venerdì 27 maggio 2022

Pearl. S. Buck, “La madre” ed. 1937

                                                        Voci da mondi diversi. Cina

      premio Nobel

Pearl. S. Buck, “La madre”   

Ed. Mondadori, trad. Andrea Damiano, pagg. 253, 10 lire la mia vecchia copia

 

      Un premio Nobel quasi dimenticato. Eppure Pearl S. Buck (1892-1973), la scrittrice americana che passò gli anni della giovinezza in Cina dove i suoi genitori erano missionari, ha ancora molto da dirci- vale la pena riprendere in mano i suoi libri.

     Nessun personaggio ha un nome, nel romanzo “La madre”, pubblicato in Italia nel 1937. C’è la madre, prima di tutti, protagonista assoluta. Poi c’è l’uomo, il marito più giovane della madre, che scompare presto dalla scena. Si fa fare un bell’abito azzurro per andare in città e non si fa più vedere. C’è la vecchia, che è la suocera. Il figlio maggiore che deve crescere in fretta per aiutare nei lavori dei campi in sostituzione del padre. La figlia, povera bambina con un’infezione agli occhi, mai curata finché è troppo tardi e diventa cieca. Il figlio minore, il prediletto della madre, che assomiglia al padre (anche come carattere, purtroppo, con poca voglia di lavorare). E poi ci sono il cugino (sempre pronto ad aiutare), la moglie del cugino che sforna un figlio all’anno, la donna maligna che sparla, il fattore di cui la madre si invaghisce…Il fatto di non avere un nome fa sì che questi personaggi diventino emblematici.


     Se non sapessimo che il romanzo è ambientato in Cina, potremmo anche pensare che le vicende si svolgano in un qualunque paese povero, a una qualunque latitudine, tanto sono universali i sentimenti dei personaggi. Soltanto alcune usanze peculiari ci riportano alla Cina, ma se sostituiamo la divinità pagana a cui vengono rivolte le preghiere con il sommo Essere della nostra chiesa, osserviamo come siano uguali le reazioni umane alle difficoltà e ai dolori.

     Quella della madre è una vita dura. Dapprima, finché il marito è presente, è appagata dalle gravidanze che si succedono come le stagioni, come la semina autunnale che darà frutti a primavera. Quando il marito scompare dalla scena, lei ne sente acutamente la mancanza. È vero che litigavano, ma il linguaggio dei loro corpi faceva la pace. La sua assenza ha un doppio risvolto negativo- le giornate sono fatte di lavoro, lavoro, lavoro, le notti sono solitarie e il suo corpo rimane sterile. Alla madre sembra di aver perso valore e significato, anche se è ancora giovane e bella. E poi ci sono le menzogne che deve inventare, per mettere a tacere le malelingue del paese.


     Tutto quello che succede poi è piuttosto comune- la tentazione, quello che lei considererà sempre un peccato per cui deve essere punita (la tragedia che coinvolgerà due dei suoi figli è forse la punizione che si abbatte su di loro-  ma è per colpa sua?), il matrimonio del figlio maggiore, una nuora che la estromette…


Anche un accenno politico si affaccia nella trama- il figlio minore si associa ad un gruppo di comunisti. Ma chi sono i comunisti? Questa è una parola nuova, nessuno ne sa niente. Sono i nuovi ladri, dice qualcuno.

     Uno stile piano e lineare, il ritratto di una donna comune con la forza straordinaria che è propria delle donne, con i difetti che la rendono così umana e vicina a noi, in un libro che resiste nel tempo.





    

    

 

lunedì 23 maggio 2022

Natasha Solomons, “Io, Monna Lisa” ed. 2022

                   Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

      painting fiction

Natasha Solomons, “Io, Monna Lisa”

Ed. Neri Pozza, trad. Laura Prandino, pagg. 342, Euro 18,00

 Le manca solo la parola. Sembra che mi stia guardando. No, sta guardando me e non te.

    Lo abbiamo sentito dire, lo abbiamo detto noi stessi, davanti al quadro della Gioconda di Leonardo da Vinci, al Louvre. È il volto di donna più famoso al mondo. Non c’è tour turistico a Parigi che non comprenda una sosta davanti a lei. Davanti a quel viso forse non bellissimo ma di grande fascino, gli occhi allungati con lo sguardo enigmatico, la bocca che accenna un sorriso che dà l’ impressione di una pacata tristezza più che di gioia. I capelli, che si intravvedono arricciati, sono nascosti da un velo nero attraverso le cui trasparenze si vede il paesaggio. Indossa abiti castigati e scuri che fanno risaltare il candore della pelle. Sono dettagli che sentiremo ripetere parecchie volte, quando lei racconta la sua storia.

   


Lei, perché è lei a parlare, finalmente la sentiamo. Lei, che Leonardo da Vinci ha dipinto 500 anni fa, e la cifra ci dà una vertigine. Lei, che conosciamo come ‘la Gioconda’ dal nome del marito della donna che ha posato per il quadro, Francesco del Giocondo, oppure come Monna Lisa, dal suo stesso nome. Lisa. Monna, diminutivo di ‘madonna’, mea domina- che bell’appellativo per rivolgersi ad una donna.

Caliamoci nella finzione ed ascoltiamo la sua storia e quella di Leonardo e quella di Firenze e quella del Papato e quella della Francia nella prima metà del ‘500. Seguiamo, nel suo racconto, la creazione del quadro, le pennellate aggiunte, le incertezze di Leonardo, il confronto della Lisa sulla tela e la Lisa che posa come modella. Facciamo la conoscenza del giovanetto prediletto da Leonardo (quel Giangiacomo Caprotto soprannominato Salaì- diavoletto- che fu il modello per molti quadri del maestro) e degli altri apprendisti. Entra in scena anche Michelangelo, il grande rivale di Leonardo, così rozzo e volgare, diverso dalla sua bellezza signorile. Assistiamo alla pittura di un altro quadro della cui bellezza è rimasta testimonianza- la Leda con il cigno. E poi le contese, le lotte politiche, il soggiorno-esilio di Leonardo in Francia.


    Nel suo racconto di una lunga vita- la sua, perché l’arte è immortale se protetta e ben conservata- Monna Lisa arriva al ‘900, dopo aver subito furti ed essere stata ritrovata, dopo aver conosciuto grandi sovrani francesi e grandi pittori come Picasso. E nel secolo scorso, lei che è sopravvissuta a traversie che hanno visto la fine del quadro di Leda, deve nascondersi per fuggire dalle requisizioni dei nazisti.

    Ci piace la voce di Monna Lisa. Ci dimentichiamo che è un quadro a parlare (Leonardo sente la sua voce, così come la sentono Michelangelo e Picasso), perché, se dobbiamo cercare di penetrare nel suo sguardo enigmatico, dobbiamo immedesimarci in lei- nella sua solitudine che la fa implorare a Leonardo di crearle una compagna (ed ecco Leda che diventa sua amica), nella sua gelosia per Salaì, nel suo constatare come la vera Lisa invecchi e sfiorisca mentre lei rimane sempre la stessa, nell’accettare il suo sguardo sul mondo (uno sguardo che può essere anche molto privato, come quando viene appesa nella sala da bagno del sovrano di Francia), nella sua comprensione per Leonardo e nel suo amore per lui. Amore ricambiato- dopo tutto non sarebbe stato questo il quadro che tutti, sempre, avrebbero associato al suo nome? Quando Leonardo si ammala, quando muore, Monna Lisa lo piange. È rimasta vedova e a noi pare normale, lo accettiamo.

Giangiacomo Caprotto

    Il romanzo di Natsha Solomons è nella migliore tradizione della painting fiction, dei romanzi che parlano di quadri e che dipingono quadri con le parole. Non è soltanto il Rinascimento a rivivere con la sua gloriosa esplosione di geni e di opere d’arte, non sono soltanto sovrani e papi e altre figure storiche a prendere vita nelle sue pagine, ma sono soprattutto i quadri di Leonardo con i loro dettagli, con i fili d’erba che siamo forzati ad osservare tra le dita dei piedi di Leda, e le fragoline, e le uova che si dischiudono e i dolci colli alle spalle di Lisa e i corsi d’acqua che scorrono come le onde dei capelli e i cavalli della battaglia di Anghieri…

    Un libro che parla della bellezza- a thing of beauty is a joy forever, scriveva Keats


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giovedì 19 maggio 2022

Mathijs Deen, “La nave faro” ed. 2022

                                                      vento del Nord


Mathijs Deen, “La nave faro”

Ed. Iperborea, trad. Elisabetta Svaluto Moreolo, pagg. 144, Euro 15,00

 

     Abbiamo mai pensato alla solitudine dei guardiani di un faro? O a quella dei marinai imbarcati su una nave faro, all’ancora nei mari dove sarebbe impossibile costruire un vero faro? Il piccolo grande libro dello scrittore olandese Mathijs Deen (di lui abbiamo già gustato “Per antiche strade”) ci fa salire sulla nave faro Texel insieme al suo equipaggio (e al capretto di cui parleremo), ci fa sperimentare l’isolamento, la claustrofobia in un luogo aperto, la nostalgia della terraferma, la frustrazione dell’essere fermi su una nave il cui motivo di essere dovrebbe essere quello di spostarsi, il conto dei giorni prima che arrivi la nave che porterà i marinai del nuovo turno.

    I protagonisti: il cuoco Lammert, il marinaio Snoek, il capretto. Intorno a loro una manciata di marinai e il comandante.


    Prima di tornare a bordo, alla fine dei giorni a terra, Lammert si fa dare un capretto da una contadina- ha in mente di fare uno stufato secondo una ricetta indonesiana. Sono piccoli dettagli che acquistano un significato proseguendo la lettura, nei flashback della vita di Lammert, cresciuto nell’Indonesia olandese conquistata poi dai giapponesi da cui sua madre era stata fatta prigioniera (lui ne ricorda le urla- che cosa le stavano facendo?). Allora avevano un cuoco indonesiano da cui, anche se bambino, Lammert aveva imparato delle ricette. Era stato in Indonesia che Lammert si era preso la malaria per la prima volta.

I giorni in cui Lammert avrà un attacco di malaria a bordo saranno il punto di volta della narrazione. Siamo poi sicuri che il suo motivo per portare il capretto a bordo fosse veramente quello di metterlo in pentola? Dare il nome ad un animale vuol dire considerarlo un amico, meglio chiamarlo ‘stufato’ per non pensare ad altro.


    Snoek è figlio di insegnanti, che cosa ci fa lui sul mare? Scrive sempre, ha l’animo del poeta. Sono sue le riflessioni sul controsenso di trovarsi su una nave, che dovrebbe essere fatta per salpare e per entrare in un porto dopo un lungo viaggio e che invece non salpa mai e non arriva da nessuna parte. Snoek si affeziona al capretto, è lui che escogita delle soluzioni perché l’animale non caschi in mare e non si faccia male.

     L’attacco di febbre che mette fuori gioco il cuoco e la nebbia che cala sul mare, con la sirena che ulula il suo gemito senza sosta- è questo il momento chiave, quello in cui una storia che ha i suoi risvolti buffi diventa tutto d’un tratto tragica. Non ce lo aspettavamo, forse? Non c’era un crescendo di segnali, un turbamento del solito ordine? Perfino la minaccia della grossa nave che sfiora la collisione con la nave faro nella nebbia è un anticipo del dramma finale. Così come il timore di non poter ricevere il cambio alla solita data.


    Tuttavia è come se il faro avesse portato un’illuminazione al marinaio Snoek. In questo viaggio immobile qualcosa cambia in lui, cambia la sua comprensione del loro compito. “Noi siamo la luce”, arriva a pensare. Non è vero che loro non sono veri marinai. ‘Noi viviamo in mare, loro lo attraversano soltanto per arrivare a un porto, a un posto dove il mare non c’è più. Per loro il mare è un intervallo, per noi la destinazione’.

   E c’è ancora un altro significato in questo piccolo grande libro. La solitudine e l’incomprensione della nave faro diventa quella di tutti noi. Come riflette a voce alta un marinaio, pensando alla sorte di Snoek, ‘che cosa sappiamo degli altri? Che cosa sappiamo davvero di un’altra persona?’

    Bellissimo.

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martedì 17 maggio 2022

Ian Manook, “L’uccello blu di Erzerum” ed. 2022

                                                    Voci da mondi diversi. Francia

           genocidio armeno

Ian Manook, “L’uccello blu di Erzerum”

Ed. Fazi, trad. Maurizio Ferrara, pagg. 500, Euro 19,00

 

    C’era un merlo con le piume così nere da sembrare blu, nel giardino della bella casa di Araxie e Heiganouch ad Erzerum, nell’Armenia turca. Quando le due sorelline verranno vendute per diventare schiave della giovane musulmana Assina, un piccolo uccello blu sarà tatuato nell’incavo tra pollice e indice delle loro manine. L’uccello blu diventerà l’alato filo conduttore della trama del romanzo di Ian Manook, simbolo della nostalgia per un passato e un luogo che non esistono più e, nello stesso tempo e in maniera alquanto imprevista, un segno di riconoscimento per le due bambine travolte dal l’uragano della Storia.

    Il cognome originale della famiglia dello scrittore doveva essere Manoukian, come quello di uno dei protagonisti, e quella che lui ci narra è in parte la storia di sua nonna dentro la Storia del popolo armeno.

    Era il 1915 quando il governo dei Giovani Turchi, avvallato da personaggi politici come Talaat, Enver, Mustafa Kemal, organizzò la prima pulizia etnica del secolo. A Costantinopoli il 24 aprile i notabili armeni furono arrestati e massacrati e ai primi di maggio fu dato l’ordine della deportazione di tutti gli armeni. I beni della popolazione armena furono confiscati, gli uomini vennero per lo più uccisi subito, le donne, i vecchi e i bambini furono avviati verso il deserto di Deir-ez-Zor, senza cibo, senza acqua, a piedi. I più morirono durante la marcia, e forse fu meglio così. L’efferatezza di turchi e curdi fu inimmaginabile.


     Tra i deportati le due sorelline di dieci e sei anni, Araxie e Heiganouch. I loro genitori erano stati uccisi, avrebbero perso presto anche i parenti della famiglia dello zio, la loro fortuna fu l’essere prese sotto l’ala di una vecchia piena di risorse che riuscì a venderle come schiave per la giovanissima sposa Assina. Sembrava una crudeltà e invece fu la loro salvezza, soprattutto per la piccola Heiganouch che era rimasta cieca dopo l’assalto dei curdi che le avevano ucciso la madre sotto gli occhi.

    Quella che leggiamo è una storia ricca di avventure che ci porteranno a Smirne, ad Aleppo, a Beirut e poi in Francia, in Armenia, a Berlino, a Mosca, in Siberia, sempre sulle orme delle bambine che diventano donne e che sono  tre, perché Assina  è diventata come una sorella per loro.

 Leggeremo dell’incendio di Smirne, della fine della guerra e poi dei fermenti che porteranno alla seconda guerra mondiale (appare anche Hitler come figura marginale dapprima, ricoverato in ospedale in seguito alla ferita riportata al fronte), di azioni di spionaggio e controspionaggio russo, delle prime lotte sindacali in Francia, dell’ombra che si addensa, presagio di un altro genocidio, perfezionato con accuratezza tedesca. Del dolore della diaspora, infine o prima di tutto. Del vivere in un paese straniero, del parlare in un’altra lingua e del cercare, però, di mantenere vive le tradizioni e la cultura a cui si appartiene.

Erzurum

     C’è la guerra e c’è il tempo di pace nel romanzo di Manook (è una bella sorpresa leggere questo libro dopo la trilogia thriller di Yaruldegger), ci sono azioni terribilmente crudeli, vendetta e odio, ma c’è anche l’amore, l’affetto, la compassione, la solidarietà, la generosità. C’è un passo più lento quando la Storia sembra tirare il fiato per prepararsi a nuovi tumulti, c’è il colore del folklore, il grigio della polvere e il rosso del sangue, e c’è la poesia, infine. Quella dei versi di Heiganouch e dei poeti russi che ama, della Cvetaeva e della Akhmatova, di Lermontov e di Majakovskij- La vita e io siamo pari. Se muoio, non incolpate nessuno…Voi che restate siate felici.

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sabato 14 maggio 2022

Grete Bøe, “Mayday” ed. 2022

                                                                     vento del Nord

           thriller politico

Grete Bøe, “Mayday”

Ed. Longanesi, trad. , pagg. 360, Euro 19,90

 

    L’inizio del romanzo di Grethe Bøe è folgorante. E raggelante, anche letteralmente. Una giovane donna giace nella tundra ghiacciata, forse è ferita e comunque incapace di alzarsi in piedi, e una gigantesca aquila reale volteggia su di lei, cala sul suo corpo, la morde con il becco tagliente. Poi il racconto torna indietro e riprende dall’inizio.

     Bødo. Norvegia. Ylva Nordhal è una delle pochissime donne pilota di aerei da caccia F16. Sarà accompagnata da un copilota americano, John Evans, in una esercitazione orchestrata dalla NATO. Si tratta di una sorta di esame per Ylva, una donna molto sicura delle sue capacità ma in soggezione davanti al burbero americano che è molto più vecchio di lei e ha anche molta più esperienza. Di lui si sa che ha combattuto in tutte le guerre americane degli ultimi anni, che è stato fatto prigioniero in Libia, che non è crollato sotto le torture. È crollato dopo. Il che ha significato la fine del suo matrimonio.


   Da sempre i rapporti tra Russia e Norvegia sono tesi, il confine tra i due stati (lungo 196 km.) è sorvegliato, il filo spinato lo costeggia e la terra di nessuno è un campo minato. La Russia teme quello che pare un assedio da parte delle forze della NATO, è pronta a reagire alla prima mossa sospetta, una terza guerra mondiale è una minaccia continua. E durante il tranquillo volo di Ylva succede un incidente. Casuale o provocato? Un aereo da caccia russo tallona un elicottero di rifornimento norvegese, a Ylva viene ordinato di scortare l’elicottero e a questo punto sembra che il caccia russo ce l’abbia con lei. Un’ala dell’aereo russo sfiora la parte inferiore dell’ala dell’aereo di Ylva (in questo momento è Evans ad aver preso il comando), l’avionica dell’aereo va in tilt, è impossibile guidarlo, impossibile sapere dove si sta dirigendo, impossibile sapere che ha sconfinato…


     Questo è solo il preambolo di una trama gelida e serratissima in cui i due piloti (uno di loro, Evans, è ferito) si trovano a dover fuggire per cercare di raggiungere la Norvegia, inseguiti dagli specnaz (le forze speciali russe) e ad un certo punto anche dai Titani (forze militari private americane). Gli uomini sono i nemici più pericolosi, ma la natura non scherza. Anche se Ylva, la cui madre era sami, si trova a suo agio nella distesa di neve e ghiaccio, è innegabile che le temperature che arrivano a 20 sotto zero, le tempeste di neve, perfino i lupi che fiutano il sangue, siano ostili ai due piloti. E l’americano supponente, che aveva guardato con lieve disprezzo quella che sembrava una ragazzetta, deve ricredersi. I ruoli vengono scambiati. Ylva è la più forte, e non solo perché Evans lotta contro la cancrena, il dolore, la febbre. Ylva è la più forte perché ha la sapienza dei sami, è capace di scavare una truna per ripararsi, sa quello che deve fare per scongiurare un congelamento, ricorre a cantare un joik per calmare Evans, quella nenia sami che la faceva addormentare da piccola.


     Restiamo con il fiato sospeso fino all’ultimo, ancora di più quando sappiamo che da entrambe le parti si vuole che Ylva scompaia dalla circolazione e che Ylva aveva avuto ragione quando, era solo una bambina, diceva che aveva visto un’ombra uscire di casa, la notte che suo padre (pure lui un pilota) era morto. Embolia cerebrale. Avevano detto. Si salveranno i due piloti? Qualcuno schiaccerà il pulsante che farà scoppiare la terza guerra mondiale?

     L’amarezza non è del lettore, perché questo è un ottimo thriller politico. È l’amarezza del cittadino del mondo nel rendersi conto- d’accordo, questo è solo un romanzo, ma i libri servono anche per porre domande e seminare dubbi- di quanto siamo manovrati, di quanto le guerre non siano casuali, di quante persone senza scrupoli siano pronte a scatenare conflitti per proprio interesse. E allora quel titolo, “Mayday”, non è la richiesta di salvataggio lanciata solo dall’F16, ma anche la nostra.

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mercoledì 11 maggio 2022

Rosa Teruzzi, “Gli amanti di Brera” ed. 2022

                                                                      Casa Nostra. Qui Italia

                                                   cento sfumature di giallo


Rosa Teruzzi, “Gli amanti di Brera”

Ed. Sonzogno, pagg. 153, Euro 15,00

 

     Certo che è una coppia insolita, quella che si è data appuntamento all’orto botanico di Brera. Lui è un ragazzino biondo, avrà diciassette anni. Lei ne ha almeno quaranta, di anni. Una bella donna, però, con una massa di ricci corvini e la bocca rossa come il suo abito. Sapremo dopo che lei si chiama Viviana, che ha accumulato storie d’amore, che ha ricevuto messaggi di minaccia, che il suo ultimo uomo era stato Furio, quel Furio che fa il cuoco e che, se la fioraia Libera non lo avesse scoraggiato, mai avrebbe corteggiato Viviana. E comunque sarà proprio Furio ad incaricare le Miss Marple del Giambellino, le investigatrici della mutua (è Libera che si definisce così), a cercare la donna, dopo che ne è stata denunciata la scomparsa insieme al ragazzo. A Furio sembra proprio impossibile che lei si sia infatuata di un ragazzo così giovane e teme sia rimasta vittima di uno stalker.


    Settimo romanzo della serie che ha per protagoniste Libera (sulla quarantina, rimasta vedova con una bimba di 4 anni, capelli rossi e una vaga somiglianza all’attrice Joanne Moore), sua madre Iole che a settant’anni suonati continua a praticare il libero amore e ad indossare capi stravaganti e vistosi, la figlia Vittoria che ha scelto di seguire le orme del padre entrando in polizia- tre donne diversissime che vivono nel casello sul Naviglio, e forse il diverso atteggiamento di Libera e Vittoria verso la vita è in certo qual modo una reazione alla sfacciata intraprendenza della matriarca Iole, così come il loro modo di relazionarsi con gli uomini. Perché Libera è perfino anacronistica nella sua ritrosia e pudicizia, nella sua paura di lasciarsi andare con Gabriele, il poliziotto di cui è innamorata da sempre, e Vittoria, be’ Vittoria non racconta niente di sé e dei suoi amori, proprio l’opposto di nonna Iole che sbandiera le sue conquiste.


    Ne “Gli amanti di Brera” ci sono due filoni, uno dei quali resterà in sospeso stuzzicando la nostra curiosità- quello del Gatto con gli Stivali, soprannome dato ad un imprendibile rapinatore che agisce con la maschera della favola, insieme a due complici travestiti da Fata Turchina e da Zorro, e che ‘forse’ è il padre di Libera (ah, il passato di Iole ancora più tumultuoso del presente!). L’altro filone che prende il sopravvento riguarda, appunto, “il fiore nero di Brera”, cioè la professoressa di inglese che è scomparsa con il ragazzo (la porno prof è l’altro suo soprannome, coniato apposta per attirare i lettori della stampa scandalistica). A inseguirli saranno Libera e la madre insieme alla giornalista Irene e scopriranno che ci sono altri sulle tracce della coppietta…


     Rosa Teruzzi ha trovato la formula giusta per i suoi romanzi- personaggi femminili in primo piano, tre età diverse per Libera, Iole e Vittoria, reticenza sfrontatezza e asprezza come tratti dei loro caratteri, molto rosa in un’ inquadratura giallo pallido. Ci si diverte con le battute un po’ sopra le righe di Iole (ci pensano Libera e Vittoria a smorzare il tono), si partecipa alle ansie materne di Libera e si vorrebbe un po’ più di intraprendenza da parte sua, visto che ha non uno solo, ma ben due spasimanti, ci si domanda se sarà proprio Gabriele a vincere alla fine e non piuttosto il cuoco premuroso. E poi si ammira il cielo di Lombardia e si respira il profumo dei fiori immaginando i bouquet creativi composti da Libera. Sempre in attesa di una nuova avventura.

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domenica 8 maggio 2022

Delphine De Vigan, “Tutto per i bambini” ed. 2022

                                             Voci da mondi diversi. Francia

        warning novel

Delphine De Vigan, “Tutto per i bambini”

Ed. Einaudi, trad. Margherita Botto, pagg. 296, Euro 19,00

 

   Ironia di un titolo. “Tutto per i bambini”- è la giustificazione che si dà a se stessi e agli altri, di fare tutto per amore dei bambini, per il loro bene. Siamo certi che sia il loro bene, o no, piuttosto, quello dei genitori che li manovrano?

    Il passato di Mélanie, mamma di Sam e Kimmy (otto e sei anni), contiene una grande frustrazione. Appassionata di televisione e di reality, si era iscritta per prendere parte ad un reality show ed era stata scartata dopo la prima puntata. È quella vecchia sconfitta che la spinge a cercare una rivincita sfruttando le possibilità della nuova tecnologia e mettendo online su youtube i filmati della vita quotidiana dei suoi bambini?

L’inizio era stato lento- capire come fare, istruire i bambini (Kimmy aveva solo due anni), coinvolgere il marito che si era licenziato per avere più tempo, rispondere ai commenti, investire soldi per comprare vestitini e giochi, curiosare quello che veniva fatto all’estero e nella stessa Francia da chi aveva già raggiunto un notevole successo con un alto numero di follower.


I follower: parola chiave, indice di notorietà e gradimento. Perché a poco a poco Happy Récré aveva acquistato fama, il numero dei follower e dei pollici alzati nel like era schizzato a cifre strabilianti- si parlava di milioni e non di migliaia. Pacchi su pacchi venivano recapitati a casa loro perché fosse fatta una scelta e i vari prodotti venissero reclamizzati. Mélanie aveva organizzato un locale apposta per le riprese- in pratica dal risveglio all’ora di andare a letto i bambini erano sotto l’occhio della videocamera, Sam obbediente, Kimmy sempre più recalcitrante.

Ricordate il film “The Truman Show” del 1998 in cui il protagonista viveva dentro un reality senza saperne nulla? Ecco, così è la vita di Sam e Kimmy, con la differenza che loro lo sanno, che soffrono perché presi di mira dai compagni di scuola, che sono manipolati per credere di essere fortunati, circondati dall’affetto dei loro fan a cui danno il buongiorno ogni mattino mandando loro ‘baci stellati’.


      Finché un giorno- è il 2019- Kimmy scompare. Stava giocando a nascondino con il fratello, l’avevano vista entrare nel locale immondizie e poi…non c’era traccia di lei. Un rapimento? Delle indagini si occupa Clara, una giovane poliziotta che è cresciuta in un ambiente totalmente opposto a quello di Kimmy: niente televisione in casa sua, genitori liberali che si battevano contro il consumismo e il conformismo. Dopo lo sguardo dall’interno (quello di Mélanie), l’esame dei filmati da parte di Clara ci offre lo sguardo dall’esterno di quella ossessiva ed estenuante vita sotto l’occhio di un Grande Fratello ben diverso da quello di Orwell, forse ancora peggiore.

    L’ultima parte del libro è proiettata nel futuro. Sono speculazioni, ma l’esempio di quanto è successo a molte baby star del cinema le rende del tutto credibili. Che ne è di Sam e Kimmy diventati adulti? E di Mélanie, quando deve cambiare tipo di filmati, dopo che i figli hanno abbandonato il nido? Aveva fatto così tanto per loro…

    “Tutto per i bambini” è un libro agghiacciante. È sufficiente andare su Instagram per vedere quanti sono i video con bambini postati dai genitori. In apparenza sono innocui, forse non ci si accorge neppure subito dei retroscena. Dopo si inizia a notare la frequenza in aumento, a riprova di come chi mette online i filmati diventi dipendente dall’indice di visualizzazioni, una vera e propria sorta di droga. Anche l’elemento pubblicitario non è subito evidente, striscia subdolo nei filmati mentre di certo grosse somme di denaro entrano nelle tasche dei genitori. Ma è ‘tutto per i bambini’…

Una legge tutela il diritto all’immagine dei bambini- serve a poco, almeno sul momento, forse a posteriori i figli possono portare in giudizio i genitori.

Un libro da leggere. Purtroppo lo leggerà solo chi è già convinto della non eticità di sfruttare i minori sul web.

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sabato 7 maggio 2022

Valentina Parisi, “Una mappa per Kaliningrad” ed. 2019

                                                                   Casa Nostra. Qui Italia

     romanzo di viaggio

Valentina Parisi, “Una mappa per Kaliningrad”

Ed. Exorma, pagg. 250, Euro 15,90

 

     Pochi sanno che cosa sia Stablack ed è doloroso che un luogo che ha significato così tanto per chi vi è stato internato, che ha marchiato per sempre le loro vite, sia finito nell’oblio. Il nonno della scrittrice fu tra i prigionieri politici italiani recluso nello Stalag 1 di Stablak, nelle vicinanze di Kaliningrad. E la scrittrice segue le orme quasi del tutto cancellate del nonno per ritrovare la sua drammatica esperienza. Il nonno, peraltro, non ne aveva mai parlato, come erano restii a parlare della prigionia tutti quelli che l’avevano sperimentata ed erano sopravvissuti. Una foto che troviamo nel libro “Una mappa per Kaliningrad” ritrae il nonno nel 1947, magro, che guarda la bambina che è la madre della scrittrice. Ha il volto girato verso di lei, indoviniamo uno sguardo di meraviglia e di ammirazione, come davanti a qualcosa di inaspettato e di straordinario.


     Città singolare Kaliningrad. Città con due anime, una tedesca e una russa. Città con due nomi, anche se ormai dovrebbe averne uno solo, essendo una exclave russa, altra condizione singolare (una exclave è un territorio che appartiene politicamente ad uno stato pur essendo inserito territorialmente in un altro stato). Si chiamava Königsberg (la montagna del re) quando apparteneva alla Prussia, ed è rimasta tale per i tedeschi. Perché ha dato i natali al filosofo Kant, al poeta Hoffmann, alla pittrice e scultrice Kollwitz, perché Hannah Harendt vi ha passato gli anni dell’infanzia. Come si può cancellare tutto questo? Per i russi la città aveva una posizione strategica importante, era l’affaccio su un mare che non ghiacciava. E per giustificare l’annessione di gran parte della Prussia orientale venne creato a proposito il mito della regione di Kaliningrad come territorio popolato fin dall’antichità da tribù slave ricongiuntosi alla madrepatria grazie alla vittoria militare sovietica del 1945 (non è forse lo stesso discorso che abbiamo sentito di recente in questi giorni di guerra in Ucraina?).


     Kaliningrad non sarebbe neppure nata come tale se Königsberg non fosse stata bombardata pesantemente dagli Alleati nel 1944. E ai sovietici non importava affatto di ricostruire la città uguale a come era prima, per cui è difficile ritrovare il passato nella nuova città.

La scrittrice ci racconta le sue avventure di viaggio, non certamente facile anche se non paragonabile a quello che deve avere fatto suo nonno. Racconta di incontri, descrive luoghi e persone, inserisce un capitolo intero di testimonianze, aggiunge fotografie di ‘prima’ e ‘dopo’ e ‘durante’, durante la guerra, con le distruzioni e le macerie. Lascia per ultimo il campo. Difficile da raggiungere, perfino le indicazioni che riceve non sono uguali. Quando scende dall’autobus deve percorrere un lungo tratto a piedi- sembra quasi che quello che deve svelarsi ai suoi occhi debba essere una sorta di premio ottenuto dopo aver vinto la sfida di mostri di antiche fiabe. Invece, in realtà, quasi nulla è rimasto di quell’enorme campo con le lunghe baracche. Si commuove davanti al memoriale per le vittime italiane. Poi è ora di tornare indietro, per non perdere l’autobus di ritorno. Come se in questa urgenza ci fosse anche un significato recondito sulla necessità di ricordare ma anche su quella di non lasciarsi irretire dalle maglie del passato.


    ‘La città bifronte’, dice il sottotitolo di questo libro che ci conduce in un viaggio affascinante in questa doppia città di cui ci chiediamo- quale delle due è il doppelgänger dell’altra? In realtà, abbiamo in mente la risposta, ma preferiamo pensare a Kaliningrad come ad un pezzo di ambra- come scrive l’autrice-, uno di quei luminosi pezzi di ambra che il mare lascia sulla riva, che serba in sé il residuo fossile del passato, una Kaliningrad che tesorizza in sé Königsberg.

E a proposito di ambra- ho sentito parlare di Kaliningrad per la prima volta come al luogo dove bravissimi artigiani creavano gioielli di ambra. E dove, ma allora si chiamava ancora Königsberg, i nazisti avevano fatto portare i pannelli della splendida camera d’ambra trafugati dal palazzo di Caterina a Carskoe Selo.

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giovedì 5 maggio 2022

Tommaso Avati, “Il silenzio del mondo” ed. 2022

                                                                 Casa Nostra. Qui Italia

                                                                          saga


Tommaso Avati, “Il silenzio del mondo”

Ed. Neri Pozza, pagg.205, Euro 17,00

 

     Lina. Rosa. Laura. Francesca. Quattro generazioni, ma solo le ultime tre sono legate da un vincolo famigliare, nonna, mamma, figlia. Lina è la donna che- siamo negli anni dopo la prima guerra mondiale- non riesce ad avere figli, le muoiono uno dopo l’altro, appena nati. Il marito allora decide per un’adozione. Non tanto perché ami i bambini, ma perché ha sentito dire che, adottando una bambina dell’orfanotrofio, riceverà regolarmente una certa somma di denaro per il mantenimento. È la sorte che gli fa scegliere Rosa. Anzi, è suo fratello, rimasto cieco dopo la guerra, a insistere per quella bimba che lui neppure vedeva. Si accorgono ben presto che Rosa è sorda. Ed è una sordità che tramanderà alla figlia e alla nipote.

    Tommaso Avati (figlio del regista Pupi Avati) dice di conoscere per esperienza personale ‘il silenzio del mondo’ in cui ci introduce con il suo romanzo. E noi restiamo turbati dall’ingresso in una realtà ovattata in cui non è la parola a darci gli indizi di quello che sta accadendo, ma è la gestualità, sono gli sguardi, i comportamenti degli altri. E siamo consapevoli dell’errore comune di pensare ai non udenti come a dei ritardati, semplicemente perché sembrano non reagire a quanto gli viene detto. È quello che accade a Rosa, disprezzata e considerata un’idiota dal padre adottivo, abusata da un negoziante che approfitta di lei, che non sa, non capisce quello che le sta succedendo, perché nessuno le ha mai detto niente. Povera Rosa che impara per caso i primi rudimenti del linguaggio dei segni. Sua figlia e sua nipote saranno più fortunate- si deve arrivare oltre la metà del ‘900 perché la lingua dei segni italiana (in acronimo Lis) sia conosciuta e diffusa. In più Laura e Francesca (quest’ultima non sorda dalla nascita) impareranno anche ad usare la voce e riconoscere il labiale.


    La storia di queste tre generazioni di donne afflitte da sordità ha, in apparenza, molto in comune con la storia di altri personaggi femminili- amori, tradimenti, figli, esperienze di lavoro. Ma il silenzio del mondo rende tutto diverso, la differenza e le difficoltà dei rapporti con gli altri rendono tutto differente. Il mondo si divide tra ‘udenti’ e ‘non udenti’, tra ‘loro’ (perché gli udenti sono ‘loro’ per Laura e Francesca) e ‘noi’. E, mentre ‘loro’, pur nella piena accettazione come nel caso del marito di Laura, insistono perché usino la voce, perché solo le parole contengono la piena ricchezza della realtà, perché non vengano subito etichettate come diverse, Laura si oppone e arriva a schierarsi sul fronte di un’opinione del tutto diversa. Sono i segni, quelle mani danzanti nell’aria, ad essere meglio delle parole, perché non esiste la menzogna nella lingua dei segni e, invece, tutti ‘loro’ sono menzogneri. Non lo aveva sperimentato forse Rosa, non lo ha provato lei, come può Francesca fidarsi di ‘loro’? Ma è proprio vero, questo? Il finale, con il segreto svelato di Rosa, sembrerebbe provare diversamente.


    Si legge velocemente, il romanzo di Tommaso Avati, perché lo stile è piano, la narrativa si riavvolge a tratti su se stessa per fare un balzo indietro nel passato e i personaggi femminili ci intrigano, perché sembrano avere una dimensione aggiunta, perché solo loro sembrano poter accedere al silenzio del mondo.

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