domenica 28 luglio 2019

Jan Brokken, “Jungle Rudy” ed. 2018


                                                     vento del Nord
                                                  biografia romanzata


Jan Brokken, “Jungle Rudy”
Ed. Iperborea, trad. C. Cozzi, pagg. 319, Euro 15,30

    Quando scesi dall’aereo a Canaima non era là ad aspettarmi.
La voce narrante, dell’uomo che scende dall’aereo, è quella di Jan Brokken, lo scrittore olandese che ci ha fatto passeggiare per le strade di San Pietroburgo facendoci sentire le voci dei ‘grandi’ che hanno vissuto lì, che ci ha portato in Siberia dove Dostojevskji scontò la pena per le idee progressiste che aveva condiviso con altri giovani, che ha fatto rivivere un mondo scomparso in “Anime baltiche”. Canaima- già sentiamo crescere in noi l’aspettativa, perché anche noi lettori siamo scesi dall’aereo insieme a Jan Brokken- è un’aerea naturale protetta in Venezuela, un ambiente biologico e geologico unico, con paesaggi spettacolari. ‘Lui’, l’uomo che Brokken si aspettava di vedere e che era assente, è un personaggio mitico, Rudolf Truffino, il cui soprannome dice tutto- Jungle Rudy, Rudy della Giungla, con un che di maestoso che lascia intendere che Rudy non fu soltanto, da un certo punto in poi, il direttore del Parco Nazionale di Canaima, Rudy fu il Re della Giungla, il padrone indiscusso.

     Rudy Truffino (figlio di un banchiere di origine italiana, nato e cresciuto in Olanda) non c’è all’aeroporto e la prima parte del romanzo-biografia di Jan Brokken è dominata dalla sua assenza. Rudy è il grande assente sempre presente, lo impariamo a conoscere (insieme allo scrittore) attraverso le parole dell’indio che fa da guida, addentrandoci nella giungla verso il Salto Angel, la straordinaria cascata più alta del mondo (quasi un chilometro) che deve il suo nome all’aviatore americano che la avvistò per primo. L’Olanda era troppo piccola per un uomo come Rudy. Anche l’Europa era troppo piccola, troppo affollata, troppo ‘civilizzata’. Ci voleva altro per lui. E lo trovò nella Gran Sabana dove arrivò negli anni ‘50. Gli doveva essere piaciuta la sfida di addentrarsi nell’ignoto, di instaurare un contatto con gli indios pémon imparandone la lingua, di affrontare i rischi dei morsi di serpenti e quelli di formiche che parrebbero innocue, di costruire per sé una nuova vita, come un Robinson Crusoe della giungla.
Doveva aver amato la voce della foresta che non disturbava il suo silenzio interiore. Anche se poi, più tardi, aveva sentito il bisogno di musica, delle canzoni di Simon Diaz ma anche di Mozart. Mozart glielo aveva fatto conoscere la moglie Gerti, che era di Salisburgo: incredibile, ma si era sposato, Rudy della Giungla, e aveva avuto tre bambine. E intanto Rudy Truffino era diventato una sorta di guida ufficiale per i tepuy, le grandi montagne scoscese, e per il Salto Angel. Aveva fatto da guida a persone famose, a sovrani e attori (“Verdi dimore” con Audrey Hepburn fu girato a Canaima), ma non si lasciava intimorire da loro- scorbutico e scontroso, si comportava come gli pareva, senza riguardi, e forse rimpiangeva la solitudine incontaminata di un tempo.

     E’ un duplice viaggio, quello raccontato da Jan Brokken in questo romanzo. Quello di un grande esploratore e quello dello scrittore stesso che ne segue le tracce, che rivive in parte le sue esperienze. E anche se, nella parte finale, il racconto si fa un poco sfilacciato, a lettura terminata ci sentiamo più ricchi- il viaggio di scoperta è diventato anche il nostro, abbiamo ‘visto’ (il potere dei libri!) il Salto Angel, e l’anaconda e le farfalle Morpho, abbiamo ‘sentito’ la musica polifonica della giungla.
Soprattutto abbiamo conosciuto, nel bene e nel male, un uomo ardito e con una forte personalità che ha cercato e trovato i suoi spazi lontano dalle strade battute. Un Re della Giungla.

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domenica 21 luglio 2019

Marco Missiroli, “Fedeltà” ed. 2019



                                                      Casa Nostra. Qui Italia
        premio Strega Giovani

Marco Missiroli, “Fedeltà”
Ed. Einaudi, pagg. 224, Euro 16,15

     Una coppia che pare solida e affiatata. Lui, Carlo, insegna letteratura per sei ore all’Università (posto che ha avuto grazie alla spinta del padre) e scrive guide turistiche per una piccola casa editrice. Lei, Margherita, lavora in un’agenzia immobiliare. Poi quello che tra di loro viene chiamato ‘il malinteso’: una matricola ha sorpreso Carlo nei bagni femminili in atteggiamento compromettente con una sua studentessa, Sofia. Carlo si giustifica davanti al rettore e alla moglie, spiega che la ragazza si era sentita male, aveva avuto uno svenimento e lui l’aveva soccorsa. Sofia conferma. E’ stato tutto un malinteso. Davvero è stato un malinteso?
    Il romanzo di Marco Missiroli, “Fedeltà”, che ha vinto il premio Strega Giovani, si gioca tutto qui, su esplorare i limiti tra fedeltà e infedeltà, sul vagliare le varie accezioni di fedeltà oltre a quella più scontata tra marito e moglie. Che è la prima che prendiamo in esame, in questo libro che, se si limitasse ad essere la trita storia del professore che seduce la studentessa, sarebbe veramente l’ennesima ripetizione del tema di ‘quel romanzo…il sudafricano’, il Nobel’ di cui parla Margherita (intendendo Coetzee, citando anche “Lolita” di Nabokov con cui invece non ha nulla a che fare, mentre avrebbe potuto accennare a Roth). Non è successo veramente niente tra Carlo e Sofia e forse sarebbe stato meglio se invece fossero andati a letto insieme e lei non fosse rimasta per lui l’idea della tentazione. E forse non avrebbe inanellato una serie di altre dimenticabili infedeltà senza sapere che anche Margherita, solleticata e delusa per la presunta avventura del marito, si sarebbe concessa una deviazione.

      Le altre coppie, gli altri personaggi, servono da contrappunto, una ripetizione del tema della fedeltà, per somiglianza o differenza. Le coppie dei genitori- di Margherita, di Carlo, di Sofia, del fisioterapista Andrea con cui Margherita si è presa una breve soddisfazione- sono esemplari di un’altra epoca in cui c’erano ben altre preoccupazioni. Probabile che i mariti avessero qualche scappatella (il padre di Margherita aveva conservato ventun cartoline a lui inviate da una sconosciuta ‘Clara’), ma le mogli o non sapevano o fingevano di non sapere. “Sui matrimoni ci adattavamo”, dice Anna, la madre di Margherita. E poi, vogliamo chiamare ‘fedeltà’ anche il legame tra figli e genitori? L’affetto con cui Margherita, Andrea e anche Sofia si occupano dei genitori restituendo loro quello che hanno ricevuto, è ammirevole. In un certo senso è per fedeltà alle radici se Sofia torna a vivere a Rimini e riapre il negozio di ferramenta del padre, mettendosi dietro al banco con quello che era il grembiule blu della madre.

      Nessuno dei personaggi del romanzo è particolarmente simpatico, nessuno è memorabile- non l’inconcludente Carlo, non Margherita disposta a imbrogliare per aggiudicarsi l’appartamento pieno di luce messo in vendita da una cliente, non il fisioterapista gay che ha bisogno di sfogarsi con i combattimenti dei cani o scontri di boxe, non la pallida figura di Sofia che è infedele a se stessa e alle sue ambizioni letterarie per essere fedele alla tradizione. Soltanto Anna, che faceva la sarta, che una volta aveva riparato all’ultimo minuto un abito da sera per la moglie del Commendatore, che si rifà dell’infedeltà del marito pigiando le 21 cartoline dentro il vaso dei fiori sulla sua tomba, è un personaggio che amiamo e di cui attendiamo l’entrata in scena. Per la sua empatia- con la figlia, con il genero, con il nipotino, con tutti-, per la sua disponibilità, per il suo calore umano, la sua schiettezza. Non è sufficiente, però, a salvare il libro.

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foto di V. Vasi


martedì 16 luglio 2019

Karyn Brynard, “I nostri padri” ed. 2019


                                                     Voci da mondi diversi. Africa
                                                     cento sfumature di giallo


Karyn Brynard, “I nostri padri”
Ed. e/o, trad. Silvia Montis, pagg. 544, Euro 19,00


    Bianco e nero. Stellenbosch e Soweto. La città circondata da grandiose montagne, fitta di vigneti, roccaforte dei bianchi con le loro candide case in stile Cape Dutch, e la più antica baraccopoli di Johannesburg, abitato da neri di tutte le etnie che vivono in baracche di ferro ammassate le une sulle altre, senza acqua corrente, senza servizi igienici.
I due filoni del nuovo romanzo della scrittrice sudafricana Karyn Brynard sono ambientati a Stellenbosch e a Soweto- l’ispettore Albertus Beeslar si trova per caso ad investigare su un cruento delitto a Stellenbosch, mentre il sergente Ghaap, a 1500 km. di distanza, si trova coinvolto prima nella ricerca dell’auto che gli hanno rubato (insieme alla pistola di ordinanza) e poi in una lotta contro il tempo per salvare una donna che è stata rapita insieme al suo bambino dentro la sua stessa automobile. Due vicende che finiranno per ricongiungersi, marchiate da inaudita violenza, firmate dalla nuova e dalla vecchia criminalità, sporcate (almeno una) da riti di stregoneria affidati ai sangoma.


     Stellenbosch: una donna bianca, moglie di un ricchissimo imprenditore, è stata uccisa nella sua casa. Sangue ovunque. Il marito e la suocera vorrebbero affidare il caso a Beeslar, sono disposti a pagare molto bene pur di non avere tra i piedi l’ispettrice nera Qhubeka. L’apartheid è terminato nel 1991. In teoria. In realtà, come dice l’affascinante Qhubeka, permane la ‘solita divisione in tre mondi. I bianchi nella città vera e propria, al sicuro dietro porte chiuse a doppia mandata. I meticci al loro posto, in mezzo a teppisti e delinquenti. E i neri dall’altro lato della cortina di ferro.’ Beeslar ha la netta sensazione che nessuno stia dicendo la verità, nella famiglia di Malan du Toit. Non la vecchia madre di Malan che vuole preservare il buon nome della famiglia, non Malan che sembra non sapere molto della ‘vera’ vita di moglie e figli, non i due figli- l’esile ragazzina che tenta il suicidio e il ragazzo che è un fanatico della Bibbia.


     A Ghaap era stato detto che non era una bella idea fare l’apprendistato a Soweto. Ghaap non immaginava neppure la vita convulsa, i furti alla velocità della luce, la miseria che spingeva i bambini a diventare piccoli criminali, il sopravvivere di superstizioni, magia nera, riti con sacrifici umani diretti dai medici stregoni, i sangoma. E la ricerca dell’automobile in cui aveva investito i suoi risparmi si trasforma in quella, molto più angosciante, di una donna incinta e del suo bambino. Che cosa volevano farne di lei, i suoi rapitori?
      Non è soltanto la ricca trama che ci coinvolge, nel romanzo di Karyn Brynard il cui titolo anticipa il tema del romanzo che si accentra sulla figura del ‘padre’ in molteplici varianti. I padri sono i grandi assenti, in Sudafrica. Mettono al mondo i figli e scompaiono. I ricchi, come Malan, si giustificano con il ruolo di sostenitori economici della famiglia, i poveri con la motivazione opposta- non sono in grado di mantenere i figli. Che sono allo sbando. Il romanzo della Brynard è pieno di padri che uccidono i figli, che non sanno neppure di averli messi al mondo, che, in ogni caso, non si occupano dei figli. Perfino il mitico ispettore Blikkie, quello che Beslaar è venuto a visitare a Stellenbosch, quello continuamente citato da Beslaar e da Qhubeka, l’uomo che Beslaar considera il suo padre adottivo, ha trascurato la sua unica figlia quando era in vita. E poi c’è la figura di u Baba, il Padre che rappresenta il Male assoluto, uno sciamano potente e crudele  che- si dice- può cambiare aspetto e prendere le sembianze di un animale, che può vederti e fiutarti dovunque tu sia. Il rovescio di Dio. Dio trasformato in Satana dalla township nera. Ci sono ‘i nostri padri’, infine, quelli che si sono macchiati della colpa dell’apartheid.
      Più di un semplice thriller. Un libro che ci aiuta a capire (in parte) il Sudafrica.

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la recensione sarà pubblicata su www.Stradanove.it



martedì 9 luglio 2019

Graham Greene, “Il console onorario” ed. 2019


                                 Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                                                           un classico


Graham Greene, “Il console onorario”
Ed. Neri Pozza, trad. Alessandro Carrero, pagg. 428, Euro 15,00


   Graham Greene, 1904-1991. Uno scrittore che non tramonta mai. Perché è un grande scrittore, candidato al premio Nobel negli anni ‘60, ora felicemente ‘riscoperto’ dalla casa editrice Sellerio che ripropone i suoi romanzi ad iniziare da “Il console onorario”, pubblicato per la prima volta nel 1973 e adattato per il grande schermo nel 1983 con la regia di John Mackenzie e Richard Gere e Michael Caine nei due ruoli principali.
     Una cittadina argentina al confine con il Paraguay. Un’esigua comunità inglese: il sessantenne e alcolizzato Charley Fortnum (console onorario, una nomina puramente onorifica per aver una volta accompagnato dei reali sul sito delle rovine), un professore di Lettere che mangia di tutto pur di mangiare, il trentenne Eduardo Plarr, medico, figlio di padre inglese e madre argentina. Eduardo non sa più nulla del padre da quando questi ha fatto fuggire la moglie e il figlio oltre il confine ed è rimasto in Paraguay a sostenere i rivoltosi. Sarà stato fatto prigioniero? Sarà ancora vivo?




    Fortnum viene rapito per errore dai rivoluzionari paraguyani al posto dell’ambasciatore americano in visita alle rovine storiche. La sua vita non vale nulla- al di là del principio di non cedere al ricatto, il governo inglese sarebbe ben felice di sbarazzarsi di un ubriacone diventato scomodo e il governo americano non è affatto interessato. Proprio adesso che, dal punto di vista personale, a Fortnum la sua vita importa molto- ha sposato una ragazza di quarant’anni più giovane di lui, tirandola fuori dal bordello, e aspetta un figlio.
     “Il console onorario” è uno dei romanzi che Graham Greene definiva ‘entertainments’, per distinguerli da quelli più letterari, come “Il potere e la gloria”. Eppure una separazione netta tra i due generi non è facile, perché anche in questo libro lo scrittore affronta i temi seri che gli stanno a cuore, quelli su cui ritorna sempre perché fondamentali, anche se  camuffati sotto una trama ricca di suspense e con i suoi lati umoristici.
Greene rifiutava di essere definito uno scrittore cattolico. Era uno scrittore, che era anche cattolico. E tuttavia in tutti i suoi romanzi i personaggi si interrogano su Dio e sulla fede e sul Male. Ne “Il console onorario”, nelle lunghe discussioni tra i rivoltosi (tra cui c’è un prete spretato, amico di infanzia di Plarr) e il medico, costretti all’inazione, chiusi nella baracca in attesa dello scadere dell’ultimatum, è proprio l’ex prete Leon a dire che anche il Male viene da Dio, che è la parte oscura di Dio. La miseria nel barrio, la fame, la morte infantile- anche quelle vengono da Dio. E però, come ne “Il potere e la gloria”, un prete resta sempre tale, anche se è indegno, anche se è peccatore, anche se ha lasciato la Chiesa- anzi no, la Chiesa non si lascia mai. In quanto prete, non è più un uomo. E può celebrare la Messa, può ascoltare una confessione (meglio, ha l’obbligo di ascoltarla), può assolvere dai peccati. È questa matrice cattolica, anche se rinnegata, che spinge Eduardo Plarr a uscire dalla baracca per trattare con la polizia. Se non lo facesse Fortnum sarebbe ucciso dai ribelli. E Plarr, che ha tradito la loro amicizia portandosi a letto la moglie di Charley Fortnum, che è il padre del bambino che deve nascere, si sente in colpa ed è geloso del vecchio ubriacone che, nonostante tutto, è capace di amare come lui, Eduardo, non sa fare.
     I personaggi di Graham Greene non sono mai unidimensionali. Si dibattono tra forze opposte, peccano perché sanno che cosa è la lealtà e però tradiscono, uccidono ma sanno che Dio ha comandato di non uccidere, vanno a puttane ma sanno che l’amore è un’altra cosa e non si può comprare, sono Male e Bene, proprio come il Dio di cui parla Leon.
     Ottima la nuova traduzione di Alessandro Carrera, un libro da riscoprire.

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mercoledì 3 luglio 2019

Mazo De La Roche, “Jalna” ed. 2019


                                                Voci da mondi diversi. Canada
                                                              saga

Mazo De La Roche, “Jalna”
Ed. Fazi, pagg. 384, trad. Sabina Terziani, Euro 18,00

      Ci sono dei romanzi che sono veramente intramontabili. Che magari vengono accantonati per anni e poi riscoperti e riproposti ai lettori che li godono come li hanno goduti generazioni di lettori prima di loro. O forse sarebbe meglio dire ‘lettrici’ in alcuni casi, come in quello di “Jalna” della scrittrice canadese Mazo de la Roche, perché sono le donne ad appassionarsi di più alle vicende dei tanti personaggi di una famiglia, in un libro o sullo schermo. E penso ai Cazalet di Elizabeth Jane Howard o a “Downton Abbey” di Julian Fellows, due serie che ho molto amato. “Jalna” ha qualcosa di entrambe, ma le precede di molti anni- il primo dei sedici libri della serie è stato pubblicato nel 1927.
      Una grande casa, con lo stesso fascino un po’ decadente della famiglia Whiteoak che la abita, è il cuore del romanzo. La casa come il personaggio principale, dunque, che vive e respira con i membri della famiglia e che deve il suo nome ad una cittadina dell’India occidentale dove, in una guarnigione britannica, era fiorito l’amore tra la bellissima Adeline e Philip Whiteoak che un’eredità inaspettata aveva portato dall’India al Canada. Soltanto alla fine di questo primo libro troviamo il riferimento ad una data che ci aiuta a collocarne le vicende nel tempo: è il 1925 e Adeline compie 100 anni, festeggiata dai tre figli, dai nipoti e dagli abitanti del villaggio nei cui confronti Adeline è sempre stata generosa e verso cui ha un atteggiamento da sovrana- quasi fosse una copia della regina Vittoria della sua giovinezza.

dal film del 1935 
     Quello che importa, in una saga, è la caratterizzazione dei personaggi che sono sempre numerosi. La bravura dello scrittore o della scrittrice si rivela nel saper attribuire una propria voce ad ognuno di loro, nell’aggiungere il tocco di una pennellata che li qualifichi, che li renda unici, che ce li faccia ricordare, facendoli emergere dall’intrico delle parentele. E Mazo de la Roche è bravissima. Oltre alla vecchia Adeline, capo indiscusso anche se dispotico della famiglia, con le sue cuffie malva, la voce tra il querulo e l’imperioso, il pappagallo che scaglia improperi in hindi, la golosità che, arrivata a questa venerabile età, non può più danneggiarla, il mistero di cui circonda l’erede designato, ci sono altri quattro personaggi dominanti- il romanzo ruota intorno a loro e alle loro storie d’amore. In passato Meggie ha respinto il fidanzato (di cui è tuttora innamorata) quando questi ha avuto una figlia illegittima (abbandonata in una cesta davanti alla sua porta). La bambina Pheasant, che ha ora diciassette anni, sposa di nascosto Piers, uno dei fratellastri di Meggie: come possono vivere le due donne nella stessa casa? Eden, fratello di Piers e aspirante poeta, sposa l’americana Alayne, la ragazza che si è innamorata delle sue poesie prima che di lui, e la porta a vivere a Jalna- non è facile per Alayne, abituata a New York, adattarsi a quella che per lei è una vita claustrofobica e soffocante. E poi c’è Rennie dai capelli rosso scuro, il vero capo famiglia che, dopo la morte dei genitori, si è preso cura dei quattro fratellastri (parola che non gli piace) più piccoli. Rennie il seduttore che unisce forza e tenerezza, l’uomo che vediamo spesso in groppa al suo cavallo- l’opposto della figura delicata del poeta Eden. In un ambiente così ristretto non è possibile evitare le correnti di attrazione magnetica incrociate, le tentazioni sembrano irresistibili, la tragedia viene sfiorata. Poi ritorna la calma dopo la tempesta. Prevalgono i valori della famiglia e il senso dell’onore. L’amore fuori legge e la passione travolgente che calpesta i sentimenti degli altri non sono ammissibili.

      Come avviene per tutte le grandi saghe, anche “Jalna” crea dipendenza. Mille domande attendono una risposta- è l’ultimo compleanno della grande vecchia, quello che viene festeggiato? Che ne sarà di Alayne dopo il ritorno al New York? e di Piers, Eden e Pheasant? Che giovane uomo diventerà il piccolo Wake che sfrutta la sua costituzione fragile per ottenere tutto quello che vuole? E anche se questo non è un romanzo grandioso, ci siamo affezionati ai personaggi,

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