corsa per fermare l’assassino, il dubbio sulla sua identità (scartiamo subito, insieme a Louise, la possibilità che sia Eik, come propenderebbe a credere la polizia inglese), si uniscono ad altre due tracce narrative in questo romanzo- quella che esplora la difficoltà del rapporto di coppia e quella che contrappone la vita alla morte. Si tratta sempre di vita e di morte nei romanzi di indagine poliziesca, ma l’indagine di Sara Blaedel ne “La donna scomparsa” è più sottile- qual è la linea d’ombra che separa un suicidio da un omicidio? È possibile che il Male e il Bene non siano così nettamente separati?

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sabato 9 marzo 2019

Holidays

                                     




        Aspettatemi!                 

Björn Larsson, “La lettera di Gertrud” ed. 2019


                                                     vento del Nord


Björn Larsson, “La lettera di Gertrud”
Ed. Iperborea, trad. Katia De Marco, pagg. 457, Euro 19,50

      “L’ebreo che non vuole essere ebreo”, così, nel romanzo, titola un giornale l’articolo su Martin Brenner, il protagonista de “La lettera di Gertrud”. Perché questo, ridotto ai minimi termini, banalizzato come può fare la stampa, è il quesito di base nel nuovo libro dello scrittore svedese Björn Larsson. Più specificatamente: che cosa fa di un ebreo un ebreo? Esiste un gene ebreo? E Martin Brenner, genetista, direttore di un laboratorio dove si effettuano analisi del DNA, è la persona più adatta per indagare in tal senso.
  Dall’inizio: è morta Maria, la madre di Martin Brenner. Voleva essere cremata e che le sue ceneri venissero disperse nel vento. Con commozione Martin esegue il desiderio di sua madre. Vicino a lui sono la moglie Cristina, con cui Martin ha uno splendido rapporto, e la figlia dodicenne Sara che Martin letteralmente adora. Quando Martin viene convocato dal legale di sua madre, il mondo gli cade addosso. In una lettera sua madre gli rivela di aver vissuto una vita con un’altra identità: il suo vero nome era Gertrud, era ebrea, era sopravvissuta ad Auschwitz. E aveva deciso che mai suo figlio sarebbe stato messo nella posizione di vivere le sue stesse esperienze. Martin non era stato circonciso, Gertrud si era separata dal padre biologico del figlio e aveva sposato un uomo che si era poi rivelato filonazista- e a questo punto lei lo aveva lasciato, cancellandolo anche dalla vita di Martin. Se fino a questo momento era stato facile per Martin mostrare la sua apertura mentale, simpatizzando con il collega-amico Samuel che si sente emarginato in laboratorio perché ebreo seppure non praticante e sposato con una donna di religione protestante, e schierandosi apertamente contro qualunque forma di antisemitismo e di razzismo, adesso Martin è roso dal tarlo- la sua identità stessa è messa in dubbio. In che cosa lo definisce, l’avere avuto una madre ebrea? In definitiva lui è lo stesso di prima- perché è così sconvolgente la rivelazione di una madre ebrea piuttosto che, per dire, tedesca o italiana? E che risvolti può avere questa novità per quello che riguarda sua moglie e sua figlia?

       Martin non dice loro nulla per il momento. Si getta in una ricerca storica, religiosa, filosofica, genetica (la mole dei libri consultati da Martin nella bibliografia fine libro è imponente)- vogliamo fare il gioco dei nazisti e dire che gli ebrei si possono distinguere per un loro gene? E tuttavia gli esami del DNA provano il contrario.
      Non vi dirò che cosa succede, che è piuttosto prevedibile, quando si viene a sapere che, anche se lui lo rifiuta, anche se non si riconosce come tale, Martin è ebreo. Quello che però ferisce a morte Martin è la reazione della moglie e della figlia, più che gli attacchi antisemiti di cui è vittima e che rivelano quanto siano ancora diffusi antisemitismo (per lo più non distinto da antisionismo) e pregiudizi. E’ una tragedia.

        La vicenda di Martin Brenner si svolge in un luogo volutamente non precisato e, nella parte finale del libro, con uno stacco narrativo lo scrittore si sostituisce al narratore in terza persona e prende la parola- la storia che abbiamo appena letto è quella di un uomo che ha chiesto allo scrittore di raccontarla per lui cambiando il suo nome. Con una variante dell’espediente del ‘manoscritto ritrovato’, Björn Larsson ha scritto un’appassionante indagine sul tema dell’identità e del libero arbitrio, sui pericoli degli ‘ismi’ che sembrano rinascere virulenti in ogni occasione, su religione e ateismo, sulla grandezza dell’amore materno, infine. E poi, anche se è impossibile per Martin Brenner guarire delle ferite, il libro termina con una speranza nel futuro.

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giovedì 7 marzo 2019

Kate Atkinson, “Una ragazza riservata” ed. 2019


                                           Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
         spy-story
      romanzo di formazione


Kate Atkinson, “Una ragazza riservata”
Ed. Nord, trad. Alessandro Storti, pagg. 360, Euro 18,00

     1980. Londra. Una donna muore investita da un’auto mentre attraversa una strada. Prima di morire pensa che forse era distratta, forse ha guardato nella direzione sbagliata per controllare se arrivasse qualche auto- ha vissuto trent’anni all’estero ed è tornata da poco. Qualcuno la chiama per nome per accertarsi se sia cosciente, “Miss Armstrong…”
     1950. La guerra è finita da cinque anni. Finita del tutto? Quali strascichi ha lasciato? Juliet Armstrong lavora alla BBC, si occupa di programmi di intrattenimento- è importante risollevare il morale degli inglesi afflitti dalle restrizioni economiche e dalle rovine di una capitale che non è ancora stata ricostruita. Le viene recapitato un messaggio anonimo. E’ una oscura minaccia, “pagherai per quello che hai fatto”.
     1940. La diciottenne Juliet (è stanca di sentirsi chiedere dove sia Romeo, è questa una premessa al suo cambiare nome?) viene assunta dai servizi segreti per sbobinare registrazioni. Passa tutto il giorno a battere sui tasti della macchina da scrivere, cercando di capire le voci registrate sui nastri, inventando, ogni tanto, quello che non capisce. In realtà è un compito delicato: le conversazioni che trascrive sono tra un agente infiltrato e cittadini britannici simpatizzanti del Reich. Ogni dettaglio può essere di rilievo, ora che sono iniziati i bombardamenti su Londra.

      “Una ragazza riservata” è un affascinante romanzo che è nello stesso tempo romanzo di formazione e spy-story, in un alternarsi di tempi che rendono più drammatica la vicenda e più forte la tensione. Fa tenerezza, la Juliet sprovveduta e romantica del 1940, rimasta da poco orfana di madre e costretta, perciò, ad abbandonare gli studi e cercarsi un lavoro. Capisce e non capisce quello che si sta svolgendo nella stanza accanto a quella in cui lei lavora. Di certo non capisce appieno il pericolo della situazione quando diventa agente operativo e le si chiede di frequentare un circolo di signore filonaziste sotto il nome di Iris. Non capisce neppure che cosa si nasconda dietro il corteggiamento goffo e inconcludente del suo capo che le regala un anello ma neppure le da un bacio. E poi ci sono degli sviluppi imprevisti, quello che sembrava un gioco, una recita mascherata, si fa terribilmente serio, l’esito si macchia di sangue. Diventare grandi in tempo di guerra è una faccenda dolorosa, un avventurarsi letteralmente in terra straniera. La Juliet del 1950 è cambiata, è più smaliziata, più diffidente, più all’erta. Perché sa molto di più ed è cosciente di pericoli nascosti. Anche di quello insito nella richiesta di un ultimo lavoro per l’MI5, anche nel riapparire sospetto di persone che non vedeva da cinque anni. E se questa seconda narrativa è meno serrata di quella del 1940, ha una sua giustificazione. Si tratta ancora di registrazioni, ma di ben altro genere- è cessata l’urgenza della guerra anche se- e Juliet non se ne rende conto affatto- un’altra guerra, ‘fredda’ questa volta, si profila all’orizzonte. E il nemico è il vecchio alleato russo.

     Come nei migliori film (o libri) di spionaggio, ci sono figure incappottate e temibili che si appostano nell’ombra per poi ghermire la loro preda, Londra è una città grigia dove le carbonaie sono il luogo ideale per nascondere cadaveri, non è ancora l’era degli aerei e la Gran Bretagna è un’isola da cui si può fuggire solo via mare vedendo allontanarsi nella bruma le bianche scogliere di Dover. Juliet fugge. E noi, arrivati alla fine del libro, torniamo a rileggere l’inizio.
    Lo stile della Atkinson è splendido e raffinato come al solito, ricco di allusioni letterarie, con frasi che si rincorrono lasciando una traccia come nella favola di Hansel e Gretel (pure Juliet pensa alla favola dei fratelli Grimm) e tocca a noi seguire i sassolini, percorso da un’ironia leggera, stupendamente femminile.

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lunedì 4 marzo 2019

Philip Dick, “La svastica sul sole”


                                      Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
      ucronia
      riletture

Philip Dick, “La svastica sul sole”
Ed. Fanucci, trad. M. Nati, pagg. 318, Euro 8,41

     La seconda guerra mondiale è finita, ma sono state le potenze dell’Asse a vincere e non gli Alleati. Germania e Giappone si sono spartiti il mondo- alla Germania l’intera Europa, l’Africa e la costa orientale dell’America, al Giappone gli stati della costa occidentale americana con gli stati delle Montagne Rocciose che fanno da cuscinetto tra i due. Il Mar Mediterraneo è stato prosciugato ed è diventato un grande campo coltivabile, la soluzione finale è stata messa in atto anche con le popolazioni dell’Africa, ci sono campi di concentramento negli Stati orientali dell’America, vengono fatte spedizioni su Marte (ci saranno ebrei anche su Marte?), un razzo porta i passeggeri in 45 minuti dall’Europa all’America. L’Italia fascista, che si è comportata malissimo durante la guerra, è subordinata al Reich e ha ottenuto un piccolissimo impero in Medio Oriente. E’ questo il quadro del romanzo ucronico di Philip Dick, “La svastica sul sole” (pubblicato anche con il titolo de “L’uomo nell’alto castello”), che ha vinto il premio Hugo nel 1963.

      I personaggi principali di cui seguiamo le vicende sono cinque- l’orafo ebreo Frank Frink (ha cambiato il cognome Fink che lo identificava troppo facilmente) che si è rifugiato negli stati occidentali controllati dai giapponesi per sfuggire alle persecuzioni di cui era vittima negli stati orientali; Juliana, moglie separata di Frink, che inizia una relazione con un presunto camionista italiano senza sapere che resterà coinvolta in un complotto nazista; Robert Childan, mercante di pezzi storici americani (non sa che le Colt che vende come originali sono in realtà dei falsi); il mite funzionario giapponese Tagomi che sarà suo malgrado coinvolto in un altro complotto tedesco ai danni delle Isole Patrie; un agente del controspionaggio del Reich che si spaccia per imprenditore e che mira a sventare l’operazione Dente di Leone che farebbe cadere il Giappone in mano ai nazisti, ed infine il finto camionista con una missione segreta letale. C’è poi un altro personaggio ancora che acquista sempre più importanza- lo scrittore Abensen, ‘l’uomo nell’alto castello’, autore del libro “La cavalletta non si alzerà più”. Un libro proibito che più o meno tutti i personaggi leggono, hanno letto, si passano l’un l’altro. E’ un romanzo dentro il romanzo, una sorta di specchio, un secondo romanzo ucronico dentro il primo romanzo ucronico che descrive un mondo in cui sono stati gli Alleati a vincere la guerra e non i nazisti, quello che è veramente successo, dunque.

      Ho riletto a distanza di più di vent’anni “La svastica sul sole”, volevo vedere se avrebbe ancora suscitato l’entusiasmo che avevo provato ad una prima lettura. In parte sì. L’inizio e tutta la prima parte del libro sono geniali. Dick è un maestro del dettaglio capovolto e spiazzante- invece dei turisti americani in cerca di souvenir leggiamo dei giapponesi che collezionano oggetti ‘antichi’ americani, perfino un orologio con Topolino è venduto come una rarità-, delle visioni futuristiche e profetiche, di un certo tipo di noir fantapolitico. Meno convincente la parte finale dove il ritmo narrativo si smorza. E tuttavia “La svastica sul sole” (ora anche una serie televisiva americana) è un classico del genere di cui consiglio la lettura.