giovedì 31 marzo 2022

Yasmina Reza, “Serge” ed. 2022

                                               Voci da mondi diversi. Francia

 

Yasmina Reza, “Serge”

Ed. Adelphi, trad. D. Salomoni, pagg. 186, Euro 19,00

    I Popper. Famiglia ebraica francese. Tre figli: Serge, Jean e Nana (vezzeggiativo di Anna). In questo ordine- il primogenito Serge, fisico decisamente robusto, incapace di stare a dieta per più di un giorno, un po’ gigione, sempre sopra le righe, un po’ dispotico, forte del diritto della primogenitura; Jean, il narratore, da sempre l’ombra del fratello maggiore, quello che ha il compito di paciere; Nana, la sorella più piccola coccolata da fratelli e genitori, ha sposato un uomo giudicato non alla loro altezza dalla famiglia e oggetto di continue frecciate.

    Conosciamo i Popper quando sono all’inizio della mezza età, con figli già adulti. Conosciamo le ex-mogli e le mogli, le compagne e le amanti, i figli loro e quelli delle loro compagne, in una sequenza di scene disordinate e vivaci, fatte di molti dialoghi che ci rivelano il loro carattere meglio di qualunque altra cosa, aprendo sipari su ricordi del passato e scene di vita presente. Serge si intromette ovunque, è sempre Serge a dettare legge- solo la sua compagna, offesa con lui per un suo velleitario tradimento, riesce a tenergli testa.


     Il nodo centrale di questo quadro di famiglia è una visita ad Auschwitz, organizzata da Nana, contro il parere di Serge. Saranno in quattro ad andare, i tre fratelli e la figlia di Serge. Nana lo reputava essenziale, visitare il luogo dove sono morte persone della loro famiglia insieme a milioni di altri ebrei. La visita sarà un fallimento. Perché non sono preparati alla dissacrazione del campo, alla presenza di orde di turisti ciarlieri e irrispettosi, vestiti come per una vacanza al mare, occupati a farsi selfie, per niente commossi o inorriditi dalle ombre del passato. Difficile dissociarsi da questa atmosfera da pic-nic. In più, Serge sembra boicottare quella che considerava una spedizione assurda e inutile.

    Yasmina Reza è un’acclamata drammaturga e la consuetudine a scrivere opere teatrali si avverte nelle pagine del romanzo. Perché c’è una spontaneità e una brillantezza negli scambi di battute tra i fratelli che reggerebbero benissimo delle scene sul palcoscenico. Non c’è mai un calare di tono, non c’è stanchezza, le descrizioni sono minime, a noi lettori sembra di seguire con gli occhi della mente un palleggio da un giocatore all’altro, e se uno lascia cadere la palla, viene immediatamente sostituito da un altro giocatore. Con umorismo e un lieve sarcasmo è messa a nudo la dinamica dei rapporti famigliari che- lo sappiamo bene- vengono impostati durante l’infanzia e poi subiscono ben pochi mutamenti. C’è un affetto di fondo che non è messo in discussione, ci sono rivalità e gelosie impossibili da sconfiggere, e c’è un fronte comune davanti alle difficoltà serie o all’insorgere di una malattia.


     Quello che piace è l’atteggiamento scanzonato nei confronti di tutto- la vecchiaia, la senilità, la morte, il cancro, l’eterna mancanza di soldi, i tradimenti di compagni e compagne. Forse è questo il segreto per affrontare la vita e andare avanti, nonostante tutto. Auschwitz compreso. Perché, qual è l’atteggiamento giusto da tenere davanti a quanto successo ad Auschwitz, che va al di là di ogni possibile immaginazione? È questo inimmaginabile che impedisce ai visitatori di portare il dovuto rispetto? È il sentirsi obbligati a visitare un luogo di tragedia?

     C’è un personaggio emblematico nel romanzo. È quello del bambino Luc, figlio di una ex compagna di Jean, forse autistico. Un bambino chiuso in un suo mondo che sembra distaccato da tutto e da tutti. È l’unico a non essere toccato dalle frecciate dei Popper, fa pensare all’idiota dostojevskiano, al di sopra del male e delle brutture.

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martedì 29 marzo 2022

Kemal Monteno - Sarajevo, Ljubavi Moja (1995)

                                  musica per un libro

Marzio Mian e Francesco Battistini, “Maledetta Sarajevo” ed. 2022

                                                                     Casa Nostra. Qui Italia

              guerra dei Balcani

Marzio Mian e Francesco Battistini, “Maledetta Sarajevo”

Ed. Neri Pozza, pagg. 400, Euro 19,00

 

     C’è una canzone che idealmente può fare da colonna sonora al libro “Maledetta Sarajevo” di Francesco Battistin e Marzio Mian. Una canzone il cui titolo suggerisce un amore struggente in contrasto con il titolo del libro- “Sarajevo, ljubavi moja” (Sarajevo, amore mio) di Kemal Monteno-, i cui versi dicono: Siamo cresciuti insieme, città, tu ed io…Dovunque io vada, io sogno di te…Adesso il ragazzo è un uomo e l’inverno/ copre le montagne/ Il parco e i capelli sono grigi, ma la neve/ andrà via/ La primavera e la giovinezza allora riempiranno/ la mia Sarajevo, la mia unica città.

    Sarajevo, amore mio, la città martire che subì l’assedio più lungo della storia bellica del XX secolo, 4 anni dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996, più lungo ancora di quello di Leningrado durante la seconda guerra mondiale. Sarajevo è al centro del libro dei due giornalisti italiani, storia di una guerra durata dieci anni, iniziata dopo la dissoluzione della Repubblica socialista federale di Jugoslavia e che vide il coinvolgimento dei tre principali gruppi nazionali, serbi, bosniaci e bosgnacchi. Fu una guerra ‘anomala’, in parte guerra civile, in parte guerra tra etnie e religioni diverse (musulmani i bosgnacchi, ortodossi i serbi, cattolici i croati) per cui Tito era stato un collante e che avevano convissuto pacificamente a Sarajevo per secoli. Un libro appassionante- sì, appassionante, anche se narra una guerra di una crudeltà inaudita-, questo di Mian e Battistini, perché vivacizzato dalle interviste a testimoni, a vittime, a capi di stato, al giudice della corte dell’Aja, al generale francese che comandava i caschi blu dell’Onu (che cosa fecero per impedire il massacro di Srebrenica?), allo stesso Radovan Karadžić, ex presidente della Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina, il latitante più ricercato che sembrava giocare al gatto e al topo, apparendo e sparendo sotto gli occhi di tutti, condannato all’ergastolo come criminale di guerra, rinchiuso nella prigione dorata dell’isola di Wight.


    Partiamo da una data maledetta, una strana coincidenza che fa sì che il giorno di san Vito, 28 giugno, ad anni di distanza siano accaduti eventi cruciali per la Storia dei Balcani. Hanno la memoria lunga, i serbo bosniaci. Il 28 giugno 1389 il principe Lazar, a capo dell’esercito dell’alleanza balcanica, affrontò l’Impero Ottomano nella Piana dei Merli per bloccare l’invasione turca in Europa. Ci sono altri popoli che festeggiano una sconfitta?

Il 28 giugno 1914 a Sarajevo Gavrilo Princip uccise a colpi di pistola l’arciduca Francesco Ferdinando facendo precipitare l’Europa nella Grande Guerra. Sempre il 28 giugno, cinque anni dopo, veniva firmato il Patto di Versailles che metteva fine all’Impero austro-ungarico e all’impero ottomano.

Seicento anni dopo la Piana dei Merli, il 28 giugno 1989, Slobodan Milošević

 pronunciò il discorso che risvegliò l’orgoglio nazionale dei serbi dando origine a violenti scontri che anticipavano lo scoppio delle guerre balcaniche.

Ci furono altri significativi 28 di giugno, ricordiamone ancora uno, il Vidovdan 2001, quando Milošević fu arrestato e trasportato all’Aja per essere processato per crimini di guerra davanti al Tribunale Penale Internazionale.


    Partiamo da un 28 di giugno per un lungo calvario di guerra che vide vicini di casa trasformarsi in mostri di odio, donne sottoposte a sevizie al cui confronto gli stupri dell’Armata Rossa a Berlino sembrano quasi irrilevanti, i cecchini in agguato, il famoso tunnel scavato a mano che portava all’aeroporto di Sarajevo, la crudeltà di Mladić che quasi impazzì diventando ancora più selvaggio dopo il suicidio della figlia, le tigri di Arkan, principale organizzatore della pulizia etnica voluta da Milosevic. E poi Srebrenica, il genocidio di 8000 musulmani nel luglio 1995. Impossibile perdonare Srebrenica.


    La penna felice di Mian e Battistini riesce ad alternare le voci dei personaggi, gente comune e le persone il cui nome è diventato tristemente famoso, ad inserire i versi delle poesie di Karadžić, lo psichiatra poeta che si è improvvisato guaritore, a descriverci lo sguardo e il gestire dell’uno e dell’altro con tocchi di amara e beffarda ironia che ci aiuta a ‘digerire’ quello che leggiamo.

   Gli autori scrivono che, da quando si ha una memoria storica, ci sono stati nel mondo solo 14 giorni senza una qualche guerra. Ne stiamo vivendo una in questi giorni, vicino a noi, proprio come quella di trent’anni fa in Bosnia. La tragedia si ripete senza fine.

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Francesco Battistini


  

Marzio Mian

domenica 27 marzo 2022

Kashimada Maki, “Viaggio nella terra dei morti” ed. 2022

                                        Voci da mondi diversi. Giappone

               love story


Kashimada Maki, “Viaggio nella terra dei morti”

Ed. e/o, trad. Anna Specchio, pagg. 125, Euro 13,30

  Due racconti lunghi in questo libro di Kashimada Maki, giovane e pluripremiata scrittrice giapponese. Due racconti che parlano di due diverse forme di amore che, ancora una volta, ci fanno riflettere sul carattere diverso di occidentali e orientali.

   Una coppia, nel primo racconto- Taichi e Natsuko. Una coppia ‘non equilibrata’ a prima vista- lui ha subito un’operazione al cervello poco dopo il matrimonio, ha dovuto smettere di lavorare, ha difficoltà di deambulazione, non è di gran compagnia alla moglie, sempre assorto a guardare la televisione; lei sembra essere destinata al ruolo di ‘vittima’, vittima di una madre superficiale con il mito della bellezza, di un fratello alcolizzato e spendaccione che ha dilapidato la ricchezza della famiglia ed ora di un marito che dipende da lei anche per le minute necessità quotidiane.

   Un giorno Natsuko legge l’annuncio per un breve soggiorno in una spa e riconosce il nome del luogo e dell’hotel: era il lussuoso albergo di cui sua madre continuava a parlare, dove suo padre, nonno di Natsuko, l’aveva portata quando era bambina, un posto di sogno, un ricordo da favola.


Il tempo è passato e la realtà è ben diversa: l’albergo è fatiscente, non c’è più nulla del fasto di un tempo. Le due immagini si sovrappongono in un continuo confronto, il passato e il presente. E non è solo il racconto idealizzato della madre che si presenta alla mente di Natsuko, è tutto quello che è avvenuto nella sua vita, fino al matrimonio con Taichi (osteggiato da sua madre perché non lo giudicava ‘abbastanza’ per lei- lo aveva sposato proprio per quello e non ‘nonostante’ quello?). Allora il decadimento dell’albergo rispecchia quello della vita della sua famiglia, della sua stessa vita, e forse anche le ripetute cadute di Taichi, instabile sulle gambe, hanno una valenza non solo fisica. Eppure, nonostante tutto, Natsuko trova una nuova forza e un nuovo sprone riacquistando un accordo affiatato con il marito- la sedia a rotelle elettrica che lui ottiene alla fine è un’indice di speranza?

Shitamachi

    Il secondo racconto non ha la poeticità malinconica del primo, è pervaso da un’eroticità sottile e leggermente ambigua. Il punto di vista è quello di Nanako, la minore di quattro sorelle che vivono tutte insieme, con la madre, in uno shitamachi di Tokyo. Le quattro sorelle e la madre sono una piccola comunità chiusa, il legame tra le ragazze è fortissimo e appare subito chiaro che è perfin troppo stretto, che c’è qualcosa di leggermente malsano nell’amore che le lega. Soprattutto quello tra Nanako e una delle sorelle- quella che è la naturale confidenza del corpo dell’una con quella dell’altra si tinge di un erotismo che ci comunica un lieve disagio.

   Se ogni libro ci apre una finestra su un altro mondo, un’altra cultura, un’altra realtà, viene spontaneo riflettere su quanto il Giappone sia lontano dalla nostra solarità, e non solo geograficamente.




venerdì 25 marzo 2022

Mikhail Shishkin, “Punto di fuga” ed. 2022

                                                      Voci da mondi diversi. Russia



Mikhail Shishkin, “Punto di fuga”

Ed. 21lettere, trad. E. Bonacorsi, pagg. 392, Euro 19,50

 

     Libro-lettera, è la traduzione del titolo originale in russo. In inglese il romanzo di Mikhail Shishkin è intitolato The Light and the Dark. “Punto di fuga” è migliore, si riferisce a quanto uno dei due protagonisti, Volodya, scrive in una lettera a Sasha: Ecco come funziona il mondo. All’inizio eravamo tutti insieme, un tutt’uno. Poi siamo stati dispersi, ma a ciascuno è legato un filo, che ci tira indietro. Il mondo intero si riunirà di nuovo in quel punto…Lì saremo di nuovo tutti insieme perché quel luogo si chiama punto di fuga.

    È veramente un Libro-lettera, il romanzo di Shishkin. È lo scambio di corrispondenza tra due amanti separati troppo presto da una sorte avversa. Sasha e Volodya si scrivono da una distanza spaziale e temporale. Perché lui è stato mandato a combattere in Cina per soffocare la Rivolta dei Boxer (inizio del ‘900), lei ad un certo punto sembra vivere in un’epoca vicino alla nostra. Non solo. Tra le tante lettere ce n’è una, più o meno a metà della narrazione, che non è scritta da Volodya ed è indirizzata a sua madre. In un linguaggio asettico le viene comunicata la morte del figlio. Il grido disperato di lei, ‘Dov’è mio figlio?’, riecheggia quello di tante madri che, in tutti i tempi, si sono viste strappare un figlio dalla guerra. Le lettere però continuano e non sono destinate solo a loro due, Sasha e Volodya, ma anche a noi che leggiamo. ‘Le uniche lettere che non arrivano sono quelle che non sono state scritte’, dice Volodya. Il tono delle une e delle altre è diverso, perché diversa è la quotidianità dei lei e di lui. Sasha sposerà un uomo più vecchio che ha già una figlia, soffrirà per un aborto, vedrà morire il padre e la madre, vedrà la bambina figlia del marito spegnersi in un letto d’ospedale. E’ come se amore e morte andassero di pari passo, come se in questo mondo di Sasha, lontano dal teatro della guerra, la morte la facesse ugualmente da padrona. Meno cruenta, senza spargimento di sangue ma ugualmente dolorosa per chi resta.


     Le lettere di Volodya professano il suo amore e la sua nostalgia per lei, poi, mentre il suo reggimento è destinato a spezzare l’assedio di Tianjin insieme a truppe americane, inglesi, francesi e giapponesi, si fanno sempre più cupe per diventare angosciate e tormentate nell’avanzata verso Pechino. La bruttura della morte è ovunque, si deve avanzare nonostante il fisico sia provato e umiliato dalle malattie, si soffre per la morte di un amico e si ringrazia il cielo per non essere al suo posto. E, leggendo “Impossibile credere che da qualche parte ci sia una guerra. E ci sia sempre stata. E ci sarà sempre. Là ci sono feriti e morti veri. E c’è davvero la morte”, interrompiamo la lettura e pensiamo che questa riflessione sia stata scritta per noi, per questa nuova guerra così lontana e così vicina (il libro di Shishkin è del 2020). È questo il valore delle parole- e lo scrittore cita il Vangelo di Giovanni, In principio era il Verbo, e scrive, Solo le parole giustificano in qualche modo l’esistenza delle cose, danno un senso all’attimo, rendono reale l’irrealtà, mi rendono me stesso.


    “Punto di fuga” è un libro stupefacente, un libro che parla nello stesso tempo di amore e di morte, parla molto di morte perché parla molto di vita, e perché, quando la morte spia ogni nostro movimento, è il momento di riflettere sui nostri trascorsi, sul significato dell’esistenza e dell’amicizia e dell’amore. È un libro ricco di riferimenti colti- al leggendario prete Gianni, sovrano cristiano orientale presso cui sarebbe stato trasportato il santo Graal, a Shakespeare, alla storia dei paesi d’Oriente-, di descrizioni vivide di un paese, la Cina, per lo più sconosciuto agli inizi del secolo passato, di sentimenti e di emozioni. Pensiamo, spesso, leggendo all’immagine più volte evocata dell’insetto imprigionato nell’ambra, perché questa è la Storia. E poi siamo affascinati dalla Parola, dall’uso delle parole di Shishkin- In principio era il Verbo.

      Da leggere.

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mercoledì 23 marzo 2022

Jana Karšaiová, “Divorzio di velluto” ed. 2022

                                  Voci da mondi diversi. Europa dell'Est

          love story
la Storia nel romanzo

Jana Karšaiová, “Divorzio di velluto”

Ed. Feltrinelli, pagg. 158, Euro 15,00

 

     La prima cosa che viene in mente, leggendo il titolo “Divorzio di velluto” del romanzo di Jana Karšaiová (nata a Bratislava nel 1978), è la Rivoluzione di Velluto che, tra il novembre e il dicembre del 1989, portò alla dissoluzione dello Stato comunista cecoslovacco dando origine a due stati, la Slovacchia e la Repubblica ceca, e quel termine ‘di velluto’ si riferisce non solo alla trasformazione tranquilla ma anche al complesso musicale Velvet Underground, molto seguito negli anni della contestazione al regime sovietico.

     Tuttavia il titolo ha un significato più ampio ancora, lo capiremo calandoci nell’atmosfera del libro. Pensiamo all’etimologia della parola ‘divorzio’, dal latino divertere, ‘separare’. Quante separazioni nel romanzo! Dell’intero paese diviso a metà, di due lingue, il ceco e lo slovacco, di modo che ci si sente stranieri in quella che un tempo era un’unica patria, ancora un’altra separazione tra la lingua madre e quella del paese in cui si sceglie di andare a vivere, di due coppie, di due sorelle, di due amiche. Ogni separazione uno strappo, una ferita, una cicatrice che trova le parole dei ricordi.


    Katarina torna a Bratislava da Praga per trascorrere il Natale insieme alla famiglia. È sola- come spiegherà l’assenza di suo marito Eugen che è andato via da casa lasciandole un biglietto sul tavolo? Lei non è mai andata d’accordo con sua madre, una donna sempre arrabbiata. Non per niente la sorella maggiore di Katarina se n’è andata via, in America, molti anni prima. Katarina ne ha sofferto, le loro lettere si sono diradate, le risposte di Dora alle mail di Katarina sono sempre di poche parole.

A Bratislava Katarina incontra anche le amiche, Viera prima di tutto, con cui seguiva le lezioni di italiano. Viera aveva vinto una borsa di studio ed ora invitava Katarina ad andare a Verona con lei.

Bratislava

    Sono questi incontri, con la famiglia, con Viera e altre due compagne di studio, che fanno scattare la molla dei ricordi- l’incontro a Praga con Eugen e il loro matrimonio nel giro di pochi mesi, il sentirsi straniera e guardata con sufficienza in quella che era stata la capitale della Cecoslovacchia e perciò anche la ‘sua’ capitale, che cosa era successo dopo, l’amore tra Viera e la professoressa italiana e la seguente delusione. La mente si spinge più indietro ancora, alla vita quotidiana sotto il regime comunista, i silenzi, le code davanti a qualunque negozio, la mancanza di quei beni di consumo di cui si favoleggiava, la religione cattolica messa al bando. E sempre il pensiero rivolto al mondo occidentale in un misto di fascinazione e diffidenza.


   Ogni separazione è una fine e un nuovo inizio, ogni fine è occasione di ripensamenti, di ricerca di sé, di nuovi intenti. Ogni inizio è sofferenza ed aspettativa, è buio alle spalle ed una meta luminosa.

   “Divorzio di velluto” riflette l’esperienza personale della scrittrice e- dettaglio importante- è scritto in italiano, lingua che Jana Karšaiová ha imparato da autodidatta e che le offriva però- come agli altri scrittori famosi che hanno fatto una simile esperienza, Conrad, Agotha Christoff, Nabokov, Koestler- la possibilità di un distacco dalla materia di cui scriveva, una maggiore obiettività, una protezione dalla sofferenza. Ed è una lingua tersa, pulita, essenziale, quella impiegata da Jana Karšaiová, senza per questo sembrare povera.

    Un ottimo esordio, un romanzo che ha profondità nella leggerezza.



 

 

domenica 20 marzo 2022

Yokomizo Seishi, “Fragranze di morte” ed. 2022

                                                  Voci da mondi diversi. Giappone

Cento sfumature di giallo

Yokomizo Seishi, “Fragranze di morte”

Ed. Sellerio, trad. F. Vitucci, pagg. 174, Euro 14,00

      Due racconti lunghi sono riuniti in “Fragranze di morte” del giallista giapponese Yokomizo Seishi (1902- 1981), considerato un maestro del genere in patria. E in entrambi i racconti appare il personaggio dello squinternato detective privato Kindaichi, accompagnato dall’ispettore Todoroki (abbiamo già conosciuto entrambi ne “Il detective Kindaichi”, pubblicato nel 2019).

     Una donna con il viso nascosto dal velo del copricapo è una regolare cliente della gioielleria del centro commerciale. Dire ‘cliente’ è un eufemismo. La donna è una habituée cleptomane. Si fa mostrare numerosi pezzi di gioielli e ne ruba regolarmente alcuni. Impunita? Sì, perché a quanto pare c’è un accordo tra la sua famiglia e il direttore del negozio. Il prezzo del silenzio sono note di debito emesse dalla sua famiglia.

     Succede però, che, nel giorno in cui si svolge la vicenda, una giovane commessa ignara lanci l’allarme (la commessa che in genere serviva al banco aveva dovuto assentarsi un attimo), il responsabile del piano accorre per fermare la donna e finisce accoltellato. Intanto anche nella caffetteria ad un piano superiore muore un altro uomo- era stato responsabile del piano in cui si trova la gioielleria ed era stato licenziato da poco. C’era del cianuro nella sua tazzina del caffè. Con lui, al tavolo, c’era stata una signora velata, la donna soprannominata “Orchidea nera”. Ma era possibile che l’Orchidea Nera non fosse un’innocua cleptomane, ma anche un’assassina?


     Il secondo racconto è quello che dà il titolo al libro- le fragranze di morte si riferiscono all’azienda che produce profumi e che ha avuto uno sviluppo incredibile dopo la fine della guerra E allo stordente profumo di rosa che aleggia nella casa dove saranno scoperti due cadaveri.

La vecchia signora che gestisce l’impresa ha avuto una vita sfortunata. Rimasta vedova, ha visto morire uno dopo l’altro i tre figli e si è occupata lei di far crescere i tre nipoti, due maschi e una ragazza, e un altro nipote di cui lei è la zia. È stata la vecchia signora a chiedere l’intervento del detective Kindaichi che arriva sul posto con qualche difficoltà a causa di una frana lungo la strada. Subito non è chiaro perché Kindaichi sia stato chiamato, perché la matriarca lo rimanda indietro senza dirgli nulla, salvo poi richiamarlo perché sono stati trovati morti un giovane e una donna- lei strangolata e lui impiccato. Il giovane era il nipote più anziano, erede dell’Impero delle Essenze. Un doppio suicidio d’amore?


    L’abilità di Kindaichi nel risolvere i casi si allinea con quella dei ‘vecchi’ gialli dell’epoca in cui la tecnologia non era ancora di aiuto e tutto si basava sull’acume dell’investigatore. Ogni caso da risolvere, sia che l’investigatore si chiamasse Sherlock Holmes o Poirot o Miss Marple, era come un enigma che solleticava ‘le piccole cellule grigie’, come diceva Poirot. E la soluzione finale era come un colpo della bacchetta magica. Le passioni dietro ai delitti erano quelle ricorrenti ed eterne- gelosie, avidità, tradimenti, vendette, ambizioni.

    Letti o riletti adesso, questi romanzi di indagine poliziesca risentono della loro età, li leggiamo per la loro piana piacevolezza e perché hanno fatto storia nella letteratura di genere. Ci manca un poco il brivido e la vastità di campo a cui ci hanno abituati i romanzi più recenti.  




giovedì 17 marzo 2022

Javier Castillo, “La ragazza di neve” ed. 2022

                                     Voci da mondi diversi. Penisola iberica

cento sfumature di giallo

Javier Castillo, “La ragazza di neve”

Ed. Longanesi, trad. C. Falsetti, pagg. 352, Euro 18,90

 

     Accadeva spesso, con i vecchi apparecchi televisivi, che lo schermo si rabbuiasse e si coprisse di una nevicata bianca, alla fine di una trasmissione. È questa la schermata in chiusura dei brevi spezzoni di filmati su vecchie cassette VHS che arrivano a distanza di anni e lasciano chi li guarda con il cuore in gola e la mente piena di domande, nel tesissimo romanzo di Javier Castillo dal titolo, per l’appunto, “La ragazza di neve”.

    La vigilia della Festa del Ringraziamento, 26 novembre 1998. Kiera- compirà tre anni il giorno seguente- assiste alla parata nel centro di New York insieme ai genitori. Capelli neri, un piumino bianco a difenderla dal freddo, dentini con una fessura sul davanti, Kiera è a cavalcioni sulle spalle del padre, vuole uno dei palloncini che una ragazza vestita da Mary Poppins sta vendendo, il padre la fa scendere con i piedi per terra, un attimo di confusione nella folla e…Kiera scompare.


    Una bambina che scompare è la figlia di tutti che scompare, è un lungo calvario che tiene con il fiato in sospeso, è un titolo che aumenta la tiratura dei giornali. Sarà Miren Triggs, giovane studentessa di giornalismo, ad assicurarsi gli scoop migliori. E la storia di Kiera si svolgerà in un arco di tempo lungo dodici anni, in capitoli che ci fanno fare salti temporali avanti e indietro, spostando la scena tra la storia privata di Miren, quella dei due genitori di Kiera, quella della bambina e quella delle ricerche (per lo più frustranti, che non approdano a nulla).

    Il personaggio di Miren, ambiziosa, determinata, intuitiva, capace, è, in un certo senso, lo specchio della Kiera adulta. Quello che le è successo, lasciandole una cicatrice indelebile, una paura che la accompagnerà tutta la vita insieme ad una diffidenza verso l’altro sesso, una volontà più o meno conscia di ‘vendicarsi’, è una versione diversa e adulta di quello che succede a Kiera, di quello che è sempre in agguato per tutte le donne che- realtà che dobbiamo accettare- hanno una forza fisica inferiore a quella maschile.


  1998, 27 novembre 2003, 1997, 27 novembre 2010, settembre 2000, dal 1998 al 1999, dal 2003 al 2004, dal 1999 al 2001, dal 2005 al 2010, e poi i giorni che seguono (o precedono) queste date- e attenzione, non si procede in linea retta, si torna indietro, si riprende il filo degli avvenimenti, si considerano da un altro punto di vista, si leggono articoli di giornali, si esplora il dramma umano dei genitori della bimba scomparsa, il senso di colpa, le domande ‘e se…?’, il rivivere ancora e ancora quel maledetto 26 di novembre, il festeggiare- con una speranza alimentata dalla disperazione- ogni compleanno, immaginando una bimba che cresce lontano, il tracollo di un matrimonio. La vicenda di Miren, inoltre, non è secondaria ed offre un duplice spunto- da una parte seguiamo il cambiamento della sua vita, marchiata da un’ombra costante, e dall’altra l’importanza che il giornalismo di inchiesta riveste per lei e per il pubblico di lettori, in opposizione ad un giornalismo sensazionalista.

     Ci sarebbe altro da dire ma che non posso dire. Immaginate che la neve dello schermo che si oscura scenda anche sulla mia pagina e pregustate il piacere di leggere un page-turner ambientato in una New York che ci appare quanto mai pericolosa, una città in cui non si può mai abbassare la guardia.    

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martedì 15 marzo 2022

Maria Luisa Agnese, “Anni sessanta. Quando eravamo giovani" ed. 2022

                                                                        Casa Nostra. Qui Italia

Maria Luisa Agnese, “Anni sessanta. Quando eravamo giovani”

Ed. Neri Pozza, pagg. 161, Euro 17,00

     Anni sessanta. Sembra preistoria. Forse lo è. Anche perché, in effetti, sono passati sessanta anni dagli inizi degli anni sessanta e non c’è niente come i numeri che provochino una vertigine affacciandosi al pozzo del tempo.

    Il libro della giornalista Maria Luisa Agnese, con un tocco di bacchetta magica, ci riporta indietro nel tempo- noi che ci eravamo già stati in quel tempo, noi che li abbiamo vissuti, i mitici anni sessanta, senza sapere peraltro che sarebbero diventati mitici, che ci avrebbero invidiato il nostro averli vissuti. E, dettaglio dopo dettaglio, un frammento dopo l’altro, un nome che ci risuona noto dopo l’altro, una notizia che aveva fatto scalpore dopo l’altra, tutto ci ritorna in mente e da immagine in bianco e nero si trasforma in foto colorate.

   La famiglia, La vacanza, La musica, Il costume, La cultura, La politica- sono questi i titoli sotto cui Maria Luisa Agnese raggruppa i ricordi del viaggio indietro nel tempo.

Si inizia con la vita quotidiana ed oggigiorno ci sembra impossibile che fosse proprio così, che guai a sgarrare l’ora dei pranzi e presentarsi in ritardo a tavola, guai a non studiare- si studiava, e tanto, si leggeva (che cosa altro si poteva fare per passare il tempo?) perché leggere spalancava la finestra su altri mondi allora impossibili da raggiungere, si giocava in strada con gli amici a quei giochi che adesso hanno una voce nell’enciclopedia dei giochi ‘di una volta’, quelli che hanno bisogno solo di un gessetto e di un sasso o di un fazzoletto o di una palla o di una corda per saltare.


      Adesso che la vacanza è diventata un diritto inalienabile, anzi, adesso che ogni ‘ponte’ è buono per partire per una vacanza, adesso che, se la meta non è esotica, non è una vera vacanza, si fa fatica ad immaginare il tempo delle prime timide vacanze, quelle immortalate dai film dell’epoca, come “Il sorpasso”, con le automobili (ah, la 600 Fiat che era alla portata dei molti) traboccanti di cose e persone, senza aria condizionata, in coda sull’autostrada del Sole inaugurata nel 1964 da Aldo Moro. Dopo, ma erano già gli anni verso la fine degli anni ’60, iniziarono i viaggi ‘on the road’, fatti con l’autostop, viaggi di scoperta e di nuove amicizie, con pochissimi soldi in tasca. Viaggi in treni scomodi e lenti con cui ogni avvicinamento era una conquista (e- lo aggiungo io, Maria Luisa Agnese non lo dice- si vedevano da lontano le bianche scogliere di Dover quando si arrivava con il traghetto in Inghilterra, un’emozione che non c’è più).

Beatles 1965

    Si è sommersi da un’ondata di cambiamenti epocali, leggendo queste pagine, cambiamenti che contribuirono a farci girare pagina, a gettarci in un mondo nuovo. La musica, con i Beatles, e da noi Mina e Celentano, Gino Paoli e Fabrizio De André. Mina che, con la trasgressione nella sua vita privata- avere un figlio, e da un uomo sposato, era inaudito-, rivelò quello che, tutto sommato, era possibile con la forza dell’amore. La moda, con il vertiginoso accorciarsi delle gonne- ricordate Mary Quant?-, fu una ventata di anticonformismo che sganciava le donne dai vestitini bon ton, dal filo di perle e i golfini di cachemire.

è arrivata la minigonna

E i jeans, jeans per tutti. La cultura- erano arrivate nuove traduzioni, D.H. Lawrence e Joyce, era tutto un fermento di discussioni su saggi e romanzi, e poi il teatro e il cinema e gli incontri tra intellettuali (Moravia, Pasolini, Dacia Maraini). C’erano attori e attrici che sdoganavano mode e comportamenti, si dividevano odi e simpatie- Brigitte Bardot e Catherine Deneuve, Marylin Monroe e Ava Gardner. La politica, infine, l’entusiasmo per John F. Kennedyt e il trauma del suo assassinio. Ma quel risveglio di una coscienza politica, quelle assemblee senza fine all’università, quelle occupazioni delle scuole, tutta quella passione preparava la strada al risvolto violento degli anni ‘70

Fu proprio con la violenza che terminarono gli anni ‘60, con la bomba di Piazza Fontana. Dopo, niente fu come prima. Era come se fosse finita l’età dell’innocenza.

    Ho tralasciato molto di cui godrete leggendo il libro, forse ho detto troppo, ma è stata un’emozione rivivere quel tempo su queste pagine.

    Per chi c’era sarà una gioia leggere questo amarcord. Per chi non c’era sarà un’occasione di confronto.

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sabato 12 marzo 2022

Togawa Masako, “Residenza per signore sole” ed. 2022

                                                         Voci da mondi diversi. Giappone

cento sfumature di giallo

Togawa Masako, “Residenza per signore sole”

Ed. Marsilio, trad. Antonietta Pastore, pagg. 176, Euro 17,00

   Un edificio di mattoni rossi, cinque piani: è una residenza solo per donne, agli uomini non è permesso l’ingresso. È questo lo scenario del romanzo di Togawa Masako (1931-2016) che è stata una delle più importanti scrittrici giapponesi di noir, oltre ad essere cantante e attrice e ad essersi messa in vista come gay e femminista. La residenza K. finirà per aprirsi per noi come una casa di bambole, svelandoci i segreti delle donne che ci abitano, un po’ come succede nel romanzo di Pérec, “La vita, istruzioni per l’uso”.

    Il prologo e il primo capitolo ci introducono a due morti che saranno, poi, il punto chiave del libro e il cui mistero sarà risolto soltanto alla fine- vi dirò l’inizio e non una parola sulla fine.

Il primo aprile 1951 muore una donna, investita da un furgoncino mentre attraversa una strada. Cappotto e pantaloni neri, sciarpa rossa in testa, rossetto sulle labbra. E però è un uomo, non una donna. Nessuno si presenta per il riconoscimento. Una donna, nella Residenza K, continua ad aspettarlo. Lo aspetterà per sette anni, apparecchiando il tavolo anche per lui.

Capitolo primo e scena seconda. Tre giorni prima dell’incidente, l’uomo vestito da donna sale le scale della Residenza K con una valigia in mano. Dentro c’è un bambino piccolo. Morto. L’uomo e la donna che vive nella Residenza lo seppelliranno nel cortile interno, coprendolo con del cemento. Seguiranno altri indizi che, però, non chiariscono nulla per noi lettori. Anzi.


    Questo non è, tuttavia, l’unico ‘segreto’ delle ospiti della Residenza, anche se certamente è il più criminoso. D’altra parte, che cosa potremmo aspettarci da donne sole, molte delle quali in pensione e con molto tempo per rimuginare e per rivangare il passato?

Una dopo l’altra avanzano sul palcoscenico del romanzo, ad iniziare dalle due portinaie che si danno i turni di sorveglianza. C’è una ex professoressa di liceo che, per non sapere cosa fare, inizia a scrivere lettere alle sue ex alunne (una di queste lettere porterà ad una svolta della trama), una ex professoressa di università che dice di stare revisionando degli scritti importantissimi del marito morto, una ‘barbona’ che accumula immondizie nella sua stanza e dorme dentro l’armadio, una violinista che ha visto infrangersi il suo sogno di gloria per un dito misteriosamente paralizzato, una seguace di una setta che pratica lo spiritismo, e una vecchia un po’ pazza con una criniera di capelli bianchi. Niente male come ospiti stravaganti, vero?


    Ognuna di loro ha qualcosa da nascondere, qualcosa che suscita la curiosità indagatrice di un’altra di loro. Ed ecco che il passepartout che apre tutte le porte scompare, una donna si intrufola a ficcanasare in una camera non sua, scopre o non scopre quello che sospettava.

    In realtà, al di là dei dettagli di queste scoperte, quello che viene fuori è la tremenda solitudine di queste donne che paiono vivere in un carcere in cui si sono rinchiuse loro stesse e da cui sono incapaci di uscire. Una di loro- quella che continua ad aspettare l’uomo che non può più arrivare- ci aveva provato, con un esito drammatico. Tutte loro sembrano espiare una qualche colpa. E quello che ci colpisce non è tanto l’assenza di un uomo nelle loro vite, ma anche quella di amici o amiche.

    Il deus-ex-machina che porta una piccola rivoluzione nell’edificio e che- letteralmente- scoperchia il vaso di Pandora, aggiungendo dramma su dramma, è il congegno meccanico che farà scivolare indietro il palazzo per far posto ad una strada. In teoria il lavoro sarebbe stato fatto senza causare il minimo inconveniente- alle ospiti era stato detto di riempire un bicchiere e di osservare come neppure una goccia di acqua avrebbe traboccato. Vero. Era però uscito fuori ben altro.


   La prima pubblicazione del libro è del 1962 e, a dire il vero, dimostra gli anni che ha, almeno per quello che riguarda la trama, o meglio tutte le piccole trame noir. Gli anni trascorsi ci hanno fatto incallire, ci siamo abituati a ben altre proporzioni di Male. Restano validi invece l’analisi psicologica dei personaggi e il quadro di solitudine e di infelicità che riscontriamo così spesso nei romanzi giapponesi. Un libro che piacerà certamente a tutti quelli che cercano di capire il Giappone.