lunedì 29 novembre 2021

Ann Patchett, “Belcanto” ed. 2001

                                Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America

   il libro ritrovato

Ann Patchett, “Belcanto”

Ed. Neri Pozza, pagg. 351, L.32.000

 

    Uno stato dell’America latina. Un gruppo di guerriglieri fa irruzione  nella casa del vicepresidente durante un ricevimento e prende gli ospiti in ostaggio. Potrebbe essere una situazione banale. Quello che la rende straordinaria è l’elemento della musica, di quel “bel canto” che diventa il leitmotiv del romanzo. Perché ci sono due ospiti d’onore al ricevimento: il signor Hosokawa, presidente di una società giapponese e la soprano Roxane Coss
     La soprano è stata invitata per cantare, perché si vuole festeggiare il compleanno di Hosokawa e tutti conoscono la passione di questi per l’opera. I guerriglieri in realtà volevano sequestrare il presidente, ma questi non è venuto per non perdere la puntata di una telenovela. Rilasciano la maggior parte degli ospiti, trattenendo i più importanti e la soprano, unica donna. Quattro mesi e mezzo di prigionia durante i quali conosciamo i personaggi e, con magistrale sottigliezza psicologica, i cambiamenti che la reclusione, la convivenza e soprattutto la musica operano su di loro.

    Oltre a Hosokawa c’è un altro giapponese appassionato di musica che si rivela essere un ottimo pianista, e non è un caso, visto che lo stereotipo ci presenta i giapponesi come un popolo di lavoratori indefessi. E infatti entrambi coltivavano la loro passione di nascosto e adesso forse si augurano che la prigionia non abbia fine, perché sarà duro rientrare nelle strettoie della vita di lavoro. 
C’è poi l’interprete di Hosokawa, che diventa l’uomo più richiesto perché fa da tramite tra i presenti e, finché non si innamora di una guerrigliera, non aveva mai riflettuto sulla sua incapacità di parlare per se stesso, senza interpretare i pensieri altrui; il sacerdote che conosce finalmente la soddisfazione di esercitare la sua vocazione e, nello stesso tempo, gode della musica e di quella voce che gli sembra essere la voce stessa di Dio; il piccolo vicepresidente che acquista una nuova statura nel sapersi comportare con dignità, scoprendo il piacere di attività umili mai svolte prima.

E ancora, lo svizzero che fa da mediatore, il francese che si scopre innamorato della moglie, il pianista che muore per amore e i guerriglieri, dai capi con le loro continue richieste ai ragazzini che sembrano giocare alla guerra, alle due ragazze che non possono nascondere a lungo la loro femminilità. 
Su di tutti regna la cantante, un’immagine di luce, di gloria, di bellezza e di armonia che trasforma quella prigione in un luogo irreale, sospeso tra le voci  che vengono da fuori attraverso il megafono e la purezza delle note che escono dalla sua gola. La realtà è fatta di spari e di sangue, in un finale che ha tutta la drammaticità e la dolcezza triste del finale di un’opera lirica per un romanzo sensuale, giocoso, beffardo.

La recensione è stata pubblicata nel 2001 su www.stradanove.net
Un libro che avevo molto amato.



 
 
 
 
 

 

sabato 27 novembre 2021

Abraham Yehoshua, “La figlia unica” ed. 2021

                                                       Voci da mondi diversi. Israele


Abraham Yehoshua, “La figlia unica”

Ed. Einaudi, Trad. A. Shomroni, pagg. 168, Euro 18,00

 

   È come una favola di Natale, il breve nuovo romanzo di Abraham Yehoshua. È il suo omaggio all’Italia, perché ambientato in una cittadina senza nome ma italiana, e poi in una località marina dove ogni anno c’è una grande festa per il Carnevale e in un’altra località con impianti sciistici in montagna. Anche la protagonista, l’undicenne Rachele Luzzatto, è italiana e la sua è una famiglia mista, con una doppia appartenenza religiosa.

    Si sta avvicinando il Natale, l’insegnante fa leggere “Cuore” di De Amicis in classe (un altro singolare omaggio all’Italia che ci invita a rileggere questo classico che da anni abbiamo accantonato), Rachele è stata scelta per recitare la parte di Maria nel Presepe vivente- è perfetta con quei suoi riccioli scuri, la madre di Gesù doveva assomigliarle. Ma Rachele non sarà Maria, anche se ci tiene tanto. Suo padre non vuole. Loro sono ebrei, non se ne parla proprio. Rachele non capisce quel divieto: è una recita, non è la stessa cosa che se lei andasse a Messa.


    La delusione di Rachele cede il posto alla preoccupazione di tutta la famiglia per il delicato intervento a cui si dovrà sottoporre il padre- l’interpretazione di Rachele, semplificando, è che al papà è cresciuta un’ appendice al cervello. Dopotutto il papà le aveva detto che forse il suo cervello si era ingrossato per accordarsi con il nuovo mondo che era più difficile da capire.

    Sono questi i due nodi intorno a cui si svolge il romanzo di Yehoshua ed è come se il pericolo di una fine imminente ridimensionasse tutto, invitasse ad una tolleranza, ad una convivenza di fedi diverse- bello il personaggio del dolce nonno cattolico, bello anche quello del nonno ebreo che racconta con umorismo di come si fosse travestito da prete per sfuggire ai nazisti durante la guerra. E, quasi a riprendere il tema dei travestimenti, dopo il travestimento di Rachele per la festa della nonna che è quasi una parodia di un ebreo ortodosso, è comica la scena del rabbino (insegnante di ebraico a quella ragazzina curiosa che è Rachele) che si mescola alle maschere del Carnevale e ne è spaventato- sembra una versione molto edulcorata del “Doppio sogno” di Schnitzler dove tutti possono avere un altro aspetto e chissà se questo ‘doppio’ possa servire per avere una doppia prospettiva.


    Yehoshua è un maestro della lievità. Con leggerezza, con i personaggi opposti delle due nonne, con il cammeo dell’insegnante in pensione che incoraggia ad una rilettura e un approfondimento del libro di De Amicis, con la giovane protagonista che si appresta ad entrare nel mondo degli adulti preparandosi al Bat Mitzvah e chiede di leggere un altro brano per non offendere la sensibilità del nonno cattolico, perfino con il ‘personaggio’ della cagna anziana verso cui tutti sono così solleciti perché deve partorire (un parallelo nel mondo animale con il papà di Rachele ammalato?), con tutta questa variegata famiglia lo scrittore ci dà una grande lezione di multiculturalismo e di integrazione e di tolleranza.

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giovedì 25 novembre 2021

Benjamin Disraeli, “Sybil” ed. 2021

               Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

       romanzo politico

      love story  

Benjamin Disraeli, “Sybil”

Ed. elliot, trad. Ilaria Dagnini Brey, pagg. 620, Euro 22,00


      Viviamo in un’epoca in cui gioventù e indifferenza non possono più essere sinonimi. Dobbiamo prepararci per l’ora che si appressa. Le richieste del Futuro sono rappresentate dalle sofferenze di milioni di persone e la Posterità è nelle mani dei giovani della nazione.

    Non è una frase tratta da un romanzo contemporaneo, nonostante che il messaggio che comunica sia così valido tuttora. Sono le parole conclusive di “Sybil”, pubblicato da Benjamin Disraeli nel 1845, cioè a dire quasi duecento anni fa.

    Benjamin Disraeli, nipote di un cappellaio ebreo originario di Cento, in Emilia, ed emigrato a Londra a metà del Settecento (il cognome che originariamente si scriveva con l’apostrofo, D’Israeli, fu presto trasformato in Disraeli) fu uomo politico e scrittore, ricoprendo la carica di primo ministro per ben due volte, nel 1868 e dal 1874 al 1880. Pur essendo un Conservatore, Disraeli aveva simpatie per il Cartismo e era favorevole ad una alleanza tra aristocrazia terriera e classe lavoratrice. Sono informazioni importanti per capire “Sybil”, uno dei tre romanzi ‘politici’ di Disraeli (gli altri due sono “Coningsby” e “Tancred”). Perché è vero che “Sybil” è anche un romanzo d’amore, ma è soprattutto un romanzo a tesi, animato da un forte sentimento politico in sostegno delle classi meno abbienti.

    I personaggi principali- la coppia degli innamorati che non hanno una facile storia d’amore- sono Charles Egremont e Sybil Gerard. Lui, Charles Egremont, è fratello di un lord e, essendo un figlio cadetto, entrerà nella politica facendosi eleggere in Parlamento. All’inizio del libro, tuttavia, Charles è ancora un giovane scapestrato che si interessa di corse di cavalli e fa la bella vita nei salotti- sono pagine un poco lente ma necessarie perché offrono un contrasto forte con la vita dei lavoratori e ci preparano ad apprezzare il cambiamento del protagonista. Sybil è la figlia di un operaio tessile, bellissima, con una voce angelica- è circonfusa da un’aura di santità. Il baratro che separa i due giovani è evidente- sono loro i due rappresentanti delle ‘Due nazioni’ che è il sottotitolo del romanzo, i ricchi e i poveri.


   Il contrasto tra i ricchi e i poveri è stridente. Non si tratta solo di una differenza incommensurabile di beni posseduti e privilegi, ma della incapacità dei primi di capire le esigenze dei secondi. Per loro, che vivono nel lusso e nel superfluo, i miseri salari concessi agli operai e ai contadini sono più che sufficienti- se avessero di più, lavorerebbero di meno. Le scene del libro in cui si descrivono le condizioni di vita nei villaggi ricordano pagine dei romanzi di Dickens ma sono più brutalmente realiste e ben dimostrano la tesi sostenuta dallo scrittore che propende a favore del movimento cartista le cui richieste principali erano il diritto di voto per gli uomini e riforme del parlamento. Discussioni politiche, incendi di granai da parte di contadini infuriati, sommosse e repressioni, discorsi infuocati in Parlamento (Disraeli era amico della regina Vittoria che sembra leggesse i suoi discorsi con lo stesso piacere con cui leggeva i suoi romanzi), leziosità e per contro lo squallore della povertà e poi, a sollevare l’atmosfera, l’amore per Sybil che trasforma Egremont.


   Se il personaggio di Egremont, così come quello del padre di Sybil (pure lui impegnato nella lotta politica), risultano credibili e di un certo spessore, quello di Sybil è meno riuscito. Come tante donne nei romanzi di scrittori dell’800, Sybil è poco ‘reale’, troppo perfetta, ha più dell’angelo che della donna in carne e ossa. Ma c’è anche una sottotrama che vivacizza il romanzo, un mistero di carte di proprietà sottratte e poi fatte riavere al legittimo proprietario. Chissà se Disraeli si è accorto che, con questo guizzo finale della trama, modificava il significato del personaggio di Sybil, tirandola fuori dalla classe sociale inferiore in mezzo alla quale spiccava per bellezza, sensibilità, intelligenza e distinzione.

    Un classico della letteratura inglese che mancava sui nostri scaffali- dobbiamo ringraziare la casa editrice elliot.

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lunedì 22 novembre 2021

Joyce Carol Oates, “La notte, il sonno, la morte e le stelle” ed. 2021

                                Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America

               saga


Joyce Carol Oates, “La notte, il sonno, la morte e le stelle”

Ed. La Nave di Teseo, trad. Carlo Prosperi, pagg. 832, Euro 22,80

   Era giovane, John Earle McClaren, quando i suoi capelli, diventati bianchi, gli avevano valso il soprannome di Whitey. E tutti lo conoscevano come Whitey, anche in famiglia. Un soprannome che, con il suo significato, acquista un’altra valenza quando succede il fatto che causerà la morte del poco più che sessantenne John Earle McClaren, sovvertendo quanto in genere accade.

    In realtà, tutto era iniziato proprio come in genere accade:  Whitey si era fermato sulla tangenziale perché aveva visto due poliziotti che avevano fatto scendere dalla sua auto un uomo dalla pelle scura e lo stavano malmenando. Si era avvicinato intimando loro di fermarsi- pensava forse che avrebbero riconosciuto in lui l’ex sindaco di Hammond, che avrebbero avuto rispetto per un uomo anziano, bianco, chiaramente benestante? Invece la loro furia si era riversata su di lui, lo avevano colpito con il taser quando già era a terra. In definitiva era stato l’uomo bianco a morire in seguito ad un ictus causato dalla violenza della polizia e non l’uomo di colore che poi non era affatto un afro-americano ma un medico indiano che era rimasto così traumatizzato dall’esperienza da impiegare mesi prima di farsi vivo come unico testimone, per poi ritrattare tutto per paura di possibilissime ritorsioni.


     L’inizio di questo romanzo dal titolo bellissimo (preso da una poesia di Walt Whitman) che contiene in sé i temi e le riflessioni del libro, è un affondo nella problematica sempre attuale della discriminazione razziale e nell’avventato uso delle armi da parte soprattutto della polizia e soprattutto verso persone di colore. Da questo tema, però, con una straordinaria abilità, Joyce Carol Oates ne sviluppa un altro, ramificato- quali sono, per la moglie e i figli, le conseguenze della morte di un capofamiglia così ‘imponente’, così carismatico, con una personalità così forte? Come cambieranno le loro vite, dopo il trauma iniziale della perdita? È come se si rompesse l’asse di una ruota e i raggi si staccassero dal centro.

    Jessalyn, la moglie. Diventa canuta anche lei, per il dolore. Diventa il fantasma di se stessa. Ha sempre vissuto all’ombra del marito, ha dedicato a lui ogni istante della giornata da quando- erano entrambi giovanissimi- si sono innamorati. Anche se Whitey non c’è più, Jessalyn si chiede che cosa penserebbe lui, che cosa direbbe, se approverebbe quello che lei sta facendo. E continua a vivere nella grande casa antica, di origine addirittura coloniale, persa nelle innumerevoli stanze.


    I cinque figli si preoccupano per lei, si sostituiscono al padre in un atteggiamento fin troppo protettivo. Whitey e Jessalyn erano sempre stati orgogliosi dei figli- del primogenito Thom che era l’erede dell’impresa paterna, di Beverly, la reginetta di bellezza che li aveva resi nonni felici, di Lorene, preside di una scuola prestigiosa, di Sophia, ricercatrice in campo medico. Quanto al quinto figlio, Virgil, era il prediletto di Jessalyn, ma c’era un leggero disprezzo nell’atteggiamento del padre verso di lui- Whitey non poteva capire quel figlio hippy che viveva in una comune e faceva l’artista.

     Il cambiamento di tutti è graduale, ci vuole parecchio prima che si rendano conto che sono ‘liberi’ dalla forte volontà paterna, che non devono più temerne il giudizio. Passeranno tutti attraverso un periodo di crisi prima di trovare se stessi, anche se questo implicherà infliggere sofferenze a sé e a chi gli è vicino. E inizia, con fatica, una nuova vita per tutti- dopo il buio della notte, dopo l’intontimento del sonno, dopo aver fronteggiato la morte, alzeranno tutti gli occhi verso le stelle.


    Il nuovo romanzo della prolifica scrittrice americana (un centinaio di opere dopo la pubblicazione del primo romanzo nel 1963) è una grandiosa saga famigliare che non deve spaventare per il numero delle pagine che scorrono veloci. “La notte, il sonno, la morte e le stelle” ha una costruzione perfetta- il tema iniziale della violenza, con la sua implicita accusa, riaffiora puntualmente, non solo con la causa intentata contro la polizia ma anche con altri atti di violenza (da parte di Thom contro un gattone ‘adottato’ da sua madre e poi contro persone, da parte di Lorene contro se stessa e, ciberneticamente, contro altri, da parte del team medico contro le cavie), e i personaggi si alternano sulla scena offrendo alternativamente il loro punto di vista, su di sé e sugli altri. Proviamo simpatia o antipatia per l’uno o per l’altro, siamo consapevoli- noi prima di loro- del nuovo indirizzo della loro vita, mentre si preparano ad accomiatarsi definitivamente dal grande assente che è sempre presente, il loro marito e padre Whitey.

     Una riflessione sulla vita e sulla morte, sulla famiglia e sul matrimonio, sulla ricchezza e il suo uso, sui pregiudizi e la libertà interiore.

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domenica 21 novembre 2021

Franco Faggiani, “Tutto il cielo che serve” ed. 2021

                                                                   Casa Nostra. Qui Italia

Franco Faggiani, “Tutto il cielo che serve”

Ed. Fazi, pagg. 280, Euro 17,10

 

    24 Agosto 2016. Alle 3,36 del mattino un terremoto di magnitudo 6.0 scuoteva la terra nei pressi di Amatrice, nel Lazio. Altre scosse sarebbero seguite, il 26 ottobre, ancora il 30 ottobre e il 18 gennaio 2017: 41.000 gli sfollati, 388 i feriti, 303 i morti. Una catastrofe di proporzioni immani.

   A cinque anni di distanza Franco Faggiani, di cui abbiamo apprezzato la sensibilità in altri suoi romanzi come “Il guardiano della collina dei ciliegi” e “Non esistono posti lontani”) ha dedicato un libro, “Tutto il cielo che serve”, a quei giorni, alla paura, al dolore, alla disperazione, al lutto, alle vite spezzate. E soprattutto a chi è intervenuto per portare soccorso, per salvare il salvabile, per offrire cure e conforto- il Corpo dei Vigili del Fuoco, i comunemente chiamati ‘pompieri’ così spesso sottovalutati perché non si sa abbastanza dei campi in cui sono impegnati.

    Una scelta insolita, dunque, quella di fare dei Vigili del Fuoco i protagonisti, e altrettanto insolito il personaggio principale- una donna a capo della squadra dei vigili impegnati nelle operazioni di soccorso.


Quando la conosciamo, Francesca Capodiferro è in un bar di Ascoli dove ha appuntamento con il capo della sezione dei Vigili del Fuoco della città che deve affidarle il compito di un rilievo in quanto geologa- si sono aperte delle faglie sul fianco della montagna, è necessario monitorarle.

La scena è significativa. Francesca non è in divisa, ha gonna e tacchi. Lui non la prende neppure in considerazione e, dopo una certa attesa, fa per andarsene. Gli avevano detto solo il cognome della persona che avrebbe incontrato e mai avrebbe immaginato che potesse essere una donna. È solo la punta dell’iceberg dei pregiudizi e delle difficoltà con cui si scontra una donna che non svolga un compito tradizionalmente femminile. Questa è una seconda tematica del libro, messa in rilievo dalla difficoltà del momento- Francesca dimostrerà di valere quanto e più di un uomo, per la capacità di prendere decisioni, di coordinare il lavoro, di agire in prima persona- persino di mettersi al volante di una escavatrice.


     Francesca è sola, accampata sul fianco della montagna, quando è risvegliata dalle scosse. Non perde un attimo. Da questo momento l’attenzione dello scrittore è rivolta ad Amatrice, al panico, alla disperazione per la perdita delle persone care e anche- come si può non pensarci?- dei beni materiali, i risparmi e le fatiche di una vita intera. Ci sono momenti di pura gioia quando si riesce ad estrarre qualcuno dalle macerie, di pena infinita quando si trova un cadavere (il cane di Francesca, Rufus, addestrato a questo scopo, merita una sua propria storia, così come l’allegro cagnetto Nuzzo), di dolore partecipe quando si deve intervenire immediatamente con interventi chirurgici d’urgenza, di furia spazientita quando si deve impedire a qualcuno di rientrare in case pericolanti per recuperare qualcosa- c’è qualcosa di più prezioso della vita?

    Per alleggerire l’atmosfera, per rendere la cronaca di un sisma un romanzo, Faggiani dà spessore ai suoi personaggi, a Francesca che potrebbe benissimo starsene a casa e godersi i soldi ereditati dal padre, a Jack che era pilota di elicotteri ed è stato trasformato nel capro espiatorio per un incidente di cui non era responsabile, al medico che era stato compagno di scuola e primo amore di Francesca, al pompiere che pensa di non poter reggere a tanto strazio e vorrebbe abbandonare tutto, ai due cani


    “Tutto il cielo che serve” è un libro per non dimenticare (come quello di Donatella Di Pietrantonio, “Bella mia”, dedicato al terremoto dell’Aquila), per non accantonare il ricordo di una catastrofe naturale che non è finita, non di certo per il paese di Amatrice e i suoi abitanti. La vita va avanti, forse sempre più o meno uguale per noi, ma per loro?

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venerdì 19 novembre 2021

Cho Nam-Joo, “Kim Ji-Young nata nel 1982” ed. 2021

                                                              Voci da mondi diversi. Corea



Cho Nam-Joo, “Kim Ji-Young nata nel 1982”

Ed. La Tartaruga, trad. F. Bernardini, pagg. 176, Euro 18,00

 

    Cho Nam-Joo, la scrittrice sudcoreana che ha raggiunto una fama internazionale con il romanzo “Kim Ji-Young nata nel 1982” (è stato tradotto in 18 lingue e ha venduto più di un milione di copie), è nata nel 1978, solo quattro anni prima della protagonista del libro. Possiamo facilmente immaginare che l’esperienza di Kim Ji-Young sia stata, almeno in parte, quella della scrittrice stessa. E l’intenzione di Cho Nam-Joo è quella di portare all’attenzione la condizione delle donne nella Corea del Sud, la discriminazione tra donne e uomini in tutti gli ambiti, da quello domestico a quello del lavoro- ci sorprende un poco, e ci sconvolge, che la scrittrice non ci dica nulla di nuovo, che la situazione in Corea non è poi diversa dalla nostra, se solo si vuole essere del tutto onesti e sinceri.

    Conosciamo Ji-Young quando già ‘dà i numeri’. Ha una bambina piccola, fa la mamma a tempo pieno, che cosa è rimasto di quello che era lei, la ragazza in carriera di un tempo? e anche se il marito è comprensivo e cerca di aiutarla, la depressione è una malattia che non perdona.


    In Corea, come in Cina e- confessiamolo- anche da noi, soprattutto in certe aree, nascere femmina significa essere accolte con un sospiro, sperando che il prossimo bambino a nascere in famiglia sia un maschio. Ji-Young era una secondogenita, dopo di lei sua madre aveva abortito quella che sarebbe stata una terza bimba, proprio perché era femmina, poi era arrivato l’erede.


Il figlio maschio è sempre privilegiato-
a lui spettano i bocconi migliori e piatti più abbondanti. Quando la piccola Ji-Young mette il ditino nel latte in polvere del fratellino (che squisitezza), la nonna la picchia sulle manine. È una disparità di trattamento che andrà avanti per tutta la vita. In famiglia i risparmi servono per far studiare lui, il ‘principe’ di casa. E, quando Ji-Young entra nel mondo del lavoro, la strada è tutta in salita, dalla difficoltà di essere assunta (poco importa se è meglio qualificata per un impiego- un candidato maschio ha sempre la precedenza), alla paga che è diversa, e poi ci si deve difendere da avances poco gradite, si devono sopportare parole denigratorie del tutto gratuite.

   Il fidanzato che diventerà il marito Ji-Young è un’ottima persona, un uomo moderno che non richiede di essere servito e collabora nella gestione della casa. Finché, sotto le pressioni dei genitori e dopo averne molto discusso, Ji-Young e il marito decidono di avere un bambino anche se sono ben consapevoli che Ji-Young dovrà restare a casa per badare al piccolo. E l’uomo moderno, ovverossia il marito, si ritrova a fare le stesse considerazioni di tutti gli uomini. Quello che gli sfugge è che, se è pur vero che lui dovrà lavorare di più, non dovrà però rinunciare a niente di sé. E naturalmente, alla nascita di una bimba, Ji-Young deve ascoltare le solite frasi che sono un benvenuto condizionato per la piccola (e poi lei, no, non ha proprio intenzione di riprovarci di nuovo per avere un maschio), prospettare per la figlia un futuro uguale al suo, dire addio ad ogni speranza di riprendersi la sua vita. Un giorno dopo l’altro…


     La quotidianità distillata in uno stile minimale, le piccole difficoltà che si accumulano, la disparità radicata nella tradizione, l’abisso che si spalanca davanti alla sensazione di impossibilità di cambiare qualcosa, meglio rifugiarsi in un luogo segreto della mente.

     Dal libro è stato tratto un film, non vi dirà niente che non sappiate, ma leggetelo.

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martedì 16 novembre 2021

Damon Galgut, “L’impostore” ed. 2009

                                                           Voci da mondi diversi. Africa


Damon Galgut, “L’impostore”

Ed. Guanda, trad. Silvia Piraccini, pagg.248, Euro 16,00

 

     Non c’è dubbio su chi sia l’impostore, nel nuovo romanzo dello scrittore sudafricano Damon Galgut: il protagonista Adam Napier, un uomo sulla quarantina che vede sbriciolarsi la vita che ha condotto finora. Ha perso il posto di lavoro per le nuove politiche di pari opportunità del dopo-apartheid; ha perso pure la casa a Johannesburg, non potendo pagare le rate alla banca; si ritrova ospite del fratello a Città del Capo e accetta l’offerta di relegarsi a vivere in una casupola di questi, in un villaggio a otto ore dalla capitale. Da questo momento in poi, tutta la vita di Napier diventerà un’impostura, ad iniziare dalla sua stessa identità: dice di essere un poeta, che questo è quello che fa- scrivere poesie. E invece non è vero, pare che il fallimento della sua esistenza lo abbia portato ad una paralisi su tutti i fronti: incapace di scrivere, incapace di passare all’azione ed estirpare le erbacce che hanno invaso in maniera oscena il giardino di quella che è diventata la sua casa. Ma naturalmente la peggiore impostura sarà in seguito, dopo l’incontro casuale con Canning, suo compagno di scuola negli anni dell’infanzia. E ai danni di Canning. Eppure, mentre ci inoltriamo nella lettura, ci viene prima il sospetto, poi la certezza, che Napier non sia il solo impostore. Che non sia l’unico che abbia qualcosa da nascondere, che conduca due vite. E c’è ben altro in ballo che non una relazione adulterina di amore-sesso, dietro le falsità degli altri.


     Ritorniamo all’inizio del romanzo, mentre Adam Napier segue con la sua auto quella del fratello verso la sua nuova abitazione, nel paesino di Karoo. Siamo nel mezzo del nulla, strada deserta, c’è uno svincolo, Adam rallenta ma non si ferma. Un poliziotto sbuca da dietro l’unico albero e gli fa la multa. Ma è assurdo! Bene: o paga mille rand di multa (più altri mille per la patente scaduta) o ne dà duecento in tasca al poliziotto e tanti saluti. Adam pagherà la multa. E’ un piccolo episodio importante che contiene in nuce la tematica del libro: una minaccia occulta, un personaggio che cela un’altra faccia dietro la sua identità ufficiale, la corruzione. Il romanzo di Damon Galgut pullula di personaggi che non sono solo quello che appaiono: il vicino di casa di Adam (perché mai teme che Adam sia stato mandato per ucciderlo?); il sindaco nero che insiste perché Adam ripulisca il giardino e seghi due alberi; l’altera e bellissima moglie di colore di Canning (faceva la puttana); l’enigmatico Genov e gli altri uomini di potere che si aggirano intorno a Canning (mafia russa?) e infine lo stesso Canning e l’intera sua proprietà dall’affascinante nome di Gondwana.


     Ma chi è questo Canning che riaffiora dal passato di Adam? Perché Adam (l’impostore) solo alla fine gli dirà di non ricordarsi affatto di lui, mentre, a quanto pare, Adam ha avuto un’enorme importanza per Canning in quei tristi anni di collegio, quando Canning, sbeffeggiato di continuo dal padre, voleva morire per l’infelicità e Adam era il bersaglio dei compagni perché bagnava il letto. Quello che Canning fa di Gondwana- il Giardino dell’Eden voluto da suo padre-, lo scempio del paesaggio, il tradimento della natura, una trasformazione comprata con la corruzione, è la conseguenza delle parole di consolazione offerte da Adam un quarto di secolo prima, nei bagni della scuola: che bastava pazientare, mettere da parte lacrime e rabbia, e si sarebbero vendicati.

    E’ un tema che sta molto a cuore a Damon Galgut, quello della menzogna e del tradimento. Erano presenti anche nel suo bellissimo libro precedente, “Il buon dottore”, e lo scrittore stesso ci aveva detto, quando lo avevamo incontrato a Roma, che sì, sperava che il lettore vedesse la metafora del tradimento personale per il tradimento politico. Perché l’atmosfera che pervade “L’impostore” è di scoramento e di delusione, di aspettative frustrate. Di inutilità del tutto. C’è la sensazione, come riflette Adam, alla fine, che “qualsiasi cosa gli sembrasse presente e importante un giorno sarebbe stata appena una vibrazione” nel futuro.

    Un’osservazione sulla traduzione, per concludere: Canning (sempre chiamato con il cognome, come si fa a scuola) si rivolge ad Adam con il nomignolo che gli avevano appioppato i compagni, “Pannolino”, riferendosi alla sua enuresi notturna- in inglese ‘Nappy’. Se Nappy regge bene, perché è pure una trasformazione del cognome di Adam, Napier, l’italiano Pannolino, pur con lo stesso significato, è grottescamente assurdo: è incredibile che Adam lo tolleri sino alla fine, quando si decide a dire a Canning che non vuole essere chiamato così. Sarebbe stato meglio indicare in una nota la traduzione italiana, invece che quella inglese.

La recensione è stata pubblicata sul sito di Stradanove




lunedì 15 novembre 2021

Ben Pastor, “La sinagoga degli zingari” ed. 2021

                                                             cento sfumature di giallo

    seconda guerra mondiale

Ben Pastor, “La sinagoga degli zingari”

Ed. Sellerio, trad. Luigi Sanvito, pagg. 655, Euro 17,00

 

  Oggi, 11 novembre, il giorno in cui sto scrivendo, è il compleanno di Martin Bora.

   Se fosse in vita (impossibile), se fosse un uomo in carne e ossa, compirebbe 108 anni. Nel 1942, oggi Martin era a Stalingrado- il nome di una città impresso a fuoco nella memoria collettiva come le Termopili, o Waterloo, o Caporetto, toponimi che hanno preso il significato di una catastrofica sconfitta. E io ho controllato le temperature di Stalingrado, oggi. Minima 1°, massima 6°. Martin parla di venti, venticinque, trenta gradi sotto zero nel corso del novembre di 79 anni fa. Le sorti della battaglia non sarebbero state diverse, diversa sarebbe stata, invece, la possibilità di sopravvivenza per i nostri alpini- e il pensiero corre a “Centomila gavette di ghiaccio” del nostro Bedeschi.

    Se…se…se Martin…, se parliamo di un personaggio che esiste su carta come se fosse una persona che conosciamo, un amico, vuol dire che c’è una magia nella penna di chi lo ha creato e ha saputo renderlo così “vero”.

Claus von Stauffenberg

Martin Bora è un vecchio amico, lo conosciamo da quando era un giovanissimo volontario nel Tercio che combatteva in Spagna nel 1938 e incontrava Remedios, la donna che gli aveva insegnato l’amore (“La canzone del cavaliere”), lo abbiamo seguito a Berlino ne “Il signore dalle cento ossa” (aprile 1939), in Polonia sempre nel 1939 ma a guerra appena iniziata, quando ancora questa gli sembrava un’impresa da eroi, e poi in Bretagna, nel Nord Italia dove era stato vittima di un attentato dei partigiani, a Roma nei giorni dell’eccidio delle Fosse Ardeatine e altri ancora teatri di guerra. Noi lettori sappiamo di più di quanto sappia lui stesso sul suo futuro, perché Ben Pastor non ha rispettato la cronologia nello scrivere di questo ufficiale della Wehrmacht che serve il suo paese e non Hitler. E infatti “La sinagoga degli zingari” ci riporta indietro nel tempo, rispetto a “La Venere di Salò” che ci aveva lasciato con il fiato in sospeso, mentre Martin veniva caricato su un treno diretto in Germania, dopo che la Gestapo lo aveva arrestato.

     Stalingrado, dunque. Agosto 1942, nulla lascia pensare alla disfatta. Una coppia di coniugi romeni è scomparsa nella steppa, dopo che l’aereo che avrebbe dovuto portarli ad incontrare il generale Paulus aveva dovuto effettuare un atterraggio di emergenza. Erano due scienziati, avevano collaborato con Enrico Fermi ed Ettore Majorana (e il nostro pensiero corre al libro di Sciascia), era alquanto strano che si recassero in semplice visita di cortesia a Paulus, il quale incarica di persona Martin di scoprire che fine abbiano fatto.

Von Paulus

     I romanzi seriali di Ben Pastor non sono thriller, sono romanzi storici con delitto, sono indagine su un crimine all’interno del crimine ben più grande della guerra, sono un grande affresco storico dei campi di battaglia della seconda guerra mondiale in Europa, sono un lungo romanzo di formazione, un percorso di crescita che passa attraverso milioni di morti, sono una riflessione su questioni etiche che mettono la nostra vita ad un bivio, sono, infine, una dimostrazione di come sia possibile restare esseri umani anche nelle circostanze più difficili.

     Due sono le immagini ricorrenti nel romanzo- la ‘grande onda di Kanagawa’ del quadro di  Hokusai e la Sinagoga degli zingari, già titolo di una composizione musicata dal padre di Bora in cui la sinagoga doveva molto alla mitologia russa ed echeggiava la città perduta di Kitež, sommersa dalle onde del Volga durante l’assedio di Gengis Khan.


La grande onda che sta per abbattersi travolgendo la barchetta dell’esercito che si reputava invincibile e il miraggio della sinagoga che comunica, in qualche modo, un’idea di spiritualità e che sarà spazzata via come la mitica Kitež, insieme agli zingari, un popolo nomade quanto l’ebreo errante, che finirà nei campi di sterminio come gli ebrei. E, mentre l’afa dell’estate sulla steppa cede il passo alla prima neve e poi al gelo, mentre i cecchini non sbagliano un colpo sparando sui tedeschi dagli scheletri degli edifici rimasti in piedi (memorabile la scena del cecchino donna), mentre la battaglia contro i pidocchi è persa e quella contro il tifo pure (si ammala anche Martin), mentre il generale Paulus non ha l’ardire di dare un comando contrario a quello che il suo Führer follemente ordina, la tenaglia si stringe, i suicidi aumentano. Per dei soldati che hanno sempre avuto come punto fermo l’obbedienza assoluta agli ordini, la direttiva dall’alto, ‘non ci sono più ordini. Dalla mezzanotte di oggi vige libertà di azione’, è uno sconvolgimento, un terremoto. È la fine.

   È con la conoscenza dello storico ma con un’altra prospettiva che Ben Pastor ci parla dei giorni di Stalingrado. È la banale quotidianità della morte in guerra quella di cui leggiamo, agghiacciante nella sua inevitabilità che poteva essere evitata. E perdiamo di vista la seconda trama (che cosa complottavano i coniugi scienziati? Forse sì che quello avrebbe potuto cambiare l’esito della guerra) il cui mistero verrà poi risolto da Martin, non più in Russia ma in ospedale a Praga senza essere mai veramente tornato da Stalingrado. E pronto a ripartire.

   Appassionante, dolorosamente coinvolgente e sì, anche istruttivo.

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Sotto l'etichetta 'seconda guerra mondiale' si trovano le recensioni dei precedenti romanzi con protagonista Martin Bora:

2018, "La notte delle stelle cadenti"

2016, "I piccoli fuochi"

2014, "La strada per Itaca"

2014, "Kaputt mundi"

A breve metterò online le recensioni (già pubblicate in passato e ripescate nei miei file) degli altri romanzi della serie.


    

venerdì 12 novembre 2021

Damon Galgut, "Il buon dottore"- Intervista 2005

                                                              Voci da mondi diversi. Africa

Damon Galgut, "Il buon dottore"
Ed. Guanda, trad. V. Raimondi, Pagg. 275, Euro 14,50

   Un ospedale fantasma nel mezzo del nulla in un Sud Africa dai lenti cambiamenti dopo la fine dell’apartheid, se arrivano dei casi gravi devono essere trasportati nell’ospedale “vero” della città vicino, perché qui mancano le medicine (abbondano solo i preservativi), ci sono i macchinari ma manca la corrente, abbondano pure i medici: diventeranno cinque con l’arrivo del giovane Laurence Waters, uno dei due protagonisti principali de “Il buon dottore” di Damon Galgut. Appena Frank Elioff, il dottore che condividerà la stanza con lui, lo vede, pensa, “non durerà”. Non è solo perché è giovane, è qualcosa nel suo volto, l’aria smarrita e perplessa, quel dire, “non capisco”, davanti all’inaccettabile realtà che ha davanti. Laurence, con quel cognome che fa pensare alla limpidezza dell’acqua, a pulizia dilavante, è come il bambino nella fiaba “Il vestito d’oro dell’Imperatore”, l’unico che ha il coraggio di smentire una diagnosi della dottoressa Ngema, capo dell’ospedale, che fa domande di una semplicità allarmante, che protesta per i furti che nessuno denuncia, perché ha un’incrollabile fiducia che le persone possano cambiare le cose- la sua è l’innocenza (l’ignoranza?) della giovinezza che può essere rivoluzionaria oppure devastante. Ed è come se il confronto con lui spingesse Frank- un divorzio alle spalle, un legame di sesso con una donna di colore, la colpa di quelle parole, “non è ancora in punto di morte”, con cui aveva sentenziato la fine del prigioniero torturato- a comportarsi con maggiore cinismo. E il tema centrale del romanzo di Galgut diventa quello della menzogna e del tradimento, sia nella politica sia nella sfera dei rapporti personali. In un rovesciamento di ruoli, Frank, a suo tempo tradito dal suo migliore amico che era fuggito con sua moglie, tradisce ora Laurence andando a letto con la sua ragazza- e non anticipiamo un altro tradimento finale seguito da un altro scambio di ruoli che ci lascia con il dubbio di chi sia “il buon dottore”. Stilos ha intervistato lo scrittore.

 

Galgut a Roma nel 2005

 La vicenda del suo romanzo è ambientata in una città fantasma, senza nome, in una homeland. Qual era l’intenzione, nel creare queste homeland?

     Le homeland dovevano essere le pietre d’angolo del sistema apartheid. L’idea alla base di questo sogno ridicolo era che si potessero prendere delle zone sottosviluppate e farne dei falsi stati per le tribù nere: a ogni tribù sarebbe stato concesso un piccolo stato. Agli abitanti sarebbe stata tolta la cittadinanza sudafricana e gli sarebbe stata data la cittadinanza di questi piccoli stati che avrebbero avuto una capitale, un esercito, una bandiera e un governo fantoccio. Non ho dato un nome alla città del romanzo perché non volevo legarla a nessun posto, volevo che fosse una qualunque di queste capitali, che il lettore immaginasse quello che voleva.


 Sia la homeland sia l’ospedale sono forse dei simboli delle promesse non adempiute e anche della frattura tra realtà e idealismo?

     No, non li ho visti come dei simboli. Per me rappresentavano due cose: una parte di me li vedeva come l’ambientazione ideale per un dramma, ma questa ambientazione ha anche la funzione di una metafora, di un simbolo. E questo simbolo riguarda la condizione del Sudafrica: viviamo adesso in un momento strano, il passato è alle nostre spalle ma non siamo ancora arrivati al futuro. Siamo in uno stato di sospensione e volevo che l’ambientazione comunicasse  questa sensazione di essere in un non-luogo.

 La dottoressa di colore, Ngema, è sulla sessantina. Dove si è laureata? Perché i neri non potevano frequentare l’università in Sud Africa al tempo in cui lei era giovane, vero?

      La dottoressa ha vissuto in esilio per gran parte della sua vita, come molti intellettuali neri. A quel tempo era preferibile per i neri vivere in esilio piuttosto che sotto le leggi dell’apartheid. I neri non avevano passaporto, se volevano andarsene ottenevano un permesso d’uscita, il permesso per andarsene ma non per tornare indietro. Avevano dei supporti da parte di organizzazioni internazionali, moltissimi di loro fecero delle carriere brillanti, molti tornarono dopo il cambiamento per cercare una vita più vicina alle loro origini. Durante l’apartheid il livello dell’istruzione veniva tenuto molto basso per i neri, e negli anni ‘70 e ‘80 molte scuole nere furono incendiate come simbolo dell’oppressione. E così pure l’afrikaan veniva rifiutato dagli studenti come la lingua della gente che li opprimeva.


 Come sono i rapporti tra neri e bianchi adesso, 14 anni dopo la fine dell’apartheid? Si capisce chiaramente quale sia l’atteggiamento del padre di Frank, mentre quello di Frank è meno chiaro.

      Per molti aspetti in realtà la frattura fra i bianchi e i neri non è molto cambiata. Le divisioni tra la gente adesso non sono tanto razziali ma di classe, e tuttavia le differenze di classe seguono da vicino quelle di razza. In effetti la minoranza bianca ha ancora il potere economico e la grande maggioranza nera non ha i soldi per muoversi da dove si trova: le township sono ancora lì, e sono nere. Il Sudafrica appare per lo più uguale a come era. E Frank è una figura strana: sprezzante del pregiudizio ma anche dell’idealismo. Lo vedo come un rappresentante della mia generazione, di quelli che non hanno fatto l’apartheid ma non lo hanno neppure demolito.

 Ci sono due figure che rappresentano il Male nel libro, quella di un bianco- il capitano Moller, e quella di un nero- l’ex dittatore.

   Moller è un tipo molto riconoscibile, era il tipo di persona che operò sia attivamente sia ideologicamente per il governo della minoranza bianca e naturalmente molte di quelle persone sono ancora nell’esercito o nel governo. Il brigadiere nero è diverso: è come il fantasma di un dittatore africano che sentiamo aleggiare in attesa di toccare terra. Si può dire che il bianco rappresenta il passato e il nero è una figura minacciosa del futuro.

 Uno dei temi del libro è quello del tradimento: il tradimento personale rappresenta anche un tradimento più ampio, un tradimento politico?

    E’ una cosa che non dico direttamente ma spero proprio che i lettori facciano da soli questo collegamento.

 I due dottori che vengono da Cuba: come venivano considerati, questi stranieri che arrivavano da Cuba per motivi idealistici o politici?

     Negli anni 1996-97 il governo sudafricano ha fatto arrivare due centinaia di dottori cubani per risolvere la crisi del personale e questi medici furono sparpagliati negli ospedali di tutto il paese, spesso non sapevano neppure una parola di inglese. Fu una mossa controversa, ma non cercavo di commentare questo passo del governo, mi piaceva la stranezza di questa coppia dislocata nell’ ospedale fantasma.


 C’è un particolare riguardo ad un altro personaggio che non sembra essere positivo, quello della ragazza afro-americana che si cambia il nome perché sembri più indigeno.

      Anche questa ragazza è riconoscibile come un tipo che si vede ogni tanto. C’erano molti neri americani che venivano in Sudafrica, o più genericamente in Africa, in cerca delle loro radici. Sono figure piuttosto divertenti perché la loro idea dell’Africa non è vicina alla realtà, e naturalmente la maggior parte di loro torna molto presto in America e alla vita borghese.

 Frank e Laurence: due amici, padre e figlio, ma anche due aspetti dello stesso personaggio. Laurence è una specie di doppio di Frank?

    Sì, la storia del romanzo è di tipo psicologico, è come una danza di quei due personaggi. Rappresentano la spaccatura nella mia psiche, una parte che appartiene al futuro e una parte che è appesantita dal passato. E’ una spaccatura che percorre tutta la mente bianca del Sudafrica.

 L’infermiere nero Tehogo è un personaggio difficile da interpretare, è una vittima?

    Tehogo è qualcuno danneggiato dalla storia. La sua famiglia era stata uccisa in qualche tumulto, ma adesso lui svolge un’attività che ha qualcosa di criminale. Come tratti uno così? Non si può trattare come una vittima perché è uno che non fa il suo lavoro. E’ una questione etica complessa che fa parte del Sudafrica di adesso.

 Uno dei personaggi cita Soweto: Soweto è un nome, collegato ad una data, il 1976, che segna un momento cruciale per la storia dell’apartheid.

      Soweto è la più grande township in Sudafrica. Ogni città è divisa in due parti, quella bianca e quella nera, rigorosamente separate. Soweto è la città-ombra nera della città bianca di Johannesburg. Nel 1976 il tumulto che spazzò il Sudafrica iniziò a Soweto. Dopo il 1976 il paese non fu più tranquillo.


 Nella “mitologia” del Sud Africa, il Presidente De Klerk occupa un posto importante quanto Nelson Mandela?

      No, assolutamente no, anche se forse è così per i bianchi. Alcuni hanno dato credito a De Klerk per aver avuto il coraggio di smantellare l’apartheid ed è vero: se il presidente precedente, Botha, fosse stato in quella posizione, non avrebbe mai preso quell’iniziativa. Ma la maggior parte crede- e anche io lo credo- che non ci fosse altra scelta, non era economicamente possibile continuare. I passi fatti, le decisioni prese erano una manovra tattica, ma una volta fatto il primo passo non potevano più controllare i passi seguenti. Non esiste neppure un paragone con Mandela. Per i bianchi forse sì, perché hanno un disperato bisogno di una figura bianca da idealizzare. Ma De Klerk sapeva che c’erano gli Squadroni della Morte. Il presidente Botha, il peggiore leader bianco in assoluto, aveva istituito uno State Security Council che operava in segreto per mantenere il controllo negli stati di emergenza, durante gli anni ‘80. Erano gli Squadroni della Morte che uccidevano gli oppositori politici. De Klerk faceva parte del Council, non è possibile che non sapesse che cosa succedeva, anche se ha sempre negato.

De Klerk

 L’afrikaan, adesso, è una lingua letteraria? Ed è un motivo politico quello che spinge alcuni scrittori ad usare l’afrikaan invece dell’inglese?

     Non so se ci sia un motivo politico, è più un motivo di nazionalità. L’afrikaan è adottato soprattutto da quelli che noi chiamiamo “di colore”, che ha un significato diverso dallo stesso termine che in America invece è usato per i neri. Da noi i “coloured” sono i sangue-misto. Sotto l’apartheid in Sudafrica c’erano i bianchi, i neri e i “coloured”. Il loro afrikaan è una lingua molto viva, sovversiva, una lingua rude. Ci sono delle poesie molto belle scritte in afrikaan, c’è un grande scrittore in afrikaan, Breytenbach, un bianco che fu imprigionato per aver operato contro lo Stato.

L'articolo è stato pubblicato sulla rivista Stilos