giovedì 28 febbraio 2019

INTERVISTA A ELISABETH ÅSBRINK, autrice di “1947”


                                                   vento del Nord
                                                   intervista
                                        
    Ho letto due volte “1947”- la prima volta lo scorso anno, quando è stato pubblicato e la seconda volta adesso: non potevo assolutamente mancare all’incontro con Elisabeth Åsbrink, a Milano per il festival dei Boreali. Quando si prova lo stesso piacere, lo stesso coinvolgimento nel rileggere un libro a breve distanza di tempo- be’, vuol dire che è un gran bel libro. Che merita di essere riletto anche una terza volta.
    Prima di rivolgerle delle domande ascoltiamo la scrittrice che ci dice brevemente di sé e di come è nata l’idea di scrivere “1947”.







credits Eva Tedesjo

     Ho iniziato come giornalista, lavorando per la radio e per la televisione. Facevo giornalismo investigativo. A questo punto devo parlare di una storia personale: 11 anni fa sono stata molto ammalata, ho passato sei settimane in ospedale e sono stata in punto di morte. Non sono morta, però allora ho deciso che non avrei sprecato tempo per cose che non erano importanti e non mi interessavano. Avevo 42 anni e volevo scrivere. Ho abbandonato il giornalismo e sono diventata scrittrice a tempo pieno- ho scritto per lo più libri di non-fiction. Leggevo non-fiction e poesia, quasi mai romanzi e la domanda che mi facevo era: posso combinare la non-fiction con la poesia? Il mio prossimo libro sarà un modo di rispondere a quella domanda. In “1947” volevo scrivere del leader fascista Per Engdahl e facevo ricerche sulla sua vita. Anche Stieg Larsson si occupò di lui prima di scrivere “Millennium”. Per Engdahl andò in Danimarca a fondare un partito nazista, ma non trovavo nessuna documentazione su di quello. Presi allora tutti i numeri di due giornali del 1947 e li ho letti tutti, giorno dopo giorno: mi sono resa conto che quello era stato un anno molto importante e decisivo.

“1947” è chiaramente un libro che ha richiesto approfondite ricerche da parte sua. Come organizza il suo lavoro, di ricerca e di scrittura?
      Faccio ricerche e scrivo parallelamente. Se non si fa così, ci si perde nella ricerca. Magari faccio ricerche per metà giornata e dedico alla scrittura l’altra metà. Forse all’inizio faccio più lavoro di ricerca, dopo procedo parallelamente. Uno dei maggiori problemi degli scrittori è che si hanno le frasi in testa. E’ importante scrivere e tirare fuori le frasi dalla testa. Prima di tutto bisogna scrivere, dopo si penserà a cancellare. Era quasi un’ossessione: ho scritto sempre, per 14 mesi, ogni giorno, che fosse festa o no. Per fortuna anche mio marito è così, scrive ogni giorno.

Come sceglie il materiale su cui lavorare?
    Per una sorta di conoscenza intuitiva. Devo provare un forte sentimento, devo scegliere quello che è importante- è strano, ma in genere scelgo quello che mi ferisce. Deve collegarsi con qualcosa dentro di me. E mi piace sedermi negli archivi. La differenza tra le ricerche in internet e quelle negli archivi è che in internet si deve avere un punto di partenza, negli archivi è più facile.

Come vive la Svezia la sua posizione di ambiguità riguardo al nazismo? Dopo tutto non pensiamo mai che ci sia un collegamento tra Svezia e nazismo.
Per Engdhal
     Dopo la guerra Per Engdahl non agisce nel contesto svedese, è internazionale, dirige una rete internazionale del movimento nazionalista. E anche prima la gente colta e benestante, in Svezia, pensava che Hitler fosse il migliore per fermare i sovietici. La Svezia non fu occupata perciò l’influenza dei nazisti agì al di sotto della superficie. Nei paesi che sono stati occupati, dopo la guerra ci si è occupati del nazismo, in Danimarca e da noi il problema del nazismo è stato soppresso.

Nel 1947 abbiamo assistito a tre grandi flussi migratori: i Nazisti in fuga, gli ebrei che cercavano di raggiungere la Palestina e gli indiani che si spostavano in massa dopo la partizione. Non è paradossale che proprio i protagonisti più malvagi di questi tre flussi migratori siano anche stati i più fortunati?
      La risposta è molto cinica: la Germania era divisa in due ed è un dato di fatto che tutti gli insegnanti, gli avvocati, tutte le persone di un certo rilievo nella società erano membri del partito nazista. Per questo si dovevano lasciar liberi i nazisti. Quando iniziò la Guerra Fredda, in Francia, in America, in Gran Bretagna, si voleva che la gente si opponesse al comunismo ed è per questo che furono lasciati in libertà i nazisti. E per quello che riguarda la fuga in Sud America- Perón non aveva alcun problema con l’ideologia, i nazisti diventarono gli istruttori dei militari in Argentina. Nel novembre del 1947 fu chiusa la rotta settentrionale della fuga e si aprì quella del Sud, quella supportata dal Vaticano. Dietro la posizione del Vaticano, che ho preferito non approfondire, c’era, sì, paura del comunismo, ma anche un latente antisemitismo.


Ci sembra strano che la parola ‘genocidio’ non sia mai stata usata prima. Pensiamo agli Herero in Africa, per non dire dei Maya o degli indiani d’America: perché nessuno ha mai usato la parola ‘genocidio’?
    E’ una domanda che esige risposte separate. Dobbiamo parlare del colonialismo e se ci riferiamo, ad esempio, al genocidio degli armeni ad opera dei turchi in un’epoca in cui era considerato corretto trattare una minoranza in questa maniera. Dopo l’introduzione dei diritti umani, si introdusse anche il principio che ogni essere umano ha uguali diritti. La questione è connessa a parecchi cambiamenti nella morale. Prima della seconda guerra mondiale uno stato poteva fare quello che voleva con le proprie minoranze: non veniva considerato un crimine. Il genocidio è un crimine difficile ma fa una grossa differenza morale.


“Mai più”, eppure quanti altri genocidi, quante altre navi cariche di migranti sono affondate. Qual è la differenza tra le navi cariche di ebrei e quelle piene di gente di colore che affondano nel Mediterraneo?
     Ci sono enormi differenze e anche grandi somiglianze. La situazione oggi riguarda il potere economico, si tratta di problemi che hanno una soluzione economica. Dopo la guerra gli ebrei volevano per lo più andare in Gran Bretagna o negli Stati Uniti ma queste nazioni non li volevano.
E’ una grossa differenza. La situazione attuale riguarda di più la politica e l’economia. Allora si trattava di antisemitismo, di paura dei rifugiati e di un complesso di colpa. Metà dei rifugiati andarono in Palestina, l’altra metà rimase in Europa fino al 1953 quando ci fu un cambiamento nella costituzione americana.

Un’ultima domanda ‘leggera’. Si parla di Dior nel libro. Che cosa ci dice la moda, dell’epoca?
    La moda è come l’arte. Cattura il tempo prima che il tempo sia lì. Dior si fece interprete delle restrizioni delle donne e lo ha messo nei vestiti. La sua è una forma d’arte. C’era un desiderio di bellezza dopo la guerra che era stata così piena di brutture. E il new look è così raffinato, super bello.






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il post con la recensione di "1947" è in data 30 maggio 2018

recensione e intervista sono pubblicate anche su www.stradanove.it


martedì 26 febbraio 2019

INTERVISTA A ERIKA FATLAND, autrice di “Sovietistan” 2019


                                          vento del Nord  

copywright Tine Poppe

     Sono giornate intense, queste del Festival dei Boreali a Milano, organizzato dalla casa editrice Iperborea. Giornate ricche di incontri che offrono spunti per riflessioni e idee nuove, possibilità di parlare con gli autori dei loro libri perché- che cosa c’è di meglio di continuare a parlare di libri che ci sono piaciuti, che abbiamo amato, con chi li conosce più di ogni altro? Ero ansiosa di conoscere Erika Fatland, di conoscerla di persona (sembra un elfo, ho pensato, quando l’ho vista) dopo essere stata in sua compagnia ed aver sentito la sua voce per tutte le 524 pagine di quel libro affascinante che è “Sovietistan”.

Quando è iniziato il suo interesse per le repubbliche che una volta facevano parte dell’Unione Sovietica?
   E’ iniziato con il mio desiderio di studiare il russo perché volevo leggere in lingua originale i grandi scrittori russi. E poi mi piaceva studiare una lingua slava. Avevo frequentato il liceo in parte in Francia e in parte in Finlandia, e così sono andata in Russia, essenzialmente perché volevo imparare la lingua. Avevo anche studiato antropologia sociale a Copenhagen e avevo l’opportunità di fare ricerche sul campo, in attesa di diventare una scrittrice- che era quello che volevo essere. Ma avevo 19 anni e prima dovevo studiare.
Nel 2004 c’era stata la strage dei bambini a Beslan, in Ossezia, ad opera di terroristi ceceni. Io andai a Beslan tre anni dopo la tragedia in cui furono uccisi 200 bambini: volevo scoprire come si fa a vivere dopo un simile dramma. E ho scritto la mia prima opera, “Il villaggio degli angeli”, che è il nome del cimitero. Da lì è nato il mio interesse per gli altri paesi che prima facevano parte dell’Unione Sovietica- popoli diversi che vivevano insieme un esperimento sociale. Anche il Turkmenistan, l’Uzbekistan e gli altri ‘stan’ facevano parte dell’Unione Sovietica: come ne sono stati influenzati? Non sentiamo mai parlare di questi paesi. Ero curiosa. Non c’era nessun libro su questi stati.
Se dovesse dire una sola parola per parlare di quello che più l’ha colpita di ognuno dei cinque stati, quale sceglierebbe? Andiamo per ordine:

Turkmenistan: bizzarro.
Kazakhistan: vasto.
Tagikistan: montagne.
Kirghizistan: donne.
Uzbekistan: via della seta.

E adesso può spiegarci di più, del perché ha scelto queste parole?
     Bizzarro il Turkmenistan perché è il paese più strano. E’ rimasto isolato dopo il crollo dell’Unione Sovietica e il suo presidente è come impazzito: nessuno lo controllava più da Mosca. Ha trasformato il paese nella sua immagine, il suo ego diventò ossessivo. La capitale Ashgabat è la Las Vegas del deserto. In un certo senso è divertente e affascinante: ci sono strade molto ampie e però non ci sono automobili. Non si trova un bancomat che funzioni, bisogna partire con il denaro con sé. Il secondo presidente è eccentrico quanto il primo: seguono entrambi la corrente del culto della personalità. Bisogna uscire dalla capitale per incontrare la gente che è molto amichevole ed ospitale.

    Il Kazakhistan è grande, è il nono paese più vasto del mondo. E però è abitato da meno di 20 milioni di persone. In Kazakhistan ho viaggiato in treno: un’esperienza terribile.
    Nel Tagikistan il 90% del territorio è formato da montagne. E’ un paese molto bello ma molto povero, il più povero dei cinque.
    Nel Kirghizistan vige l’usanza del ratto delle spose (le dico che avevo preparato una domanda su questa tradizione che mi ha sconvolto). Dicono che è la loro tradizione, ma non è tradizione come viene fatto oggi. Una volta era diverso, la ragazza veniva rapita per superare ostacoli al matrimonio. Oggi le ragazze sono forzate ad accettare il matrimonio- è diverso. E pensare che 800 anni fa Gengis Khan aveva proibito il ratto delle spose- sua madre era stata una vittima di questa usanza. E’ difficile che si verifichi un cambiamento: la polizia, gli avvocati, gli imam, tutti sono cresciuti con questa tradizione, è la norma. Affiora qualche tentativo di cambiamento, ma è difficile, ci vorrà tantissimo tempo. Nel libro racconto della ragazza russa con cui ho parlato- aveva rifiutato il matrimonio, ma per lei non era una vergogna rifiutarsi di sposare l’uomo che l’aveva rapita.

    In Uzbekistan gli antichi edifici sono testimoni del passato, di quando l’Uzbekistan era attraversato dalla via della seta che andava dalla Cina all’Italia. I popoli degli altri stati erano gente nomade, qui invece la storia diventa viva, testimone del passato, nelle splendide madrasse di Bukhara e di Samarcanda.

Pensa che quella che si può definire come una specie di sindrome della dittatura che accomuna i cinque ‘stan’ sia una diretta conseguenza del loro passato?
     E’ difficile dire perché questi stati non si siano trasformati in democrazie come è successo in Georgia o nei paesi Baltici. Non avevano un passato democratico, non erano mai stati paesi democratici. Accadde che la struttura politica dell’Unione Sovietica rimase uguale. Nel Kazakhistan c’è ancora, come presidente, Nazarbayev che fu installato come leader del partito comunista da Gorbachev.
Lei sottolinea, nel suo libro, la nostalgia comune in questi stati per un passato che a loro sembra fosse migliore del presente. Ma non hanno ragione, dopo tutto? Che cosa hanno guadagnato con l’indipendenza?

      Quando ho chiesto una spiegazione per questa nostalgia, mi hanno risposto che allora la gente era più uguale. Adesso ci sono persone incredibilmente ricche ma la  maggior parte lotta per sopravvivere. Una volta la differenza non era così visibile. In Tagikistan, ad esempio, si stava veramente meglio, avevano uno stato sociale. Dopo c’è stata una guerra civile negli anni ‘90 e oggi non hanno neppure l’elettricità per 24 ore di seguito. Stavano meglio in passato.
Bisogna anche dire che ormai l’Unione Sovietica era molto tempo fa e i giovani non ne hanno memoria. La maggior parte delle persone che ne parla ha nostalgia della propria giovinezza.

Mi ha colpito la loro mancanza di indignazione per tutte le tragedie del loro passato- la carestia, le deportazioni di massa, gli esperimenti nucleari con il conseguente aumento dei casi di cancro, la scomparsa del lago Aral. E’ per ignoranza? Fatalismo? La non-abitudine a pensare in maniera critica?
     Domanda complessa. Durante il regime autoritario dell’Unione Sovietica l’autorità non voleva che la gente pensasse, che pensasse autonomamente. C’è anche mancanza di informazione. Non sanno l’inglese, non ricevono notizie del mondo e quelle che ricevono dall’interno o dalla Russia non sono obiettive.
Mi ha reso felice che persone dell’Uzbekistan che avevano letto il mio libro tradotto in russo mi abbiano ringraziato per essere finalmente venuti a conoscenza di tante cose. I più giovani sono nati in questi nuovi stati e trovano tutto naturale, i più vecchi sono più critici perché ricordano il passato.

Dove ci porterà con il suo prossimo libro?
      Il prossimo libro, che sarà pubblicato in Italia fra qualche mese, si intitola “La frontiera” ed è un viaggio in giro per la Russia attraverso la Corea del Nord, la Cina, la Mongolia, il Kazakhistan, l’Azerbaijan, la Georgia, l’Ucraina, la Bielorussia, la Polonia, la Lituania, la Lettonia e l’Estonia. E infine la Finlandia e la Norvegia.

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intervista e recensione saranno pubblicate su www.stradanove.it




lunedì 25 febbraio 2019

Erika Fatland, “Sovietistan” ed. 2018


                                                                       vento del Nord
            reportage
          la Storia nel romanzo


Erika Fatland, “Sovietistan”
Ed. Marsilio, trad. Eva Kampmann, pagg. 527, Euro 19,50

    Turkmenistan, capitale Ashgabat. La città di marmo bianco. I dittatori più megalomani.
   Kazakistan, capitale Astana, dove le temperature raggiungono i 40° sotto zero e gli edifici futuristici di Norman Foster svettano nel cielo. Il più ricco dei paesi dell’ex unione sovietica
     Tagikistan, capitale Dushanbe. Il più povero di questi paesi dell’Asia Centrale, nonostante il numero di Mercedes che si vedono per le strade: sono state rubate in Germania.
     Kirghizistan, capitale Bishkek. La nazione più libera e democratica fra queste cinque, l’unica in cui un presidente si è dimesso di sua volontà.
    Uzbekistan, capitale Tashkent, la città più grande. Bellissimo Uzbekistan con la mitica Samarcanda sulla via della seta. Che però ha avuto una delle peggiori dittature con il presidente Karimov (ora passato a migliore- o peggiore vita- e sostituito da Mirziyoyev).

     La scrittrice giornalista norvegese Erika Fatland ci conduce con sé nel suo viaggio alla scoperta dei cinque ‘stan’. Preparatevi. E’ un viaggio affascinante con la migliore guida e accompagnatrice possibile che riesce a raccontarci la storia di ogni paese, quella più lontana in cui ha le sue radici la cultura di ognuna delle repubbliche e quella più recente, durante e dopo il regime sovietico, e, nello stesso tempo, descrive quello che vede, fa parlare le persone che incontra, ci fa prendere parte alle sue esperienze- l’allucinante viaggio in treno (36 ore) in Kazakistan che le fa passare la voglia di fare mai l’esperienza della Transiberiana, la sensazione di essere sempre sotto l’occhio del Big Brother orwelliano in Turkmenistan così come quella (molto inquietante) che ci siano orecchie in ascolto ovunque in Uzbekistan, lo sconforto nel rendersi conto che in Tagikistan il 20% della popolazione sopravvive con meno di un euro al giorno, l’usanza scioccante del ‘ratto delle spose’ in Kirghizistan, i cibi insoliti che deve per forza fingere di apprezzare per non offendere l’ospitalità.

     Scopriamo tante cose, seguendo Erika Fatland nel suo viaggio. Impariamo tante cose nella maniera migliore in questo libro che è una sorta di reportage giornalistico che si legge come un romanzo, con il desiderio di voltare pagina, di sapere altro, di soddisfare la nostra curiosità. E di prendere un aereo ed andare anche noi, là, a vedere.
 Presente e passato si intrecciano di continuo (potrebbe essere altrimenti?)- “era pazzo da legare”, ha il coraggio di dire ad Erika qualcuno in Turkmenistan parlando del dittatore Nyyazov che aveva cambiato il suo nome in Turkmenbashi (il capo dei Turkmeni), si era nominato presidente a vita e aveva aggiunto al nome l’appellativo di Beyik, il Grande; elettricità, gas e sale gratis per tutti in Turkmenistan (e questo fa dimenticare che non esiste la libertà di stampa), il mito di Gengis Khan; la tremenda carestia e la collettivizzazione degli anni ‘30 in Kazakistan, dove però le dicono che “l’essere russo non è una nazionalità, ma una mentalità, una condizione”, le 456 bombe atomiche fatte esplodere a Semipalatinsk durante la Guerra Fredda e l’aumento dei casi di morte per cancro; le origini del Grande Gioco nel secolo XIX- la contesa tra britannici e russi per il potere e il controllo dell’Asia centrale…e altro, altro ancora, insieme alle fugaci descrizioni di paesaggi dalla bellezza incredibile, come sull’altopiano del Pamir, vicino alle stelle.

    C’è un ritornello costante che la gente ripete in tutti e cinque i paesi: “sotto l’Unione Sovietica si stava meglio”, perché è vero che l’unione Sovietica aveva tirato fuori dal Medioevo l’intera Asia centrale, e poi c’era poco ma era poco per tutti, la scuola e la sanità funzionavano- è una idealizzazione del passato o è veramente così?
      Un libro molto bello e molto interessante, con il pregio di una scrittura brillante che non rischia mai di annoiare. Da leggere, per chi vuole sapere, per chi ama viaggiare senza fare il turista, per chi viaggia con la mente e ama andare lontano.

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la recensione e la successiva intervista saranno pubblicate su www.stradanove.it



domenica 24 febbraio 2019

Intervista a Gert Nygårdshaug , autore de “L’amuleto” 2019


                                               vento del Nord
                                        cento sfumature di giallo
                               


Vento del Nord a Milano in questi giorni del festival dei Boreali, quanto mai appropriato. Riconosco Gert Nygårdshaug dal cappello che porta in testa- lo avevo visto nelle fotografie su internet. Ha gli occhi gentili, è pacato nel parlare, forse è il doppio del suo personaggio.

I gusti del suo personaggio, le sue passioni, sembrerebbero quelli di un personaggio mediterraneo piuttosto che norvegese- buon vino, buon cibo. E’ molto insolito: condivide le sue passioni, forse?
    
Sì, i suoi gusti e le sue passioni sono i miei. Ho incominciato a scrivere crime stories perché mi piaceva assaggiare vini e i miei altri interessi erano le culture antiche, l’archeologia, le lingue scomparse. Ho trasferito i miei interessi nel mio personaggio così avrei avuto modo di fare delle ricerche che interessavano me. Prima di scrivere questi romanzi non sapevo molto né di cibo né di vini, e ho pensato che, scrivendo di un personaggio che gestiva un ristorante, forse sarei potuto entrare in contatto con persone che potevano insegnarmi qualcosa. Ed è stato proprio così. Per la prima volta in vita mia ho assaggiato dell’ottimo vino.

“L’amuleto” è il suo primo romanzo pubblicato in Italia. Ci sono però dei riferimenti a qualcosa che è successo alla ragazza di Fredric- ci sono altri romanzi della serie?
    Questo romanzo è il secondo della serie. Ce ne sono dodici in tutto, già pubblicati in Norvegia. E siccome mi interessano le antiche civiltà, ogni volta che mi accingo a scrivere un nuovo libro mi chiedo- dove voglio andare? Messico, Egitto, Nuova Guinea, anche in Calabria sono stato con Fredric Drum. Ogni nuova avventura di Fredric lo porta- e mi porta- in un paese diverso.

Come mai ha scelto di non avere un poliziotto o un vero detective come personaggio principale?
Fredric in Calabria
     Nel romanzo numero 5 appare in scena il poliziotto- è lo zio di Fredric, è un poliziotto molto speciale. Dunque, nei primi quattro Fredric è il personaggio principale, nel quarto, però, sparano a Fredric e Fredric muore. Mi hanno chiesto: perché uccidi il tuo eroe? Non è facile da spiegare e voglio lasciare la sorpresa ai lettori: i dodici romanzi sono come un cerchio che si chiude, si può iniziare dal numero dodici che risulta essere quello che precede il numero uno, ma si può anche iniziare dal quinto e ritornare al primo. Avevo tutto in mente fin dal primo libro che ho scritto con Fredric come protagonista e c’è molto di più nascosto sotto un primo livello di lettura. Sono romanzi in cui si svolge una sorta di gioco con il conscio e subconsio. Al lettore attento il compito di scoprirlo.

“L’amuleto”: c’è più di un amuleto in questa vicenda. Pensavo avrei letto di più sulla strana stella di cristallo che cambia colore, l’amuleto di Fredric.
    Si parlerà ancora dell’amuleto a forma di stella di Fredric, ma in un altro libro. Nel prossimo- non dico altro.

E riguardo alla bambola che sembra una mummia, l’amuleto dei cacciatori- come ne è venuto a conoscenza?
     Avevo letto dell’amuleto dei cacciatori della Groenlandia in un numero del National Geographic- come ho detto prima, mi interessano le antiche civiltà, specialmente quelle che si svilupparono in luoghi remoti, come la Groenlandia o l’Amazzonia. Leggo libri su queste civiltà antiche e porto Fredric in Messico a scoprire i Maya, in Egitto e poi in Calabria per studiare documenti della Magna Grecia.

Un’altra parte interessante della trama riguarda le mummie di palude. Sapevo dell’uomo di Tollund, sono state ritrovate mummie di palude anche in Norvegia?
    No, non ci sono mummie di palude in Norvegia, non c’è il terreno adatto. Pensavo all’uomo di Tollund che fu trovato in Danimarca, quando ho scritto il libro.

Il titolo mi ha fatto pensare al titolo simile di un libro di Helen Humphreys dove l’amuleto azzurro è una delle mosche da salmone create da Megan Boyd. La coincidenza mi ha colpito, anzi, ho pensato ad un filo che collegava l’amuleto dei cacciatori, la stella di cristallo e le mosche da salmone- un trionfo di amuleti, insomma.
     Coincidenza interessante. No, non sapevo di Megan Boyd e le esche che usa Fredric sono fatte in Norvegia.

Una parte del fascino del suo romanzo è nella splendida valle dove Fredric si reca a pescare e dove la sua vita viene messa in pericolo. Sono tante le valli simili a quella che Lei descrive?

    Ci sono tantissime vallate come quella descritta nel libro, in Norvegia. Quella de “L’amuleto” è veramente speciale per la pesca.

Quale sarà il prossimo romanzo di Fredric che leggeremo?
     Sarà il quinto della serie, “Il dito di Cassandra”, dove il dito di Cassandra è una specie di obelisco e il romanzo si svolge ancora in Norvegia. Dovrebbe essere pubblicato a maggio.

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L'intervista sarà pubblicata su www.stradanove.it





giovedì 21 febbraio 2019

Gert Nygårdshaug, “L’amuleto” ed. 2018


                                                                        vento del Nord
        cento sfumature di giallo


Gert Nygårdshaug, “L’amuleto”
Ed. SEM, trad. Andrea Romanzi, pagg.191, Euro 17,00

      Personaggio singolare, questo Fredric Drum che è il protagonista dell’altrettanto singolare thriller “L’amuleto” dello scrittore norvegese Gert Nygårdshaug. Personaggio singolare per le sue passioni- è un esperto enologo nonché amante di vini raffinati, gestisce un ristorante che ha la fama di essere il migliore di Oslo, e, parlando di cose più ‘serie’, è uno studioso di antiche scritture, siano geroglifici o rune. Per quello che riguarda la sua vita privata, Fredric, sulla trentina, è single ma ha avuto una storia con una ragazza francese che è rimasta vittima, insieme a lui, di una tragica avventura, non ama mettere radici e quindi non ha una casa ma vive in una pensione (mai più a lungo di sei mesi nella stessa, in genere). E “L’amuleto” è un thriller singolare proprio per quello che non è: la polizia è assente, quindi non è un romanzo di indagine poliziesca e non è neppure una detective story in assenza di un detective. Sarà Fredric Drum a dipanare le fila di quanto è successo e sta succedendo.

     Fredric è stato invitato ad una degustazione su un’isoletta al largo di Oslo ma la giornata è rovinata da un incidente: il traghetto su cui si trova viene investito da un piccolo cabinato, Fredric è sbalzato in acqua ma riesce a nuotare fino al pontile. All’uomo con cui stava parlando nel momento dell’impatto va molto peggio: muore con la gola trafitta dalla scheggia di una lastra di vetro. E però: che cosa faceva con una siringa in mano? E da dove spunta fuori la strana bambola che galleggia accanto a Fredric e che lui si infila sotto la camicia? La strana bambola è la copia di una piccola mummia, deve essere una sorta di amuleto. Ad ogni modo scompare dallo scaffale del ristorante dove Fredric l’aveva messa in mostra. Se Fredric spera di mettersi tutto alle spalle partendo per un’incantevole vallata dove andrà a pesca con un amico inglese e poi si unirà ad un gruppo di studiosi per decifrare il mistero delle due mummie di palude che sono state rinvenute proprio lì, si sbaglia di grosso. Perché, uno dopo l’altro, succedono fatti strani. O Fredric è tremendamente sfortunato o c’è qualcuno che cerca- più di una volta- di ucciderlo. E lui si salva sempre per un soffio. Perché proprio lui deve essere tolto di mezzo?

    Leggere “L’amuleto” è un piacere, un bel cambiamento dalle cupe atmosfere dei gialli nordici a cui siamo abituati. Si beve molto (nessuna bevanda dozzinale di quelle che in genere trangugiano i detective beoni, qui ci facciamo una piccola cultura sui vini pregiati), si ammirano paesaggi stupendi, impariamo qualcosa sulle mosche colorate che servono come esca per pescare (e ci viene in mente il libro con un titolo simile a questo, “L’amuleto celeste” di Helen Humphreys) e molto sulle culture primitive nordiche e sulle cosiddette mummie di palude (i cadaveri ben conservati nella torba del terreno) a cui il poeta Seamus Heaney aveva dedicato i bei versi della poesia che inizia con Some day I will go to Aarhus/ To see his peat-brown head,/ The mild pods of his eye-lids,/His pointed skin cap.

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Gert Nygårdshaug presenterà il libro al festival dei Boreali, a Milano (21-24 febbraio)




martedì 19 febbraio 2019

Murakami Haruki, “L’assassinio del commendatore”, libro secondo ed. 2019


                                                        Voci da mondi diversi. Giappone

Murakami Haruki, “L’assassinio del commendatore”, libro secondo
Ed. Einaudi, trad. A. Pastore, pagg. 434, Euro 17,00


      Una bella sorpresa, quella di non aver dovuto attendere molto per leggere il secondo volume de “L’assassinio del commendatore” di Murakami Haruki, un romanzo perfino più enigmatico del primo che ci lascia con ancora più incertezze che non riusciremo a risolvere.
   Dunque: nella casa isolata dove una volta viveva il famoso pittore Amada Tomohiko, il protagonista e narratore sta dipingendo il ritratto della tredicenne Marie che il misterioso e affascinante Menshiki pensa possa essere sua figlia. Contemporaneamente dipinge pure un altro quadro che raffigura la cripta nel bosco, quella da cui proveniva il suono di una campanella e da cui è uscito il commendatore, che non è un fantasma ma un’idea, identico al personaggio dipinto da Amada Tomohiko sulla tela ritrovata nell’attico. Che messaggio voleva comunicare Amada con quel quadro? I drammi della guerra che avevano sconvolto la sua vita e quella della sua famiglia- lui torturato dalla Gestapo a Vienna e suo fratello morto suicida dopo aver preso parte allo stupro di Nanchino? Ormai è impossibile parlare con Amada Tomohiko, confinato in un letto in un ricovero di lusso e incapace perfino di riconoscere suo figlio. Come è possibile, però, che lui, il narratore che vive nella sua casa, lo abbia visto una notte, nell’attico, seduto con gli occhi fissi sul quadro “L’assassinio del commendatore”? per saperlo, il nostro protagonista accompagna il figlio di Amada a trovare il padre.

     Il lettore deve abbandonare il mondo delle certezze, da questo punto in poi. Le cose più inverosimili (inverosimili per noi, comuni mortali con i piedi sulla terra e occhi incapaci di vedere oltre il reale) accadono, ci addentriamo nel mondo delle metafore e delle idee (sapevamo che un’idea si potesse uccidere, non avremmo mai immaginato, però, che potesse sanguinare- o forse sì, in senso metaforico?), il protagonista si inoltra in una selva oscura (e noi pensiamo a Dante, tanto più che ad un certo punto appare la Donna Anna del quadro di Amada Tomohiko a guidarlo come fosse una novella Beatrice, e pensiamo anche a Tolkien e alle prove che deve affrontare Frodo e ad Alice nella tana del coniglio), deve essere traghettato al di là di un corso d’acqua che separa il nulla dalla realtà da un nocchiero (non è Caronte, ma è senza volto) che accetta, invece della moneta, di essere ricompensato dal pinguino di plastica che Marie teneva attaccato al cellulare. E dove è finita Marie, in questo spazio di tempo fuori del tempo per il narratore?

      E’ inutile cercare una spiegazione razionale nel romanzo di Murakami. Di certo, tra metafore, flashback sulla Storia del Giappone e sulle vicende personali del protagonista, abbiamo affrontato il senso e il peso della colpa, difficile a gestire, abbiamo imparato una lezione sul compromesso, come recuperare il legame di coppia e come evitare di far soffrire chi di colpe proprio non ne ha.
    Un certo qual senso della realtà si recupera nel finale, dove tutto si rischiara in un ‘happy ending’. Restano anche qui dei dubbi, però, almeno a noi- il protagonista li supera a modo suo, ma forse è ormai abituato ai fenomeni strani, surreali. Ecco, il romanzo di Murakami Haruki è come un quadro di De Chirico in cui c’è molto di più di quello che si vede.

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