giovedì 30 settembre 2021

Shubhangi Swarup, “Latitudini del desiderio” ed. 2021

                                                   Voci da mondi diversi. India



Shubhangi Swarup, “Latitudini del desiderio”

Ed. Ponte alle Grazie, trad. Gabriella Tonoli, pagg. 396, Euro 18,00

 

        Su un’isola tropicale il silenzio è il suono incessante dell’acqua. Le onde, come il respiro, non ti abbandonano mai.

     Inizia con questa frase il romanzo “Latitudini del desiderio” di Shubhangi Swarup. E subito siamo trasportati in un paesaggio insulare- le isole Andamane- con un linguaggio poetico che sarà la cifra di tutta la narrazione.

    Quattro filoni nel romanzo, quattro ambienti diversi ed è come se il testimone venisse passato da un filone all’altro, con un personaggio marginale in una parte che diventa il protagonista in un’altra. Perché poi, infine, ci renderemo conto che in realtà la natura è la vera protagonista, che giganteggia minacciata di continuo da un pericolo incombente, vuoi che sia un terremoto o uno tsunami, o un crepaccio che si spalanca nei ghiacci dell’Himalaya.


    Nel primo filone- di certo il più bello, il più intenso, il più ricco di emozioni- Girija Prasad Varma e Chanda Devi si abituano a vivere insieme, a scoprire il desiderio. Il loro è stato un matrimonio combinato- lui è uno scienziato, ha studiato a Oxford ed è stato incaricato dal governo di istituire il primo Servizio Forestale nazionale; anche lei ha studiato, è vegetariana, parla con gli alberi, vede i fantasmi di chi ha già vissuto. Lui diventa vegetariano per amore della moglie- si ameranno per tutta la vita e oltre, dopo la morte di lei, quando Girija resterà solo con una bambina che crescerà un poco selvaggia, una figlia della natura, finché il padre la manderà a studiare in India.

    Se questo romanzo è un’esplorazione delle latitudini del desiderio, il desiderio in quanto espressione di amore è raccontato nella sua forma più ‘naturale’ in questo primo filone intitolato “Isola”. Nel secondo un’ombra tragica aleggia sulla vicenda di Mary e del marito birmano. Chanda Devi aveva assunto Mary come aiuto domestico perché ne aveva avuto pietà. Fuggita a quattordici anni da casa per sposarsi, Mary era stata una vittima del marito ubriacone e violento (l’intera vicenda ci sarà raccontata da lei). Ora Mary lascia le Andamane e si mette sulle tracce del figlio, che era stata obbligata ad abbandonare quando aveva otto mesi e che ora è in prigione. La storia del ragazzo che pensa di essere orfano e che si è dato il nome di Platone segna una svolta politica nel romanzo- sono gli anni della dittatura in Birmania, le proteste sono soffocate nel sangue, le torture sono intese a stroncare i rivoltosi. Platone guadagna la libertà (è ridotto pelle e ossa, ha i denti spezzati e forti dolori all’inguine causati dalle scariche elettriche sui testicoli) grazie ad un’amnistia. Fuori dal carcere trova la madre e il vecchio amico Thapa.


   Thapa- e la scena si sposta a Kathmandu- diventa il personaggio principale del terzo filone. La capitale del Nepal è una città fatiscente e impestata dai turisti che vive sul commercio dell’oppio- è di questo che vive anche Thapa. In un suo viaggio dal Nepal all’India Thapa incontra il vecchio e saggio patriarca che è protagonista dell’ultima parte. Il libro che era iniziato con l’amore tra due giovani termina con quello- tra il tenero, l’autoironico e il ridicolo affettuoso- tra due vecchi. Si chiude così il cerchio, con un’incursione nelle nevi del Ladakh e la riapparizione di Girija Varma sotto forma di fantasma agli occhi di suo nipote che ha ereditato dalla nonna la capacità di vedere gli spiriti.


    “Latitudini del desiderio” è un’indagine sull’amore, sulle varie forme di amore- tra uomo e donna, madre e figlio, per una divinità, per un ideale politico, più genericamente per la Madre Terra, per quella mitica Pangea, il primordiale unico continente terrestre da cui sarebbero derivati i continenti attuali. La Pangea diventa un simbolo per tutta l’umanità, unica anche se frammentata nelle sue diversità.

   C’è molta poesia nella visione grandiosa del libro e c’è una celebrazione della natura che ci fanno perdonare la disuguaglianza tra le quattro parti, una graduale caduta di tono e di coinvolgimento dopo il fascino che ci ha soggiogato all’inizio.

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lunedì 27 settembre 2021

Ilaria Tuti, “Luce della notte” ed. 2021

                                                                    Casa Nostra. Qui Italia

     cento sfumature di giallo

Ilaria Tuti, “Luce della notte”

Ed. Longanesi, pagg. 256, Euro 16,80

 

     Una bambina che fra poco compirà 9 anni e che si chiama Chiara.

La sua mamma, con un groppo in gola, commenterà su questo nome luminoso, dato quando ancora non si sapeva della malattia genetica della bambina che le impedisce di uscire con la luce del giorno.

Chiara ha sognato qualcosa che l’ha spaventata. Che trovava nel bosco un bambino, sepolto tra le radici di un albero. Nessuno farebbe caso al sogno di una bambina che ha, come unici amici, degli animali intagliati nel legno. Ma Teresa Battaglia non è ‘nessuno’. Teresa la ascolta, con l’empatia e la capacità di entrare in contatto con chi si è chiuso al mondo che già abbiamo visto nel caso dell’assassino di “Fiori sopra l’inferno”. Quello è un caso appena terminato- il commissario Teresa Battaglia ha imparato ad apprezzare il giovane ispettore Marini che è legato a lei da ammirazione, rispetto, forse anche da qualcosa di più. Di certo è sempre molto sollecito nell’aiutarla, quando Teresa si trova in difficoltà- per il diabete che si ostina a non curare con scrupolo e per l’altro male inesorabile che ha scoperto da poco, che la spaventa, che le fa prendere nota di tutto su un diario, che le fa appuntare bigliettini pro-memoria in casa.

     Chiara aveva ragione. C’è veramente un tronco con l’incisione di una mezzaluna con la stella, c’è veramente il resto di un sacco a pelo rosso con tracce di sangue tra le radici.


Chiacchiere di paese raccontano di luci di alieni, sì degli ufo, che si erano visti nel bosco alla fine di ottobre 1995. Macché alieni.

    Non è facile risalire a quello che è successo vent’anni prima. Erano gli anni della sanguinosa guerra nei balcani. L’alto Friuli era il percorso dei fuggitivi che speravano di arrivare più a Nord. Ci sono dei documenti che registrano i dati di queste persone a cui è stato dato riparo provvisorio? Come mai manca la fotografia di uno di loro? Come è possibile che sia stato fatto un errore di genere, tralasciando di annotare che uno di loro era una donna?

     Un giallo insolito, “Luce nella notte”. È, forse, più un mystery o un noir. E, pur senza grandi approfondimenti, mette a fuoco il dramma- allora e adesso- di tutti quelli che affrontano una fuga, un salto nell’ignoto, una morte possibile piuttosto che una morte certa, che si mettono nelle mani dei passeur, i quali sono spesso senza scrupoli e che hanno scoperto quale fonte incredibile di denaro possa essere il traffico umano, una variante del commercio degli schiavi. Odioso e ripugnante, nessuna pena è troppo lieve per chi arriva a vendere degli uomini.


Non parliamo poi quando si tratta di ‘un capretto da latte’, come si trova segnato nei libri dei conti del colpevole. E noi non possiamo non notare l’interesse per quello che riguarda i bambini, perché è il primo dovere degli adulti far sì che il Male venga loro risparmiato, e pensiamo al piccolo musulmano in fuga, a Chiara con la sua carnagione da Regina delle Nevi, ad Andreas sopravvissuto ad un esperimento di privazione dell’affetto che ora si apre in un sorriso per l’indomita Teresa Battaglia.

  

    I diritti di autore di questo romanzo saranno devoluti al CRO di Aviano, a favore della ricerca sul sarcoma di Ewing.



   

domenica 26 settembre 2021

Miron Białoszewski, “Memorie dell’insurrezione di Varsavia” ed. 2021

                                         Voci da mondi diversi. Polonia

                                         seconda guerra mondiale


Miron Białoszewski, “Memorie dell’insurrezione di Varsavia”

Ed. Adelphi, trad. Luca Bernardini, pagg. 321, Euro 22,00

     Sua madre lo aveva mandato a prendere il pane, quel primo agosto 1944. Quando, al ritorno, aveva trovato radunata una piccola folla che raccontava di due tedeschi ammazzati in via Ogrodowa, il primo pensiero di Miron Białoszewski era stato che non era passato per dove sarebbe dovuto- come a dire che si era perso le spettacolo. Perché a Miron ventiduenne vivere la Storia in prima persona sembra un’avventura esaltante.

    Il primo settembre di cinque anni prima i tedeschi avevano invaso la Polonia e adesso erano ancora lì, mentre l’Armata Rossa avanzava da Oriente. L’insurrezione di Varsavia, organizzata dal movimento di resistenza

Nazionalista, era destinata a fallire, se non altro per la disparità delle forze in campo, con i carri armati Tigre ‘grossi come case’ che circolavano per le strade della città abbattendo le barricate improvvisate. Fu una catastrofe. Sessantatre giorni dopo il numero degli insorti uccisi era 25.000 e 200.000 le vittime civili. L’intera Varsavia era un cumulo di macerie.


    Ci vorranno ventitre anni perché Miron Białoszewski riesca a mettere per iscritto queste memorie, per ritrovare la voce del ragazzo che era stato, per raccontare quei giorni come li aveva vissuti, con l’incoscienza e l’ardore della gioventù. Perché è una voce giovane quella che esce da queste pagine e la parola scritta riproduce quella parlata, spesso è onomatopeica, spesso è coniata dal nulla e sempre il tono è concitato perché il tempo preme, la morte può essere in agguato con la prossima bomba, con il prossimo crollo, con la prossima granata, con il prossimo proiettile di uno dei cecchini appostati sui tetti. Una mappa in chiusura del libro ci aiuta a seguire gli spostamenti di Miron, dei suoi amici, della sua famiglia, mentre un edificio dopo l’altro è inagibile. Hanno imparato a contare dal sibilo della bomba all’esplosione, così come hanno imparato il numero dei piani attraverso cui una bomba può passare. Si rifugiano nelle cantine, gente ammassata che riesce a mantenere una certa umanità nella drammaticità del momento. Iniziano a scarseggiare i viveri, è impossibile curare i feriti. Quando viene deciso di passare in un’altra area della città attraverso le fogne, Miron si offre per portare a spalle un ferito grave che continua a gemere per il dolore e per la sete.


   La mattina del 2 ottobre tacque tutto, completamente. E questa volta per sempre. Capitolazione. Fine dell’insurrezione. Proclamata. Da oggi tutti via. Per il 9 ottobre doveva essere tutto sgombro. L’intera città.” E si apre l’ultimo capitolo del dramma di Varsavia, la deportazione della popolazione in grado di lavorare che viene diretta ai lavori forzati nel Reich, gli altri all’interno del Governatorato generale. Seguono le incertezze, i dubbi- non sarebbe meglio restare e nascondersi tra le macerie? Poi il treno, l’arrivo al campo, ad un certo punto la fuga. “Varsavia la rividi nel febbraio 1945”.

    Il diario-memorie di Miron Białoszewski è apparso nel 1970 e lo scrittore, uno dei grandi poeti polacchi del secolo scorso, è morto di uno scompenso cardiaco nel 1983. Nel risvolto di copertina della prima edizione lo scrittore affermava che non c’era alcuna ‘insufficienza’ nella realtà che giustificasse l’invenzione ‘di ciò che non era stato’- non abbiamo dubbi che non ci sia alcunché di inventato in questo libro assolutamente necessario che ci colpisce per i fatti che racconta e per il linguaggio che sembra essere stato esso stesso colpito da un bombardamento.

  Un’ottima postfazione del traduttore Luca Bernardini chiude le “Memorie dell’insurrezione di Varsavia” e un glossario dei luoghi ci traduce la toponomastica.  

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giovedì 23 settembre 2021

Yone Noguchi, “Diario americano di una ragazza giapponese” ed. 2021

                                                 Voci da mondi diversi. Giappone

     romanzo di formazione

Yone Noguchi, “Diario americano di una ragazza giapponese”

E. Elliot, trad. F. Lopiparo, pagg. 214, Euro 17,50

      Fidiamoci delle scelte delle case editrici ‘minori’ per riportare alla luce romanzi insoliti che sono dei piccoli gioielli. E’ il caso della Elliot di cui abbiamo già apprezzato le precedenti scoperte e che ora ci regala il delizioso “Diario americano di una ragazza giapponese” di Yone Noguchi.

     All’inizio del secolo scorso il giovanissimo Yone Noguchi emigra da Tokyo a San Francisco, sua è quindi la sorpresa della novità di un mondo e di una cultura così differenti da quelli che ha lasciato e però, stravolgendo una duplice consuetudine, decide di scrivere qualcosa di diverso. Se finora la forma del diario era prettamente opera di un uomo, Yone Noguchi ne scrive uno calandosi nei panni di una ragazza giapponese diciottenne che arriva in America accompagnata da uno zio. E lo scrive in inglese. Yone Noguchi è Morning Glory (Asagao il suo nome giapponese, come quello della protagonista del Genji monogatari, il più famoso classico della letteratura giapponese), il suo diario è il primo romanzo scritto in inglese da un autore giapponese.


    C’è grande aspettativa, all’inizio, per il viaggio che Morning Glory si accinge a fare. “Una nuova pagina della mia vita sta per iniziare”, sono le parole di apertura del diario. Il suo viaggio è il primo evento degno di nota nella storia della sua famiglia da sei secoli a questa parte. Il saluto di Sayonara a Tokyo è piuttosto sbrigativo, a bordo del Belgic Morning Glory si sente come una bandiera di carta abbandonata nella tempesta e l’oceano Pacifico è ‘lo sconquassatore del mondo’. Finalmente arrivano a San Francisco ed iniziano le pagine con le sue osservazioni attente, irriverenti- a volte nei confronti dell’America e degli americani e a volte nei confronti del Giappone che si è lasciata alle spalle-, divertenti, ingenue, sempre molto colorite.

   


Torniamo indietro di più di cento anni. L’America sembrava a Morning Glory- ed effettivamente lo era- tremendamente moderna e innovativa. La giapponesina si stupisce di tutto, delle automobili che paragona ad una carrozza senza cavalli, degli ascensori che la divertono così tanto da andarci su e giù senza alcuno scopo, delle sputacchiere che vede ovunque, dei negri che le paiono ‘orribili’ (‘Vorrei avere qualche informazione sugli standard di bellezza della loro razza’), dei bagni (‘il Giappone è indietro di tre secoli’), degli spazi enormi, del rumore ovunque. Il comportamento delle persone, poi. Quando Morning Glory vede nel cortile dell’albergo un uomo e una donna che si baciano, ‘il mio volto prese fuoco. Non è una vergogna in un luogo pubblico?’. Quando vede in corridoio un quadro con una donna nuda, Morning Glory lo copre con un suo haori (giacca tradizionale giapponese da indossare sopra il kimono).

     Ricordiamoci che Morning Glory ha diciotto anni ed è pronta a cambiare, a lasciarsi influenzare dalle piacevoli novità di questo mondo nuovo. Si fa un’amica ed è divertente osservare con lei le differenze tra le loro corporature, la loro carnagione, il colore dei loro capelli- quanto piacerebbe a Morning Glory avere i capelli rossi. E se li tingesse? E poi si innamora- un primo amore lieve come le ali di una farfalla, perché anche questa è una cosa così nuova- in Giappone una ragazza non potrebbe mai scegliere l’uomo da amare, la famiglia sceglie per lei. Non c’è seguito a questo amore e un poco ci spiace- da San Francisco la protagonista e lo zio si spostano a Chicago che non piace affatto a nessuno dei due, poi in casa di un poeta.

   


Il chiacchiericcio di Morning Glory non ha sosta. Ci diverte con la sua ingenuità, con le riflessioni argute, l’ironia, i paragoni, smentendo certi stereotipi come quello di Madame Butterfly, desiderosa di emancipazione, divisa tra la figura tradizionale della donna che le è stata inculcata in Giappone e quella moderna e indipendente che ha scoperto in America e che più le si addice.

    Un romanzo di formazione al femminile scritto da un uomo. È l’Oriente che incontra l’Occidente, e hanno molto da imparare, l’uno dall’altro.

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martedì 21 settembre 2021

Hiroko Oyamada, “La fabbrica” ed. 2021

                                              Voci da mondi diversi. Giappone

          distopia

Hiroko Oyamada, “La fabbrica”

Ed. Neri Pozza, trad. Gianluca Coci, pagg. 198, Euro 18,00

 

   La fabbrica. E’ la fabbrica il colossale vero protagonista del romanzo della giovane scrittrice giapponese Hiroko Oyamada che ha vinto il premio Shincho for New Writers. Se la fabbrica fosse solamente un grosso edificio industriale, sarebbe facile. Ma la fabbrica è tutto un mondo a sé, circondato dal nulla. Perfino il ponte lunghissimo che una protagonista percorre in un tentativo di esplorazione pare non arrivare da nessuna parte- è così lungo che non se ne vede la fine. La fabbrica è così smisurata che contiene tutto, uffici, ristoranti, negozi, bar, capannoni di produzione, scuole, linee di autobus. C’è anche una fauna strana e inquietante nella fabbrica- grossi uccelli neri simili a cormorani sempre fermi alla foce del fiume, nutrie dalle dimensioni enormi, lucertole delle lavatrici che si nutrono di rimasugli di vestiti e di polvere dei detersivi.

   Qualunque sia il mondo esterno a quello della fabbrica, sembra che ogni famiglia abbia qualcuno che lavora lì dentro: è considerato un onore lavorare in fabbrica. Ecco perché i tre protagonisti del romanzo in definitiva accettano volentieri il lavoro che gli viene offerto.


   Yoshiko aveva già cambiato cinque lavori. Quando le viene offerto un contratto a termine nella sezione ‘Servizi di Stampa’ alla Fabbrica, lei accetta anche se non è quello per cui aveva fatto domanda. Il suo lavoro sarà inserire documenti da distruggere nelle macchine trita-documenti per sette ore e mezzo ogni giorno dal lunedì al venerdì. Un’occupazione squallida, ripetitiva, in mezzo al rumore e alla polvere della carta. Che cosa sono poi quei documenti per cui si è impegnata alla massima segretezza? Non lo sa nessuno. Ma si può rifiutare un posto alla fabbrica?

   È lo stesso motivo per cui anche suo fratello, appena licenziato, ha accettato un lavoro a termine in fabbrica. Ha competenze informatiche ma si trova a fare il correttore di bozze. Potrebbe essere un’occupazione con una sua dignità, ma così com’è è assurdo. Nessuno guarda quelle bozze corrette, a volte passano da un altro correttore e poi ritornano indietro uguali a prima. Ushiyama si addormenta sempre più spesso durante le ore al lavoro.

   Il briologo Yoshio era ricercatore all’università, è stato il suo professore a segnalarlo alla fabbrica come esperto di muschi. Si trova a dirigere l’ufficio ‘sviluppo tetti verdi’. Lui non sa nulla di tetti verdi e non capisce perché non si siano rivolti alle ditte specializzate nel settore.


     Giorno dopo giorno, anno dopo anno, i tre personaggi ripetono gli stessi gesti, fanno sempre le stesse cose. Si può calcolare un tempo non scandito dalla diversità? Quando Yoshiko incontra Yoshio, verso la fine, devono essere passati quindici anni da quando sono arrivati e l’aspetto fisico di Yoshio è quello di un uomo di mezza età. I personaggi sono obbligati a guardarsi indietro e a chiedersi che cosa abbiano concluso nella loro vita. Niente.

     È un libro inquietante con un che di kafkiano, grigio come la fabbrica che regola i giorni dei tre personaggi, sottilmente misterioso con l’insinuazione di lavori senza una finalità e senza fine, con l’alienazione dei personaggi che non hanno una vita propria al di fuori della fabbrica, con la totale assenza di notizie che filtrano dall’esterno rinchiudendo i protagonisti nel perimetro della fabbrica, con quegli animali che paiono mutanti e minacciosi. E’ forse una metafora per la perdita della dimensione umana del nostro mondo? per il lavoro ossessivo fine a se stesso?

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sabato 18 settembre 2021

Pajtim Statovci, “Gli invisibili” ed. 2021

                                                                       vento del Nord

            guerra dei Balcani
          love story

Pajtim Statovci, “Gli invisibili”

Ed. Sellerio, trad. Nicola Rainò, pagg. 220, Euro 16,00

 

   Lui si innamora di lui al primo sguardo. Iniziano a parlare in un caffè all’aperto di Pristina, in Kosovo. Lui frequenta la facoltà di lettere, l’altro lui quella di medicina. Lui è albanese, si chiama Arsim. L’altro lui si chiama Miloš ed è serbo. Siamo a metà degli anni ‘90, che speranza di felicità può avere una coppia gay in una cultura che considera le unioni tra omosessuali come una vergogna, una colpa, un’onta che ricade su tutta la famiglia? Per inciso- era molto diverso da noi?

  

   Le voci narranti sono quelle dei due protagonisti, scorrono su due diversi piani temporali- è il 2000 nelle parti in cui è la voce di Miloš che ascoltiamo, mentre torniamo indietro all’incontro, nel 1995, nel racconto di Arsim finché il tempo si sopravanza ad un ‘dopo’ nel 2004. Il contrasto tra queste due voci non potrebbe essere maggiore. La prima, di Miloš, rivela già il dramma della sua vita, in qualche maniera conseguenza del loro legame. È la voce di un uomo che non è più in sé, che è passato attraverso l’orrore della guerra, che ha visto la morte intorno a sé, che ha dato lui stesso la morte- lui, un medico che avrebbe dovuto salvare le vite e non porvi fine. Ha un tono concitato e allucinato, da chi vive in un incubo e non ha più contatti con la realtà. In un breve referto medico che leggeremo più avanti, datato dicembre 1999, si dice di lui che ‘parla a fatica, capisce…condizioni generali precarie. Eccezionalmente magro…Incubi costanti, prescritti sedativi.’


     La voce di Arsim è pacata, alterna momenti di ricordi quasi idilliaci ad altri di rabbia, verso gli altri e verso se stesso. Perché Arsim è sposato e, quando conosce Miloš, sua moglie aspetta un bambino. Ne arriveranno altri due di bambini, e intanto tutta la famiglia avrà dovuto lasciare il Kosovo per una grande città di cui non ci viene detto il nome. Arsim sa di comportarsi male come marito e come padre, eppure non riesce a frenare l’irritazione verso quei legami che gli impediscono di essere se stesso. E vive di ricordi di Miloš.

    Arsim sarà espulso dal paese in cui vive, la moglie non vorrà più saperne di lui, mentre Miloš finirà internato in un nosocomio dove i pazienti vivono come bestie. C’è ancora una parte finale in cui la voce di Miloš quasi non si sente più, è ridotto al silenzio, e la solitudine di Arsim è il coronamento di vite sbagliate. È una storia tragica dentro un’altra tragedia della Storia, di una guerra interiore a fronte di una guerra che coinvolge albanesi e serbi, di quello che accade quando si è obbligati a negare se stessi, a nascondere la propria natura da se stessi e dagli altri.


    È un romanzo molto triste, con un personaggio femminile che ammiriamo con compassione per la sua generosità e la sua capacità di amare pur nella rinuncia e nella condanna, scritto con un linguaggio mai volgare, mai troppo esplicito. Con “Gli invisibili”, Pajtim Statovici (nato in Kosovo ed emigrato con i genitori in Finlandia all’età di due anni) ha vinto il prestigioso Finlandia Prize.

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giovedì 16 settembre 2021

Ruth Ware, “Il giro di chiave” ed. 2021

                            Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

cento sfumature di giallo

Ruth Ware, “Il giro di chiave”

Ed. Corbaccio, trad. V. Galassi, pagg. 348, Euro 16,90

 

   Ruth Ware si conferma come maestra del suspense con il nuovo romanzo “Il giro di chiave” ( di lei abbiamo già letto “La donna della cabina n.10” e “L’eredità di Mrs. Westaway”). L’allusione del titolo è chiarissima e la trama scorre sulla falsariga de “Il giro di vite” di Henry James, rivisitandolo e adattandolo ai nostri tempi tecnologici.

     Rowan scrive ad un famoso avvocato dal carcere. Accusata di aver ucciso una bambina, Rowan proclama la sua innocenza e supplica l’avvocato di assumere la sua difesa. E gli racconta i fatti. Gli scrive di aver accettato il posto di governante presso gli Elincourt perché era stanca del suo lavoro in un asilo nido, si sentiva sola perché la sua compagna di alloggio era via per un certo tempo, e poi il compenso offerto era troppo allettante per lasciarselo sfuggire. In più Heatherbrae, la grande casa ristrutturata dai suoi datori di lavoro, immersa nel selvaggio paesaggio scozzese, era un incanto.


    Ma non è tutto oro quel che luccica. Rowan si trova a respingere le avances di Mr. Elincourt la sera stessa del suo arrivo e poi, contro ogni aspettativa, a dover restare subito sola con tre bambine (una è molto piccola e una quarta è ancora in collegio, rientrerà a metà settimana). Le uniche altre presenze sono una signora che viene al mattino a pulire la casa e il factotum Jack, uomo affascinante e un poco inquietante. C’è un bambino in più rispetto al romanzo di James, ma gli altri personaggi, rimaneggiati, ci sono tutti. Ci sono poi le dicerie allarmanti su una bambina morta avvelenata in quella casa, di un padre impazzito, di governanti che hanno resistito pochissimo a Heatherbrae, messe in fuga dai fantasmi.

 Infine c’è il dettaglio che dapprima pare entusiasmante e dopo si rivela diabolico: tutta la casa è cablata, c’è una app che fa funzionare tutto, si possono dare ordini vocali per aggiungere un articolo alla spesa da fare, si può vedere e sentire, da un piano all’altro, che cosa stiano facendo le bambine. MA non c’è controllo manuale su niente, la porta non si apre, le luci non si accendono né si spengono se non si tocca il punto giusto su un pannello. E a chi piacerebbe sapere che una telecamera permette a qualcun altro di controllarti di continuo, anche nella tua stanza? O nella stanza da bagno? Rowan copre con un calzino la telecamera della sua stanza da letto (dettaglio che sarà poi a suo svantaggio).


    Le bambine non sono così perfette come sembravano, sembra ce l’abbiano proprio con Rowan- inizia un boicottaggio sistematico contro di lei, soprattutto da parte della più grande, di otto anni. Già sottoposta allo stress di gestire una situazione difficile con le tre bambine, sentendosi in colpa per contravvenire alle tante regole stabilite dalla madre in un fascicolo grande quanto un libro, in ansia per i pericoli in agguato nel bosco, nello stagno, nel giardino dei veleni di cui non conosceva l’esistenza, Rowan non riesce a dormire. Una notte dopo l’altra qualcosa succede: risuona la musica ad alto volume in tutta la casa, porte chiuse vengono trovate aperte o il contrario, passi pesanti risuonano sopra la testa di Rowan- c’è forse una soffitta? E poi la sinistra testa di bambola di porcellana che rotola sul pavimento e il fiore blu (velenoso?) trovato in cucina. Un incubo che non ha fine. O meglio, ha una fine con la morte della bambina di cui è accusata Rowan.

    Finale sorprendente e sconvolgente in un romanzo che non è una semplice storia di fantasmi ma una dolorosa riflessione sulla famiglia e sull’infanzia, sulla presenza o assenza dei genitori e sugli intrecci di gelosia e amore tra sorelle.

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lunedì 13 settembre 2021

Andri Snaer Magnason, “Il tempo e l’acqua” ed. 2021

                                                          Voci da mondi diversi. Islanda

            warning novel

Andri Snaer Magnason, “Il tempo e l’acqua”

Ed. Iperborea, trad. S. Cosimini, pagg. 333, Euro 19,50

 

     È un libro singolare, “Il tempo e l’acqua” dello scrittore islandese Andri Magnason. Non è un romanzo, non è un saggio, non è una storia di famiglia, ma ha un poco di tutti questi generi ed è la caratteristica che lo rende così piacevole. Perché è così: se fosse soltanto un grido di allarme, una raccolta di dati per provare la direzione in cui stiamo andando, condannando alla rovina le generazioni future con la scomparsa del mondo così come lo conosciamo, accantoneremmo il libro con un’alzata di spalle e ci dedicheremmo ad una lettura più leggera. E invece Magnason ha fatto la scelta giusta, le storie della sua famiglia e quella di altri incontri significativi- come quello con il Dalai Lama- sono inquadrate nella misura del Tempo, un’entità così soggettiva nonostante tutto, così difficile da misurare.


    La riflessione sul tempo inizia da un angolo di visuale ristretto, quello della vita dello scrittore stesso. Nel corso degli anni Magnason è stato testimone del crollo di due grandi sistemi, del comunismo  e delle banche nel 2008, la più grande bancarotta nella storia del capitalismo. Quello che ci minaccia adesso è un collasso ben più grande- quello del sistema Terra. L’errore madornale è stato, per tutto il XX secolo, dare per scontato che la natura fosse un giacimento inesauribile di materie prime a basso costo e pensare che l’atmosfera potesse assorbire emissioni, il mare inghiottire rifiuti, il suolo produrre all’infinito. Ci accorgiamo ora che non è così. E tuttavia il Tempo, che è trascorso finora con un ritmo tranquillo, ha avuto un’accelerazione nel XXI secolo- vale la pena di guardarsi indietro, di fermarsi a riflettere sul valore prezioso che acquistano i ricordi e le testimonianze del passato. Sembra incredibile, i filmati del 1956, la luna di miele dei nonni nel rifugio sul ghiacciaio, le loro foto, si collocano in un tempo perduto e lontano come quello a cui appartiene il vecchio manoscritto che guardiamo con rispetto in una biblioteca. E il desiderio di tramandare il vissuto di una generazione che ha fatto tantissimo partendo da zero nasce dalla necessità di salvaguardare le loro esistenze.


    Andri Magnason vive in un paese in cui i cambiamenti sono più evidenti, più tangibili che altrove. Perché una cosa è osservare che le piogge fuori stagione sono diventate più abbondanti e più violente, un’altra è constatare che un ghiacciaio si è talmente ritirato da rendere impossibile avvicinarlo perché la zona antistante è un terreno di fango. E a partire dal secolo XXI i ghiacciai islandesi si sono ritirati più che nei cento anni precedenti. Viene da piangere: una volta i ghiacciai erano simbolo di qualcosa di grande e di eterno, come il mare e le montagne. Adesso dobbiamo constatare che quello che pensavamo fosse un immortale gigante bianco è effimero come gli esseri umani. E dobbiamo affrontare le conseguenze di tutto questo, l’innalzamento del livello delle acque, la scomparsa di interi tratti di coste, di città, di patrimoni dell’umanità.

    Anche la scomparsa delle specie animali- a cui solo i più attenti farebbero caso- viene evidenziata da Magnason intrecciando storie personali con quelle della fauna. Un suo cugino aveva avuto una passione per i coccodrilli sin da quando era un bambino ed era diventato uno strenuo difensore della specie. Come capacitarsi che ci sia stato un crollo del numero di esemplari del coccodrillo, che aveva una storia evolutiva di 200 milioni di anni? le cause sono intuibili, incluso il capriccio femminile per borse e calzature di pelle di coccodrillo.


   Magnason non è soltanto una Cassandra che prevede un futuro catastrofico. Tutt’altro. Si ferma anche a riflettere su che cosa abbia significato l’imprevista e totale battuta di arresto della pandemia- la salute di ogni individuo del pianeta è legata alla salute di ogni altro individuo del pianeta e ‘la salute di tutti dipende a sua volta dalla salute degli ecosistemi della Terra.’ Soprattutto apprezziamo che Magnason veda chiaramente che una marcia indietro è piuttosto difficile e sproni allora verso un’altra direzione- che ci sia uno sforzo individuale per rinunciare a qualcosa e che, nello stesso tempo, si dedichino sforzi e investimenti e ricerche per, ad esempio, impiegare sempre più energia solare, eolica e termica, per ridurre gli sprechi, per tutelare i boschi e ripristinare le zone umide e delle foreste pluviali, per ‘catturare’ CO2 e smaltirlo.

     Un libro da leggere, perché prendere coscienza di quello che sta accadendo è il dovere di ognuno. E non c’è modo più piacevole di farlo che leggere “Il tempo e l’acqua”.

Lo scrittore sarà presente al festival della letteratura di Mantova



domenica 12 settembre 2021

Tullio Avoledo, “Come navi nella notte” ed. 2021

                                                                     Casa Nostra. Qui Italia

      cento sfumature di giallo

Tullio Avoledo, “Come navi nella notte”

Ed. Marsilio, pagg. 447, Euro 19,00

 

     Un prologo di forte impatto, all’inizio del nuovo romanzo di Tullio Avoledo, “Come navi nella notte”. Un uomo, il protagonista e io narrante, sdraiato a terra. Il rombo delle fiamme di un incendio. Un negozio distrutto. La sirena dei pompieri. Cenere che cade come neve. L’uomo è in stato di shock ma ricorda il suo nome, Marco Ferrari. “E di colpo il ricordo degli ultimi giorni si riversa dentro di me con un ruggito.”

    Il racconto si riavvolge su se stesso e si sposta al tempo precedente, la stessa scena sarà ripetuta più avanti, uguale, e sarà il punto chiave del romanzo, prima che gli eventi si susseguano, sempre più allarmanti.

Marco Ferrari è un ex poliziotto che ha denunciato le violenze indebite delle forze dell’ordine durante una protesta (sembra di leggere la cronaca dei fatti avvenuti a Genova durante il G8) e ha dovuto cambiare vita. Si è trasferito a Friburgo e scrive romanzi polizieschi ambientati a Venezia, con un personaggio amato dal pubblico e che lui non sopporta più ma non può far morire, pena rottura del contratto con la sua casa editrice.


    E’ tornato in Italia per vendere la casa dei suoi genitori sul litorale friulano ed è lì, tra ricordi di un passato ormai del tutto scollato dal presente, che inizia ‘tutto’. Assiste ad una scena di difficile interpretazione- una persona anziana cammina sulla spiaggia con un cane. Poi l’uomo scompare e il cane è sulla sabbia, ferito ad una zampa da un’arma da fuoco. Un cane splendido peraltro e poco comune, come sottolinea la veterinaria da cui Marco lo porta a medicare, un borzoi- in un tempo lontano solo gli zar in Russia potevano tenere un borzoi. Infatti verrà fuori che il vecchio scomparso è (o era?) un sovranista russo. Che cosa ci faceva a Sabbie Dorate?


Da qui prende l’avvio una storia che vede apparire sulla scena bande di giovani vacanzieri (e casinisti) per le feste di Pentecoste, neonazisti che parteciperanno ad una versione tipo ‘ballo delle debuttanti’ a Trieste, in un palazzo blindato per l’occasione, mentre Marco Ferrari cerca di capire che cosa mai cercasse chi ha rapito il vecchio russo (il borzoi con il pesante collare con gemme Svarowski ha il suo ruolo) e non riesce a sottrarsi al fascino della veterinaria. La bella Miriam dai capelli rossi e dal passato ricco di esperienze potrebbe essere la rivale della compagna tedesca di Marco? Hanno qualcosa in comune le due donne, la giornalista tedesca che sfida il pericolo per coprire quanto succede al Muro di Orbàn e l’ebrea italiana che è disposta a infiltrarsi tra il personale di servizio al gran ballo di Trieste.

Hanno coraggio e sprezzo per il pericolo, hanno amore per la verità. Rischiano grosso entrambe, di entrambe si perderanno le tracce, ad un certo punto. Chi ha la peggio, però, è l’amico antiquario di Miriam a cui un giovane dall’aspetto emaciato ha proposto di comperare il diario di un gerarca nazista, la testimonianza che ribalterebbe la Storia della seconda guerra mondiale.

   Una trama interessante con una bella galleria di personaggi (incluso un intrigante ispettore cinese in una Italia dove i cinesi occupano sempre più ruoli), un bel protagonista e una bella ambientazione ai nostri giorni dopo aver vissuto quella che viene chiamata la Situazione (la pandemia, naturalmente, descritta con un filo di ironia), una bella scrittura (la ripetizione dell’aggettivo non è casuale) che dedica il giusto spazio a introspezione, descrizioni, dialoghi, paragoni tra il Bel Paese e la Germania. E infine anche una bella automobile, una superlativa Tesla.

    Un romanzo realista con un tocco di ucronia, da leggere.

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Lo scrittore sarà presente al Festival della Letteratura di Mantova