lunedì 1 marzo 2021

INTERVISTA A CRISTINA GREGORIN, autrice de "L'ultima testimone"

 


    Ho pensato a quanto sia facile, in fin dei conti, adattarsi alle situazioni. E a come siamo fortunati nella sfortuna dei tempi in cui viviamo. Se gli incontri di persona non sono più possibili, c’è zoom che ci viene incontro e che ci permette di dialogare con gli altri, di coglierne l’espressione del volto e non solo le sfumature della voce. E, meglio che niente, è un surrogato di cui ci accontentiamo.

Ho incontrato su zoom Cristina Gregorin, per parlare de “L’ultima testimone”.

 

Ho avvertito un’urgenza nel suo romanzo, la necessità di raccontare la Storia attraverso delle storie: c’era in Lei il desiderio espresso da Francesca Molin, quando si chiede, a proposito di tutte quelle vicende del passato, “quando potremo chiuderla, relegarla ai sussidiari e ai manuali di Storia?”

     Sì, ha colto il punto. Posso dirle che, dai riscontri che ho avuto, non mi aspettavo che questa fosse una storia così sconosciuta, il periodo dell’occupazione da parte dei partigiani di Tito per 40 giorni e poi sotto l’amministrazione alleata anglo-americana fino al ‘54. Sono partita dai sentimenti, da quello che credevo che gli italiani non sapessero, dalla confusione dei sentimenti durante la seconda guerra mondiale, perché c’era una sovrapposizione di senso di nazionalità, ideologie e religioni, soprattutto per quello che riguarda sloveni e croati.

Nonostante tutto, nonostante il giorno della memoria delle foibe il 10 di febbraio, la storia di quello che è successo a Trieste e in Istria è conosciuto solo superficialmente nella gran parte di Italia. A che cosa si può attribuire questo silenzio?

    A questo proposito ci sono tante analisi di storici e politologi. Mi riesce molto difficile credere, anzi non riesco proprio a credere che non sia stato fatto prima un momento di commemorazione, come è successo per Marzabotto o per le Fosse Ardeatine. C’è bisogno di un giorno del ricordo perché non si conosce la Storia, mentre sarebbe sufficiente un giorno di commemorazione se la si conoscesse. Ci sono ragioni politiche dietro questo: si è voluto nascondere quello che gli italiani hanno fatto nei Balcani. C’è stato un silenzio generale in Italia. Il fatto che Tito avesse posto la Jugoslavia tra i paesi non allineati voleva dire che si dovevano avere buoni rapporti con la Jugoslavia. E la mia idea è che il silenzio a Trieste- la mia città- è dovuto al fatto che, dopo la guerra, da qualunque parte tu fossi stato, era sempre la parte sbagliata. Se eri italiano, se eri patriota, venivi preso per fascista; se eri comunista, ti accusavano di essere filo-titino e antipatriota. Forse c’era anche un sentimento di vergogna perché il fascismo a Trieste era stato molto duro. Nel ‘43 erano arrivate le SS a Trieste, Trieste era sotto il comando delle SS.

Più di tutto quanto, ho sentito dire dai testimoni che è impossibile spiegare perché non si può più capire. Quel silenzio di Trieste per me è stata una resa: non si capiscono i valori che c’erano, tanto vale metterci una pietra sopra.


La sua famiglia è di Trieste: Lei è cresciuta con questa Storia?

    Il ramo materno della mia famiglia è istriano, di Capodistria che è il retroterra di Trieste, e sono venuti profughi a Trieste nel 1948. La famiglia di mio padre, invece, è triestina. Io sono cresciuta con molte storie, ero una bambina sensibile e amante della Storia, come lo è mio padre. La nostra casa era piena di libri di storia e io ero curiosa di queste storie.

Mi è sembrato che il suo libro fosse quasi una controparte dei libri di Pahor- è lo stesso dramma vissuto dagli istriani di lingua italiana?

    In realtà non mi sono confrontata con Pahor né con altri scrittori triestini. Pahor è stato un testimone diretto, io ho l’umiltà di dire che quello che scrivo è quello che rimane, come la memoria si trasforma e cambia. Francesca Molin cambia parametri e memorie quando torna a Trieste da Milano. Ritrova altre parti della sua storia e di sé. La memoria cambia il passato, ne teniamo solo una parte. Io cerco di dare una versione di quello che è restato a me e forse a persone della mia generazione.


C’è un significato nascosto nel fatto che Mirko sia uno storico, non solo, ma uno storico del Medioevo?

    Quando si scrive, non tutto è programmato. Mi è venuto spontaneo così e poi mi è sembrata la soluzione migliore. Mirko doveva essere uno storico  per avere un interesse alla Storia. Non sono tante le persone che lo hanno, soprattutto se un presente ti riempie la vita. Ho scelto uno storico e una donna sola che non è sopraffatta dal presente- la sua storia personale è più pesante per lei.

 Ecco, infatti. Al ricercatore di storia Mirko Lei ha opposto Francesca, un medico la cui priorità è salvare la vita in una storia di morti. La scelta di lavoro di Francesca è stata dettata inconsciamente dalla storia che aveva alle spalle ed è anche questo un messaggio per noi?

     È proprio così per quello che riguarda Francesca. Ho scritto di altre guerre e anche allora i personaggi erano medici che portavano i bambini nel mondo, i bambini sono sempre un messaggio di speranza in opposizione alla disperazione personale e collettiva. E non sono solo i bambini a incarnare questo messaggio, ma anche chi li aiuta a nascere e chi li fa crescere.

Trieste 1954

Pensando a suo nonno, Mirko riflette che, quando il nonno Bruno aveva deciso di combattere il nazifascismo anche a costo della vita, aveva la metà dei suoi anni: Mirko dice che di certo lui non aveva la stoffa del nonno. Mi sono chiesta: si nasce con un certo piglio audace o sono gli avvenimenti che ci foggiano, costringendoci in ruoli di cui non ci pensavamo capaci?

    Certo, mi serviva che Bruno e Vasco avessero diciassette/diciotto anni nel ‘43, perché vengono buttati in guerra senza servizio militare. Viene da pensare ai ragazzini di oggi che hanno bisogno dello psicologo perché sono attaccati alla playstation, i nostri nonni sono morti per dargli un futuro facile- sono generazioni che non ricordiamo più.

Io volevo affrontare il tema del trauma: Bruno, Vasco e gli altri erano troppo giovani durante la guerra e non si sono più ripresi. Nessuno li ha confortati dopo la guerra. Escono dalla guerra che hanno vent’anni e nessuna spiegazione, devono solo ricominciare a vivere senza parlarne. Ho scelto di parlare di ragazzi che non hanno avuto la forza di superare il trauma.

Anche Francesca è rimasta sola con il suo trauma e si è buttata nel lavoro.

Infatti ho pensato che per Francesca è un pretesto, giustificare la sua scelta di solitudine con l’abbandono del fidanzato.

    Proprio così. Il fidanzato che l’ha lasciata è solo un pretesto per non pensare ai veri motivi che hanno causato il suo rinchiudersi nella solitudine.


 Trieste splendida nel suo romanzo, presa fra il Carso, il mare, la Bora: che cosa sono per Trieste questi tre elementi?

    È vero: Trieste è compressa tra l’apertura del mare, che è la nostalgia classica del viaggio, del viaggio di scoperta di Ulisse, e dietro alle spalle ha l’asprezza del Carso. La natura determina il carattere, la dicotomia delle persone.

La Bora è una caratteristica tutta sua, di Trieste. Con questo suo soffiare ti porta lontano con i pensieri.

Sta lavorando ad un nuovo romanzo?

Sto scrivendo parecchio in questo periodo. C’è già pronto, però, un romanzo che avevo scritto prima de “L’ultima testimone”, un romanzo storico ambientato a Venezia alla fine del 200, più classico di questo.

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recensione e intervista saranno pubblicate su www.stradanove.it

                                       




 

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