sabato 27 marzo 2021

Karoline Chaoqun Kan, "Sotto cieli rossi" Intervista

                               Voci da mondi diversi. Cina

     


   Ci eravamo accordate per sentirci alle 13 ora italiana e 20 ora di Pechino. Ero emozionata, quando ho lanciato l’invito a collegarsi su zoom a Karoline Chaoqun Kan. Non potevo non pensare al tempo in cui sarebbe stato proibitivo o del tutto impossibile telefonare in Cina, al costo delle telefonate interurbane in Italia, alle monetine che cadevano dentro i telefoni nelle cabine rosse in Inghilterra, ai telegrammi inviati per comunicare l’arrivo in qualche luogo lontano, alle lettere per raccontare le nuove esperienze. E adesso lei ed io eravamo lì, a guardarci sullo schermo, a parlare come se fossimo state a pochi chilometri di distanza.

Ha adottato un nome inglese, Karoline, come pseudonimo, e ha scritto il suo romanzo in inglese. Si direbbe che subisce il fascino della cultura inglese e americana. Ci parla di queste sue scelte? Ed è stato tradotto in cinese il suo romanzo?

   Ci sono parecchi motivi per cui ho scritto il mio romanzo in inglese. Perché era più facile così. E non voglio dire che scrivere in inglese fosse più facile, ma, siccome avevo lavorato per giornali di lingua inglese e ho conoscenze nell’ambiente dell’editoria, mi sarebbe stato più semplice pubblicare il mio libro se fosse stato scritto in inglese che non cercare un editore cinese. È una questione di mercato, a parlare in sincerità. Ho usato un nome inglese perché, al momento in cui dovevo presentare la mia proposta, sarebbe stato più agevole per gli editori dare un’occhiata a quello che avevo già scritto in inglese con questo nome- non avrei avuto questo vantaggio con un editore cinese. Avevo in mente un pubblico per questo mio libro, volevo connettere la Cina con il mondo fuori della Cina. I lettori in Cina sarebbero stati diversi e avrei dovuto scrivere un altro tipo di romanzo, con altri personaggi. Invece io volevo scrivere di gente normale, volevo una finestra che permettesse a chi è ‘fuori’ di dare un’occhiata ‘dentro’ e venire a conoscere i cinesi e la loro storia.


    No, non è stato tradotto in cinese. Pensavo che lo avrei tradotto, poi, nel 2017, quando ho firmato il contratto per la pubblicazione, i rapporti fra la Cina e gli Stati Uniti di Trump non erano facili e dopo sono ancora peggiorati. Di qualunque libro pubblicato negli Stati Uniti non si può parlare in Cina, sono del tutto banditi, e la situazione diventa sempre più difficile. Trattando certi argomenti non avevo intenzione di fare della politica. Ho scritto di certi fatti perché sono stati importanti per la mia generazione e per la mia famiglia, volevo chiarire i fraintendimenti. Ma è complicato: la storia contemporanea della Cina può essere discussa tra quattro mura ma, parlarne in una lingua straniera, rendendola argomento per una discussione tra stranieri, rende tutto più difficile e per questo sarà ancora più difficile pubblicarlo qui.

Non ci saranno dei miglioramenti in questa situazione, ora che Biden è diventato presidente degli Stati Uniti?

      Lo speriamo tutti, lo spera la gente, lo sperano quelli come me o i miei colleghi o gli artisti: vogliamo un ponte per comunicare, sarà graduale ma speriamo che ci sia un progresso nella comunicazione.

Quanto al suo nome inglese, Karoline era un nome che aveva già adottato quando era una studentessa, vero?

      Sì. A me piace molto anche il mio nome cinese, è un nome che aveva scelto per me mio nonno e ha un bel significato, ‘fuori dal coro’. Normalmente tutti mi chiamano con il mio nome cinese ma, come ho detto, era più facile collegare il nome Karoline con altre cose che avevo scritto, articoli di giornale, non fiction, reportage.

L’inizio del romanzo ci porta subito ad una domanda che è sia personale sia generale: secondo la politica del figlio unico, Lei non dovrebbe neppure essere nata e sappiamo che un numero enorme di bambine è stato ucciso. Si è sentita privilegiata nel sapere quello che ha passato sua madre per metterla al mondo? Sono consapevoli, adesso, i cinesi, della tragedia dell’infanticidio? Si è allentata la legge al proposito? Tre domande in una…

   Definitivamente sì, sono stata molto fortunata, pensando a tutte le bambine uccise, a quelle tenute in poco conto, a quelle che non hanno avuto l’opportunità di andare a scuola. Sono stata fortunata ed è bello sapere la storia di mia madre e dei sacrifici che ha fatto per avermi, anche se è difficile da capire. E poi penso di essere fortunata anche perché la carriera che ho scelto, l’istruzione che ho potuto avere, mi hanno reso capace di scrivere la sua storia. Mia madre ha vissuto questa storia ma non ha avuto l’opportunità di farla sentire. Io ho questo grande privilegio: il mio lavoro mi rende in grado di far sentire la mia storia.


     Ci sono sempre più discussioni su questo punto, sul guardare indietro. Ci sono articoli e dibattiti pubblici, e tuttavia niente è riconosciuto ufficialmente. Si discute su che cosa si potesse fare di meglio. Oggi le coppie possono avere due bambini. Ufficialmente questo è bene per la Cina, ma ci sono anche più movimenti femministi, molte giovani donne si rendono conto della disuguaglianza, sempre più donne aderiscono al movimento Me Too…

Ho appena letto di questo movimento, Me Too, leggendo “Black Box” di Ito Shiori, il libro che contiene la sua denuncia della violenza sulle donne in Giappone.

     Quello che succede in Giappone succede anche qui. Tutte le difficoltà di cui parla Ito Shiori, la sua lotta per avere giustizia nel suo caso di stupro- sono tutte cose che avvengono anche in Cina. Qui come in Giappone c’è soprattutto la vergogna a denunciare di essere state vittime di violenza sessuale.

Ritornando alla domanda del controllo delle nascite, che succede se una coppia ha tre figli?

    Per fortuna la situazione non è più così estrema come trenta, quaranta anni fa, non c’è più l’aborto forzato. Si deve pagare però una tassa al governo, ma ugualmente, per fortuna, non ci sono più soluzioni brutali come quando sono nata io. E poi c’è un vero e proprio paradosso: si infrange la legge se si hanno più di due figli, ma il livello delle nascite è così basso che il governo è preoccupato. In due generazioni è cambiato tutto. Il governo vorrebbe incoraggiare un aumento delle nascite ma solo nella classe media e non nelle campagne. E sappiamo quanto sia difficile la vita nelle città e quindi è proprio nelle città che le coppie si limitano ad avere due bambini.

Lei racconta di quanto si sia stupita per il muro di silenzio intorno ai fatti di piazza Tien an Men. Di recente, in un libro di uno scrittore cinese, un personaggio non sapeva neppure che cosa fosse la Rivoluzione Culturale. Sta succedendo quello che era già successo al tempo di Mao, cioè la rimozione del passato, il voler far dimenticare alla gente quello che è successo?

     Ci sono due diverse narrazioni per gli avvenimenti del passato. Anche in Internet, quello che è successo nel 1989 è una storia diversa. Nelle scuole si parla della Rivoluzione Culturale in maniera diversa. Si parla di errori ma anche di successi: è questa la versione ufficiale. La stessa cosa, della doppia narrativa, è vera per quanto succede adesso e per quanto è successo lo scorso anno. Se glielo chiedete, la gente risponde “Sì, mi ricordo”, ma poi la loro storia è differente da quella che si racconta fuori della Cina. È così anche per quello che viene riportato dei rapporti tra Cina e USA- è come ci fossero due binari e non c’è modo per risolvere il problema.

Mi sono stupita della proibizione di praticare il Falun Gong: non si tratta di esercizi ginnici? Che cosa c’è di così pericoloso?

   È giudicato pericoloso perché ci sono tante persone in questa organizzazione e c’è sempre il pericolo che ci sia un leader che prenda la direttiva. Sì, è vero che i più, come anche mio nonno, si limitavano a praticare il Falun Gong come una sorta di esercizi di ginnastica. Tuttavia c’era anche una filosofia collegata con il movimento, faceva parte di tutte quelle religioni o filosofie a cui ci fu un ritorno negli anni ‘90, e il governo ha paura di questo, ha paura di perdere il controllo.

È che si vuole impedire alla gente di pensare, di avere idee?

    Non è esatto: devono pensare ma solo al partito comunista. Essenzialmente tutto deve essere sotto controllo.

Lei spiega molto bene il sistema dell’hukou e del perché un hukou di città sia preferibile. È cambiato qualcosa dopo la pandemia? Voglio dire, c’è stato un ritorno verso città più piccole o la campagna, come è successo in Italia o in altre città europee?

   No, non penso. Forse si è verificato un ritorno alle campagne nel periodo peggiore della pandemia, lo scorso anno. Ma ora l’economia cinese ha ripreso in grande e nessuno lascerebbe le opportunità delle città.


Mi ha colpito il controllo del Partito sulla vita privata dei cittadini, in particolare sulla vita sentimentale dei giovani. Nonostante i grandi cambiamenti che ci sono stati negli ultimi venti o trent’anni, sembra che la Cina sia ancora molto lontana dalla libertà come la intendiamo noi.

     Quando, nel mio libro, parlo delle limitazioni alla libertà nei rapporti tra le coppiette- queste limitazioni sono dovute per lo più alla tradizione, alla cultura cinese. I genitori e gli insegnanti preferiscono che non si instaurino dei rapporti tra i giovani perché questi influenzerebbero i risultati scolastici o accademici- lo studio è molto importante. E tuttavia anche questo sta cambiando, lo vedo nei ragazzi di oggi che hanno genitori più giovani che accettano questi legami tra adolescenti e c’è anche più libertà nei college.

Ed è ancora in vigore quel periodo di tempo obbligatorio in una sorta di addestramento pseudo-militare per tutti gli studenti che iniziano l’università?

    Sì. È ritenuto necessario ed è obbligatorio, perché insegna la disciplina- c’è un allenamento piuttosto duro-, perché serve dal punto di vista ideologico e perché un po’ di durezza e di difficoltà sono educative, piacciono anche ai genitori.

Un esempio della mancanza di libertà è la proibizione di lavorare come giornalista per una testata straniera, di cui Lei fa cenno riferendosi al suo caso. Ho pensato al ‘double-talk’ di Orwell quando Lei scrive che deve definirsi ‘ricercatrice’ e non ‘giornalista’.

     Certamente questa è una legge che deve cambiare. In passato però era ancora peggio. Una volta il governo decideva anche quali cinesi potessero lavorare per quale giornale…

Sta lavorando ad un altro romanzo?

    Non proprio, non ancora, però so che mi piacerebbe scrivere della Cina rurale, della Cina che finora ha trovato poco spazio nei romanzi.

la recensione di "Sotto cieli rossi" di Karoline Kan è un post del mese di febbraio, sotto l'etichetta "Voci da mondi diversi. Cina"

recensione e intervista saranno pubblicate su www.stradanove.it



 

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