sabato 31 dicembre 2022

i dieci bellissimi del 2022


 

Non sono dieci, i dieci bellissimi del 2022. Mi fa dispiacere dirlo e poi penso che di certo mi sarò sbagliata, che fra quelli che ho giudicato ‘belli’ (più di dieci) ce ne sarà qualcuno che può essere ‘bellissimo’ per qualcun altro, che forse mi è sfuggito un libro bellissimo perché non mi è capitato tra le mani. Ogni libro ha il suo lettore e questa è una mia scelta personale.

    L’ordine in cui li ho elencati è alfabetico.

 

 

        Kader Abdolah, “Il faraone d’Olanda”  ed. Iperborea

 

R      Roy Jacobsen, “Gli invisibili”   ed. Iperborea

     Drago Jančar, “E l’amore anche ha bisogno di riposo”  ed. La Nave di       Teseo

-         Paolo Malaguti, “Il moro della cima”   ed. Einaudi

 Mikhail Shishkin, “Punto di fuga”    ed. 21lettere

 Elizabeth Strout, “Oh William” ed. Einaudi

giovedì 29 dicembre 2022

Andrew Lownie, “Il re traditore” ed. 2022

                  Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

biografia romanzata

Andrew Lownie, “Il re traditore”

Ed. Neri Pozza, trad. Giovanni Arganese, pagg. 390, Euro 22,00

 

   Un grande amore, quello di Edoardo VIII, re d’Inghilterra per 326 giorni, e l’americana Wallis Simpson, due volte divorziata? Lui è passato nell’immaginario come la figura romantica del re che abdicò per amore. Lei ha sempre suscitato perplessità con una domanda a cui è difficile rispondere- che cosa vide mai lui in una donna che era (diciamo la verità) brutta e arcigna?

    Leggiamo il libro di Andrew Lownie, giornalista, scrittore, studioso di storia, ed Edoardo VIII cade dal piedistallo dove l’amore romantico lo ha posto, finiamo per vederlo per quello che era, un ‘ometto’ con tanti problemi, una persona orribile al pari di lei, un traditore simpatizzante con i nazisti- secondo una giornalista americana Wallis Simpson teneva in cornice una fotografia autografata di von Ribbentrop.


    L’11 dicembre 1936 Edoardo VIII abdicava passando il trono al fratello, che sarebbe diventato re con il nome di Giorgio VI, lasciava il castello di Fort Belvedere dove era iniziata la sua storia d’amore e partiva per un esilio che si sarebbe rivelato tutt’altro che dorato. Forse Edoardo non aveva preso in adeguata considerazione le conseguenze della sua rinuncia, tutti i benefici che gli sarebbero venuti a mancare. E sarebbe iniziata una lotta senza fine tra i due Windsor (lui e Wallis) e la corona inglese. Edoardo non avrebbe mai smesso di chiedere che a Wallis venisse riconosciuto il titolo di ‘Altezza Reale’, scontrandosi contro un muro. Nessun membro della famiglia reale volle mai avere alcunché a che fare con lei. C’era poi la questione, per Edoardo, di avere un qualche incarico attinente al suo titolo. Fu nominato, infine, governatore delle Bahamas. Delle Bahamas! Era una sorta di esilio paragonabile a quello di Napoleone nell’isola d’Elba.


    Andrew Lownie segue la coppia nel suo peregrinare, inseguita dalla noia di una vita senza interessi e senza impegni. Erano entrambi egocentrici, sfruttavano le amicizie per ottenere ospitalità, spendevano a dismisura e spesso non saldavano i conti (erano famosi per quello, a lor vedere tutto gli era dovuto per la pubblicità che facevano a negozi, luoghi, ristoranti). E poi c’era la questione delle loro amicizie, della loro manifesta simpatia per Hitler e il nazismo. Edoardo appoggiava un accordo di pace tra la Gran Bretagna e la Germania, ben consapevole che in questo modo la Germania avrebbe potuto concentrare lo sforzo bellico sul fronte orientale, convinto che poi con l’aiuto dei nazisti sarebbe tornato sul trono, senza forse neppure rendersi conto che tradiva così il suo paese (lui stesso diceva di avere un QI inferiore alla media). E naturalmente Edoardo era anche antisemita.

   Quanto alla loro vita privata, non nei primi anni dopo il matrimonio, ma di certo dopo, entrambi ebbero degli amanti di entrambi i sessi. L’impressione è che siano entrambi finiti intrappolati nella loro unione- lui ossessionato da lei anche se lei lo maltrattava oppure forse per quello, lei prigioniera di questa ossessione da cui ormai non poteva più liberarsi. E, leggendo le testimonianze di chi li conobbe e frequentò, a mano a mano che emergono dettagli incresciosi sulla loro vita e le loro frequentazioni, siamo divisi tra un sentimento di disprezzo per lo spreco di un’esistenza senza uno scopo e la pietà per un ometto patetico e triste che, tutto sommato, deve aver sofferto molto e che doveva continuare a credere di amare la donna per cui aveva rinunciato al trono.


   Un capitolo finale cerca di rispondere alla domanda a cui ho accennato all’inizio. Guardiamo le foto di Wallis, lineamenti duri, mascella pronunciata (i lifting che fece in seguito la resero quasi irriconoscibile): è questa la donna capace di ispirare un folle amore? Ci doveva essere dell’altro, nel passato di Edoardo, nella sua vita famigliare, per legarlo così a questa donna.

    “Il re traditore” non è un romanzo, o meglio, è un libro che sfrutta le fonti accuratamente citate per far sì che la storia d’amore più famosa del secolo XIX si legga con la piacevolezza di un romanzo.  

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lunedì 26 dicembre 2022

Jonathan Coe, “Bournville” ed. 2022

                          Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

                               la Storia nel romanzo

                                               Jonathan Coe, "Bournville"

Ed. Feltrinelli, trad. Maria Giulia Castagnone, pagg. 432, Euro 22,00

 

   Il giorno della vittoria (8 maggio 1945)

   L’incoronazione della regina Elisabetta II (2 giugno 1953)

   Finale dei Mondiali di calcio (30 luglio 1966)

   L’investitura del principe di Galles (1 luglio 1969)

   Il matrimonio di Carlo e Lady Diana Spencer (29 luglio 1981)

   Il funerale di Diana, principessa di Galles (6 settembre 1997)

   Settantacinquesimo anniversario del Giorno della Vittoria (8 maggio 2020)

La storia di quasi un secolo della Gran Bretagna attraverso quattro generazioni di una famiglia in sette capitoli che fermano un giorno importante nel fluire della Storia. Sono tutti giorni memorabili, tranne quello dell’investitura del principe di Galles che, però, forse adesso che è diventato finalmente re a 53 anni di distanza, si può considerare tale. È singolare e probabilmente del tutto casuale che le date siano tutte giorni tra la primavera e l’estate, mentre non è casuale di certo che l’evento di ben quattro su sette coinvolga un membro della casa regnante- la monarchia è fondamentale in Gran Bretagna, gli inglesi si appassionano alle vicende dei sovrani anche se questo sarà un argomento di pallide discussioni e di dissidio nella famiglia che è protagonista del romanzo che inizia e finisce nello stesso giorno a distanza di 75 anni. Inizia con un’atmosfera gioiosa per la fine dell’incubo della guerra, con voglia di fare e di guardare al futuro e finisce nel lutto per una morte, nell’incertezza del presente e del futuro, nell’incubo non ancora terminato di un’altra guerra, questa volta contro il virus arrivato dalla Cina. La ruota del tempo gira, il cerchio si è chiuso. Poi…chissà.


    C’è profumo di cioccolato in “Bournville”. Soltanto durante la guerra la fabbrica del famoso cioccolato Cadbury aveva sospeso la produzione per unirsi allo sforzo bellico. Mary, bambina di dieci anni alla fine della guerra, avrebbe fatto trovare ai suoi figli una tavoletta di cioccolato ogni giorno, al ritorno da scuola. E avrebbe continuato, nonostante le loro proteste, anche quando erano diventati adulti. Il padre di Mary aveva lavorato alla Cadbury e suo nonno era tedesco, immigrato in Inghilterra. Il cioccolato e i rapporti con la Germania sono due leit-motiv lungo tutto il libro. Perché il loro significato si amplia, ci fornirà indizi per aiutarci a capire il perché della Brexit dietro cui si cela un nazionalismo insulare.


    Le divergenze erano sorte subito, quando l’Inghilterra era entrata nell’Europa. Agli inglesi il gusto del loro cioccolato sembrava squisito, ma agli europei non piaceva. C’erano troppi grassi vegetali nella cioccolata inglese, non rispondeva agli standard europei- le conseguenze della ‘guerra del cioccolato’ si possono facilmente intuire. Così come la perdita dei posti di lavoro quando l’Inghilterra si era ritirata dall’Europa. Ma questo avverrà molto avanti nel romanzo, quando già lo scrittore lancia frecciate contro il giornalista dalla zazzera bionda che sarebbe diventato il primo Ministro- a lui la responsabilità di gestire la pandemia.

    Il capitolo riservato ai Mondiali di calcio, con la finale Inghilterra-Germania dell’Ovest, approfitta dei legami famigliari con i cugini arrivati dalla Germania per assistere alle partite per mettere in luce l’inimicizia mai sopita tra i due paesi. Inimicizia che va di pari passo, per alcuni membri della famiglia, con il disprezzo e l’odio per gli stranieri immigrati, soprattutto per quelli di colore. Quando uno dei figli di Mary presenterà la fidanzata in famiglia, la nonna dirà, “è nera come l’asse di picche!” e il suocero non le rivolgerà mai la parola. D’altra parte Mary non oserà mai dire al marito che, non solo uno dei loro figli ha sposato una donna di colore, ma un altro, il minore, il musicista, è gay.


   Mentre il mondo cambia, la tecnologia si fa strada, con il televisore dapprima (proprio come in Italia, tutto il vicinato si raduna davanti al fortunato proprietario di un televisore), con il frigorifero, e poi con il computer e il cellulare, gli inglesi si incantano davanti agli schermi per vivere dentro il loro film- ore e ore per assistere all’incoronazione della giovane Elisabetta, e poi il matrimonio di Diana (le voci degli spettatori sono come un coro che commenta a lato), il suo funerale quando era diventata ‘la principessa del popolo’.

    Anche per noi lettori è stato come vedere un film, riconoscendo alcune scene, apprezzando la novità di altre con uno sguardo ‘dall’interno’, seguendo passo per passo il progredire della modernità. E però ci è mancata la brillantezza dei primi romanzi con cui abbiamo conosciuto Coe, “La casa del sonno”, “La famiglia Winshaw”. Ci è mancata la grinta, il tono graffiante che non faceva sconti a nessuno. Gli anni passano- le vicende di “Bournville” ne sono una prova.

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martedì 20 dicembre 2022

Jón Kalman Stefánsson, “La tua assenza è tenebra” ed. 2022

                              Voci da mondi diversi. Islanda

        romanzo epico


J
ón Kalman Stefánsson, “La tua assenza è tenebra”

Ed. Iperborea, trad. Silvia Cosimini, pagg. 606, Euro 21,50

 

   Islanda, fiordi occidentali. Un narratore che ha perso la memoria, che non sa chi è e perché si trovi lì. Il nostro pensiero corre a Tiresia, l’indovino cieco, ad Omero, il grande poeta cieco a cui si attribuiscono i poemi epici dell’Iliade e dell’Odissea- occorre una qualche menomazione, la cecità o l’assenza di memoria per leggere nel futuro, per diventare cantori di storie degli altri?

Perché questo è quello che fa il nostro narratore senza nome- tessere una vasta tela di piccole vicende che coprono due secoli sullo sfondo di un’Islanda che sembra non cambiare mai o, se ci sono dei cambiamenti, avvengono sempre molto lentamente e in ritardo sul resto del mondo. D’altra parte, che cosa è il resto del mondo? esiste un mondo al di fuori di questa isola di distese laviche? Per gran parte del libro sembra proprio di no, è soltanto verso la fine, avvicinandoci ai nostri giorni, che uno dei personaggi lascia l’Islanda, in cerca di se stesso e di libertà. E poi ritorna. Alle pecore, ai campi di lava, al freddo, all’isolamento, al buio delle lunghe notti. Non esiste neppure un mondo dove c’è la guerra, non arrivano notizie di atrocità da fuori dell’isola. Non per nulla è un’isola. Così lontana da tutto, così persa nei mari del Nord.


    Il narratore non riconosce nessuno, eppure tutti riconoscono lui. Quando si reca nel cimitero, si sofferma davanti alla lapide che porta incisa una scritta: “La tua assenza è tenebra”. Chi era la donna a cui erano dedicate queste parole? Come era questa donna oggetto di un amore così grande?

È la figlia della defunta ad avvicinarsi a lui e ad accompagnarlo nell’unico albergo della zona dove la proprietaria lo saluta con un calore che lascia intendere che non solo si conoscono, ma si sono amati in passato. Incomincia da qui la ridda di storie, l’accalcarsi dei personaggi sulla scena del romanzo. Perché qualunque incontro dell’io narrante è il pretesto per raccontare, per ricostruire il passato, per riandare alle origini di famiglie dalla tempra tenace- ci vuole coraggio, ci vuole forza interiore, ci vuole caparbietà per non cedere davanti agli ostacoli che la natura pone. Sono tutte o quasi storie d’amore, quelle che ascoltiamo, perché l’amore non fa distinzioni. Così la donna illetterata che manda ad una rivista un articolo sull’importanza del lombrico- del lombrico (!!!) che viene definito il pensiero di Dio-, sposata e con figli, si innamora del pastore che (anche lui sposato) si innamora a sua volta di lei, dopo solo aver letto il suo saggio, prima ancora di averla vista. Ci sono storie d’amore che durano tutta una vita, come quella della donna con la lapide che reca scritto “la tua assenza è tenebra”, ce ne sono altre che devono essere troncate per non ferire qualcuno irrimediabilmente, ci sono figli dell’amore a cui si deve dire che la madre è morta dandoli alla luce, ci sono momenti di pura felicità e lunghi periodi di disperazione. Per quale motivo giorni come questo devono finire, perché la felicità non si ferma quando ci raggiunge, così che la possiamo portare attraverso la vita come la tartaruga porta la sua casa, come uno scudo invincibile contro le frecce dell’infelicità?


   La sequenza temporale non è lineare, personaggi scompaiono e riappaiono, una colonna sonora ci accompagna mentre leggiamo- da Elvis Presley ai Beatles, a Nina Simone e a Bach, quasi un commento e una chiave di interpretazione delle storie-, una vasta tela si delinea davanti ai nostri occhi di lettori con il paesaggio dell’Islanda, terra molto amata anche se difficile da amare. E poi, da un certo punto, sembra che la Morte tiri le somme, tutti quelli di cui abbiamo letto non ci sono più. Sono morti in tanti eppure la vita continua, non importa quali e quante siano le persone che muoiono. La vita continua il suo corso come se niente fosse successo. Non si cura né della giustizia né dell’equità. E allora bisogna scriverne, bisogna tramandarli alla memoria come ha fatto Omero, e se la memoria del narratore è vuota, sarà più facile per lui ricordarli. Solo se lui ne scrive, tutte quelle persone saranno salvate dall’oblio.

     Un romanzo non facile da leggere, con personaggi dai nomi per noi strani e difficili da ricordare, ma pieno di poesia e dell’incanto di storie epiche.

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sabato 17 dicembre 2022

Ismail Kadaré, “Il dossier O.” ed. 2022

                                                 Voci da mondi diversi. Albania

Ismail Kadaré, “Il dossier O.”

Ed. La nave di Teseo, trad. F. Bruno, pagg. 224, Euro 19,00

     “Il dossier O.” Il titolo del romanzo dello scrittore albanese Ismail Kadaré dice già tanto, anticipa molto di quello che leggeremo. Sveliamo subito l’enigma di chi si nasconde dietro quella iniziale: non è altri che Omero, il grande poeta cieco a cui si attribuiscono l’Iliade e l’Odissea. Quanto a ‘dossier’, soltanto in Albania o in un paese con un regime comunista simile al suo si può pensare di radunare una documentazione, frutto di spionaggio, su due studiosi di Omero arrivati dall’America. E mi viene in mente il bel romanzo di Gabriela Adamesteanu, “L’incontro”, in cui il sorvegliato speciale era un illustre biologo amante dell’Odissea, invitato a tornare per delle conferenze nel suo paese di origine, la Romania- il carteggio degli informatori, l’ignoranza che sfiora l’assurdo e trabocca nel comico, l’ingenuità candida delle ‘vittime’ sono del tutto uguali, quasi rispettassero un copione già scritto e valido per tutti i paesi che ruotavano intorno all’Unione Sovietica.


    Il sospetto che siano due spie pesa già sul capo di Willy Norton e di Max Roth fin dalla loro partenza dall’America, annunciata da un telegramma dell’ambasciatore “non si può escludere che i due visitatori stranieri siano delle spie.” Queste parole vengono recepite come la certezza che siano delle spie e tocca al viceprefetto del paese di N., ai piedi delle Cime Maledette, provarlo. Perché il motivo di studio dei due irlandesi che giungono da Harvard sembra del tutto incredibile: a chi può interessare una ricerca sulle origini dei racconti omerici? Chi può darsi tanto da fare per cercare un collegamento tra l’Iliade e l’Odissea e i canti epici dei rapsodi albanesi? E usando poi un aggeggio misterioso che imprigiona le voci! Si chiama magnetofono, è una novità (siamo negli anni ‘30 del ‘900) di cui in Albania nessuno ha mai sentito parlare, di certo una diavoleria. E il viceprefetto affida il compito di spiare gli stranieri al suo informatore più fidato, che però non sa l’inglese. Solo in un secondo tempo l’unica spia che capisca quella lingua arriva sul posto (e ci sarà un risvolto farsesco alla sua presenza).


    Parecchi filoni si intrecciano nel romanzo, alcuni di graffiante ironia velata di comicità, uno serio e colto che più che mai evidenzia il contrasto tra la passione di studio dei due irlandesi che vengono da un altro mondo e l’ignoranza della gente del posto. Questo è un filone affascinante, con le ipotesi sulle origini dei poemi omerici, su chi sia stato veramente Omero, sulla sua cecità (vera? simbolica? necessaria per un cantore?). E poi gli studi su come e fino a che punto cambi un’epopea tramandata oralmente a distanza di tempo, con ricerche sul campo ascoltando, con lo stupore ammirato di chi viene dal mondo della modernità, gli ultimi rapsodi albanesi che suonano quel loro strumento a due corde, decidendo infine che deve esserci un evento di grande rilievo per dare origine ad un canto.


   Ci sarà, questo evento di rilievo a smuovere gli animi, l’antica epopea è rivitalizzata, i due studiosi ne diventano gli eroi (c’è perfino una parodia della storia d’amore che è il retroscena della guerra di Troia) e sì, la cecità è necessaria per ‘vedere’ al di là del reale- se ne renderà conto uno dei due.

    Ismail Kadaré fa uso del paradosso portato all’estremo della comicità per farsi gioco del regime oscurantista che tiene prigioniera l’Albania e scrive un romanzo che scorre veloce tra il serio e il ridicolo trasportandoci in un paese dalla natura selvaggia dove restiamo sempre nell’incertezza se, quando si parla di ‘cimici’, si voglia segnalare la presenza del fastidioso (a dir poco) insetto o si voglia alludere a qualcos’altro di ancora più fastidioso e pericoloso.

   È proprio il caso di dire che i due studiosi ritornano in America con le pive nel sacco.

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martedì 13 dicembre 2022

Henri de Montherlant, “La reine morte”

                                                     Voci da mondi diversi. Francia

             dramma

Henri de Montherlant, “La reine morte”

Ed. Hachette, pagg. 109, Euro 5,99 (formato kindle. La mia vecchia edizione nei mitici Livres de Poche non esiste più, c’è però anche una edizione inglese)

      Ho sentito parlare di Inés de Castro più o meno ogni giorno, durante il mio viaggio in Portogallo. Il che è straordinario, perché Inès de Castro è morta a trent’anni, nel 1355, fatta assassinare dal suocero, re Alfonso IV.

    Inés de Castro è protagonista di una storia d’amore, una di quelle storie alla ‘Romeo e Giulietta’, tanto più affascinanti e memorabili perché tragiche, perché non c’è niente che susciti emozione come amore e morte. L’erede al trono di Portogallo, don Pedro, si era perdutamente innamorato di Inés quando questa era la dama di compagnia di sua moglie Costanza, ma solo dopo la morte di Costanza il loro legame era stato svelato a tutti. E naturalmente re Alfonso si era opposto al matrimonio del figlio con una donna che era anche una figlia illegittima, senza sapere che i due erano già sposati di nascosto. Per ridurre il figlio all’obbedienza re Alfonso aveva dato ascolto ai suoi consiglieri facendo uccidere Inés. Ne era seguita una guerra civile tra padre e figlio e, quando don Pedro aveva ereditato il trono, aveva fatto riesumare la salma- era il 1360. In una cerimonia molto macabra, aveva incoronato Inés regina obbligando più di 300 notabili del regno a sfilare davanti al cadavere vestito con uno sfarzoso abito viola e a baciarle la mano. La mano di uno scheletro.


     Sui miei scaffali ho trovato il dramma in tre atti di Henri De Montherlant, “La reine morte” (la data in prima pagina indica che l’ho letto nel 1964, confesso che non serbavo altro ricordo che il titolo)- un piccolo gioiello.

    L’autore modifica alcuni dei fatti, ma ha poca importanza. “La reine morte” è prima di tutto un dramma psicologico, uno scontro tra padre e figlio, un problema di coscienza di un sovrano che ha già troppo sangue sulle sue mani e non vuole averne altro ora che sente la sua fine avvicinarsi, un’alleanza improbabile tra donne, una grande storia d’amore.

Non c’è possibilità di intesa tra re Alfonso e il figlio don Pedro, il padre rimprovera al figlio di essere cambiato dopo il compimento dei tredici anni di età, il figlio non condivide l’atteggiamento guerriero del padre e non osa neppure dirgli che il suo rifiuto di sposare l’infanta di Navarra è dovuto al fatto che lui e Inés si sono sposati in segreto.


Perché Alfonso cerca di essere comprensivo- che sposi l’Infanta per il bene del Portogallo e che si tenga Inés per amante. E quando i suoi consiglieri gli dicono che c’è una sola maniera per salvare il Portogallo ed è uccidere Inés, Alfonso tentenna, convoca Inés, è conquistato dalla sua dolcezza. Conquista tutti, Inés. Anche l’Infanta che dovrebbe vederla come sua rivale. Anzi, l’Infanta di Navarra vorrebbe convincere Inés a salpare con lei per allontanarsi dalla minaccia che aleggia nell’aria. E qui entra in campo l’amore. Inés non vuole fuggire, Inés non può vivere lontano da Pedro. La sua sorte è segnata.

    C’è qualcosa dell’atmosfera di “Assassinio nella cattedrale” di Eliot nell’esito di un delitto annunciato, nell’assassinio di una vittima che ha un’aura di bontà e quasi di santità. E il dramma di Montherlant, in uno stile limpido e scorrevole, fa rivivere la dolce Inés per noi. Il monumento funebre in sua memoria si trova nella cattedrale di Alcobaça e i tre assassini, gravati dal peso del sarcofago su cui giace l’immagine in marmo di Inés, hanno sembianze antropomorfe. Solo delle bestie potevano uccidere una donna con il bambino che portava in grembo.





sabato 10 dicembre 2022

Geraldine Brooks, “Come il vento” ed. 2022

                                                    Voci da mondi diversi. Australia



Geraldine Brooks, “Come il vento”

Ed. Neri Pozza, trad. Massimo Ortelio, pagg. 390, Euro 20,00

 

   Lexington, Kentucky, 1850. Jarret era lì, nella stalla, quando il puledro era nato. Era stato amore a prima vista, del ragazzino nero con il puledro dal manto rossiccio, una stella bianca sul muso e le zampe bianche. Gli era stato dato il nome di Darley, cambiato poi in Lexington quando si era reso necessario identificare quello straordinario cavallo con il Kentucky. Ci si aspettava molto da Darley, figlio di un cavallo dal carattere difficile ma che era stato capace di vincere, in sette anni, quaranta delle quarantacinque gare a cui aveva partecipato. E Darley diventato Lexington avrebbe mantenuto le promesse, sarebbe diventato il primo, grande purosangue d’America.


   È Lexington il protagonista del romanzo di Geraldine Brooks, con un coprotagonista che impariamo ad amare quanto il cavallo baio- Jarret, figlio dell’addestratore di cavalli Harry che era riuscito a comprare la libertà per sé ma non per il figlio. Jarret sarà sempre vicino al ‘suo’ cavallo, ne condividerà i successi, capace di avvertire in lui timori e malesseri, di prevenirli e di curarli, mettendo al primo posto la salute e la felicità di Lexington, riconoscendogli una dignità pari a quella di un essere umano.

   Il racconto di Geraldine Brooks non è, però, una narrazione piatta della vita e delle vittorie di uno splendido cavallo, è movimentata dall’alternarsi di diversi punti di vista, di voci diverse su piani temporali che distano più di un secolo l’uno dall’altro.

Theo, Jess, Thomas Scott, Martha Jackson- le voci dei primi due ci giungono dal 2019, Thomas Scott è contemporaneo di Jarret e del suo cavallo, i capitoli di Martha Jackson hanno una data nella metà degli anni ‘50 del ‘900. Se Jarret è il personaggio che si identifica con il cavallo, gli altri quattro hanno a che fare con la storia di Lexington in un’altra singolare maniera che ha un che di affascinante perché, ognuno a suo modo, sono loro ad avere il merito di rendere eterna la fama del baio. Thomas Scott aveva dipinto Lexington in tutta la sua gloria, il quadro (uno dei molti, in realtà) era passato per le mani della gallerista Martha Jackson e poi di Theo, giornalista e storico dell’arte nero, che lo aveva raccolto tra le immondizie prima di incontrare Jess il cui lavoro era ricostruire lo scheletro di Lexington.


    In primo piano c’è la storia di questo eccezionale cavallo che seguiamo mentre cambia di padrone, fremendo per l’ingiustizia della legge che, nel 1850, proibisce ad un nero di possedere un cavallo e di farlo gareggiare. Ci pare di essere fra gli scommettitori, puntando su di lui, ammirandolo come se lo vedessimo su uno schermo. La gloria, poi la brusca interruzione delle corse (Jess ne scopre il motivo, esaminando lo scheletro) e un secondo tipo di gloria come padre di una progenie numerosa e altrettanto valida quanto lui.

    In secondo piano c’è uno schizzo degli stati del Sud prima della guerra di secessione, quando la schiavitù era la norma e la base della ricchezza, i padroni bianchi erano arbitri di vita e di morte sugli schiavi neri e castighi terribili venivano inflitti a chi cercava di fuggire verso la libertà. È questo, quasi certamente,il motivo per cui nella trama c’è il personaggio di Theo, testimone, con la sua tragica fine, di come tutto sia cambiato ma sia rimasto uguale.


    Ricordo soltanto un altro romanzo con un protagonista equino, “War horse” di Michael Morpurgo, adattato anche in un film diretto da Spielberg. In entrambi i romanzi colpisce la straordinaria ‘umanità’ del cavallo che rende possibile il legame di amicizia, di fedeltà e di amore, con l’uomo- un ragazzo in entrambi i romanzi.

    Un libro appassionante che piacerà agli amanti degli animali, a chi predilige i romanzi storici (molti dei personaggi che appaiono nel libro sono esistiti veramente) e a chi piace la storia dell’arte, anche quella di nicchia.

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martedì 6 dicembre 2022

Soma Morgenstern, “Il figlio del figlio perduto” ed. 2022

                                     Voci da mondi diversi. Europa dell'Est

        storia di famiglia

Soma Morgenstern, “Il figlio del figlio perduto”

Ed. Marsilio, trad. Alessandra Luise e Sarina Reina, pagg. 305, 18,00

     Un romanzo che viene dal passato, perché, pubblicato per la prima volta nel 1935 (il primo di una trilogia), ci arriva solo ora in traduzione italiana,  perché ci parla di un tempo passato e soprattutto di un mondo passato veramente del tutto, interamente scomparso, quella yiddishland cancellata dai nazisti. Eppure i temi di cui tratta- identità, appartenenza, ricerca di una dimensione spirituale- sono tuttora validi e riescono a coinvolgerci e poi questa è la storia di una famiglia, con quel pizzico di mistero che avvolge i rapporti famigliari e che ci incuriosisce, in attesa di una auspicata riconciliazione finale che ci sarà- e lo indoviniamo subito, quasi fosse il motivo nascosto del viaggio a cui il protagonista si prepara.

    È l’estate del 1928 e nelle prime settimane di agosto si svolgerà a Vienna il congresso mondiale degli ebrei fedeli alla Legge. È questo il motivo ufficiale per cui il possidente Wolf Mohylewski si prepara per andare (malvolentieri peraltro) a Vienna. Anzi, è l’unico motivo perché neppure a se stesso Wolf Mohylewski (chiamato da tutti Welwel Dobropoljer perché proprietario delle terre di Dobropolje, in Galizia) osa confessare che nutre la speranza di rientrare in contatto con il figlio di suo fratello, morto in guerra.


Quanti anni avrà ora il ragazzo? Una ventina? Era stato bandito dalla famiglia insieme al padre, quel Jossele a cui Welwel era così legato. Perché Jossele non solo aveva sposato una goj, ma si era convertito al cattolicesimo. Vietato fare il suo nome, vietato ricordarlo. Aveva disonorato la famiglia. E però c’era quel tarlo in Welwel, c’erano i flash di loro due bambini che si presentavano non voluti alla sua mente, il pensiero di quel nipote che aveva un nome tedesco- Alfred- invece del nome del nonno come avrebbe dovuto, che poteva solo indovinare, con il cuore in pena, come stava crescendo lì nella grande città, estraniato dal suo popolo, dal suo Dio, certamente ancora più estraniato da Dio e dal suo popolo di quanto fosse stato quel rinnegato di suo fratello negli ultimi anni della sua sconclusionata esistenza.

    Il viaggio, Vienna e il congresso, il ritorno. È scandito in tre parti, il romanzo di Soma (diminutivo di Salomo) Morgenstern, scrittore ebreo-ucraino, tre parti che hanno quasi il ritmo di un pezzo musicale, con un andante, un minuetto e poi una conclusione serena. Il viaggio colmo di eccitazione e timori, di osservazioni sulla bellezza delle terre che stanno attraversando e che ci preparano al contrasto con il fermento della grande città, il congresso che è una sorta di rivelazione per il giovane Alfred presente quasi per caso, l’opportunità per prendere coscienza delle sue radici, e infine il ritorno a Dobropolje, quasi come nella parabola del figliol prodigo.


    Il titolo italiano è identico a quello originale in tedesco, una chiave di interpretazione perfetta. “Il figlio” è la prima parola, perché è lui il vero protagonista, il ragazzo che si indaga e vuole sapere di più sul padre oltre al fatto che fosse quel bell’uomo di cui si era innamorata sua madre. “del figlio perduto”, e qui “perduto” non significa smarrito, o morto in guerra, perché è vero che Jossele è morto in guerra, ma era già ‘perduto’, dannato come la sua memoria, perché aveva abbandonato la religione dei suoi avi, quella che aveva permesso la coesione degli ebrei nei secoli in tutte le loro peregrinazioni.

   Soma Morgenstern non dimentica mai di condire con un filo di umorismo la sua storia del mondo che sta per scomparire, di una società ebraica già divisa tra ortodossia e laicità, oggetto costante di scherno e angherie. E leggere il suo romanzo comunica una certa emozione venata di tristezza e di rimpianto per quello che si è perso- sì, veramente perso, nel significato comune della parola.

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domenica 4 dicembre 2022

Andrej Longo, “Mille giorni che non vieni” ed. 2022

                                                                          Casa Nostra. Qui Italia

                  noir

Andrej Longo, “Mille giorni che non vieni”

Ed. Sellerio, pagg. 299, Euro 15,00

 

     È amore, proprio amore, quello di Rachelina per il suo papà.

     È amore, proprio amore, quello di Antonio Caruso per la giovanissima moglie Maria Luce.

     A Rachelina non importa se il suo papà è stato rinchiuso per sei anni ‘in quel brutto posto’, il papà è quello che le fa fare ‘vola, vola’, che compera la pizza per cena.

E Antonio sa benissimo che la moglie ha ragione ad essere diffidente nei suoi confronti, che vita dura ha avuto, da sola con la bambina mentre lui era rinchiuso. Eppure Maria Luce ha sempre portato Rachelina a far visita al padre, consapevole che la bimba avesse bisogno della figura paterna.

    Inspiegabilmente Antonio, che avrebbe dovuto scontare altri sette anni di prigione, è stato rimesso in libertà. Qualcuno ha confessato di aver ucciso l’uomo per cui Antonio era stato condannato. Come è possibile? Antonio Caruso sa benissimo di essere stato lui a sparare. La spiegazione ci verrà data, più avanti nel libro che alterna il presente con flashback illuminanti sul passato e l’ambiente in cui Antonio era cresciuto- è stata una grande prova di amicizia quella che ha ridato la libertà ad Antonio. Adesso siamo pari, diceva il messaggio che solo Antonio poteva capire.


    Antonio Caruso è pieno di buona volontà, la lezione del carcere gli è servita, nonostante che il direttore gli abbia detto che un delinquente rimane sempre un delinquente. È vero? ci pare che a volte il destino e i casi della vita costringano una persona in un ruolo da cui non riesce a liberarsi.

Antonio ha bisogno di lavorare. Deve dimostrare alla moglie che si può fidare di lui, che possono costruire ancora qualcosa insieme. E accetta di guidare un camion nella notte per 800 euro. Sente puzza di qualcosa di losco- 800 euro per una notte? Patente di guida fornita così in quattro e quattr’otto? Ritornare prima che faccia luce la mattina dopo? E però lui accetta, pensa che potrà restituire i soldi all’usuraio che gli ha fatto un prestito a strozzo per pagare gli occhiali della bambina che si sono rotti. Accetta anche se tutto gli pare sempre più strano, il carico di pomodori che stanno marcendo, l’Opel nera che lo precede con due uomini a bordo, l’altra macchina che lo segue. Ma sono cose che a lui non devono interessare. Farà come gli hanno detto e si prenderà i soldi.

    Non è così facile, chiudere gli occhi a tutto. Antonio non può far finta di non vedere e di non sentire. E le conseguenze lo metteranno in pericolo, di vita, di finire di nuovo in prigione. E ci finirà, anche se non per molto, perché a questo punto, per essere dalla parte del giusto, per salvare quello a cui tiene di più, è lui stesso ad offrirsi di fare qualcosa che è davvero molto pericoloso.


    Il romanzo di Andrej Longo è un noir tesissimo che ci offre un’apertura sulla vita dei bassi di Napoli visti con un’empatia che rifugge dalla condanna e dal giudizio, che cerca piuttosto di capire, con uno stile colorito che ha molto del parlato ma è, nello stesso tempo, garbato e mai volgare. I suoi personaggi sembrano uscire dai film in bianco e nero del cinema neorealista e- possiamo dirlo?- se un delinquente può essere simpatico, ebbene, Antonio Caruso suscita la nostra simpatia, ci troviamo a ‘tifare’ per lui, non ce la sentiamo di condannarlo ad una pena grave. Ma è un personaggio del tutto negativo, Antonio Caruso? C’è da pensare, qualunque sia la risposta che diamo alla domanda.

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