giovedì 11 settembre 2014

Anna Quindlen, "Natura morta con briciole" ed. 2014

                                           Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
                                           fresco di lettura


Anna Quindlen, “Natura morta con briciole”
Ed. Cavallo di ferro, trad. Annarita Guarnieri, pagg 286, Euro 15,30
  Titolo originale: Still Life with Bread Crumbs   

   
    La sua seconda mostra fotografica era stata intitolata Piano di cucina, ed era stata vista come un monumento iconico dell’arte femminile, ma in effetti all’epoca in cui aveva scattato quelle fotografie era soltanto stanca…stanca nel modo in cui lo diventa una donna che ha un figlio e un marito e una casa e un lavoro e una vita, al punto che la stanchezza comincia ad essere avvertita come una latente malattia cronica.

    Una casa piuttosto malandata in un luogo sperduto, tra i boschi. Una donna di sessant’anni, Rebecca Winter. Come si fa a scrivere un romanzo su elementi così scarni? Eppure Anna Quindlen ci riesce benissimo, regalandoci uno splendido libro di quieta bellezza.
     Rebecca Winter era famosa. Era quella Rebecca Winter che aveva scattato la fotografia che l’aveva resa famosa, Natura Morta con Briciole, che si vedeva appesa un po’ ovunque, nei college, nei negozi, nei ristoranti. Era stata scattata in un momento di quotidiana ispirazione, piatti sporchi in cucina, uno strofinaccio strinato di bruciato accanto, resti di cibo. Eppure i critici, ‘gli altri’, ci avevano letto il messaggio di una casalinga sconfortata- a quel tempo Rebecca era, di fatto, una casalinga con un bambino piccolo e un marito intellettuale e donnaiolo che l’avrebbe presto lasciata per una terza moglie. Da allora Rebecca aveva proseguito la sua carriera di fotografa, senza riuscire a riconoscersi nei colleghi che parlavano della fatica del mestiere, implicando che era il loro genio a trasformare la realtà in uno scatto d’arte. Per Rebecca era piuttosto il contrario: la meraviglia di qualcosa che colpiva la sua attenzione impressionava, in qualche modo, la pellicola.

    Poi: il divorzio, un figlio da crescere da sola e che, ora adulto, lei doveva ancora aiutare economicamente, la madre, ammalata di Alzheimer, che suonava un immaginario pianoforte in una casa di cura, il padre in un appartamentino con la badante, la sua casa di New York che era diventata troppo dispendiosa. E la sua ispirazione che pareva essersi dissolta, mentre la sua mente fotografava le cifre delle entrate e delle uscite sul conto corrente. Per questo aveva deciso di affittare l’appartamento di New York che tanto amava e prendere in affitto quella casetta che, secondo l’inserzione, aveva “un panorama incantevole”. Peccato che avesse solo quello. Rebecca non era preparata a sentire gli strani rumori provocati da un procione che si era infilato nel suo sottotetto, ad esempio. Né a doversi accendere il fuoco con la legna. E neppure a non riuscire ad aprire la porta di casa per il cumulo di neve che si era accatasta.
    “Natura morta con briciole”, Still Life with Bread Crumbs: c’è una differenza fra la definizione ‘natura morta’ e ‘still life’. L’italiano sottolinea l’idea di morte, l’inglese quello di vita, di un momento di vita fissato nell’immobilità. Ed è come se osservassimo- invece della fotografia- la vita di Rebecca Winter colta in un periodo di stasi, mentre lei raccoglie le briciole della sua esistenza. A sessant’anni si può- forse si deve- iniziare a fare una resa dei conti. Rebecca ricorda- l’innamoramento, il matrimonio, il tradimento di lui. Come si può cadere nella trappola dell’amore? Come si può essere così ciechi? Come si può lasciarsi annullare da un uomo? E poi rivede se stessa bambina, il suo rapporto con il padre e con una madre anaffettiva. Ora che i soldi si sono volatizzati, Rebecca riscopre l’essenzialità. Conosce un uomo molto più giovane di lei, il riparatore di tetti che non ha frequentato l’università ma che le insegna i segreti degli animali. Rebecca cambia e cambiano le sue fotografie. Ma c’è ancora qualcosa che Rebecca deve imparare e che ha a che fare con l’eticità dell’arte.
La nuova serie di foto che la riporta alla ribalta della notorietà ritrae una serie di croci in cui si è imbattuta nel bosco. Croci che parlano di un qualche dolore straziante, adorne di una foto, o di una bambola, o di un nastro. Aveva il diritto, Rebecca, di appropriarsi di quelle croci, trasformandole in arte visiva e sfruttando una tragedia che ignora?
    Il finale è tinteggiato di rosa, ne avrei preferito uno più realistico per questo romanzo molto bello che mi ha fatto pensare all’impareggiabile “Stoner” di John Williams, forse per la pacatezza della narrazione, per la sensazione di una stanca pienezza che ci comunica una protagonista non più giovane, per la profonda lezione di vita che apprendiamo senza accorgercene, leggendo il libro.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


    

    

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