sabato 6 settembre 2014

Tommy Wieringa, "Questi sono i nomi" ed. 2014

                                                       vento del Nord
        fresco di lettura


Tommy Wieringa, “Questi sono i nomi”
Ed. Iperborea, trad. Claudia Cozzi e Claudia Di Palermo, pagg. 316, Euro 17,00
Titolo originale: Dit zijn de namen


   A metà della via, fra casermoni, sotto una scarsa illuminazione stradale, li individuò alla luce dei fari e nel chiarore intermittente del lampeggiatore. Il cervello non capiva quello che vedevano gli occhi. Ombre, separate dai loro corpi. Stava per abbaiare un ordine al megafono, ma la voce gli morì in gola. Gli parve di veder brillare delle lacrime sulle loro guance sporche. Fantasmi che piangevano. Buon Dio. Pelle incollata alle ossa, quasi mummificata. Orbite nere.


      Michailopoli, una città di frontiera. Il non più giovane commissario Pontus Beg legge Confucio, cercando di sopire la sua inquietudine interiore. E’ un uomo solo, si accontenta della mensile notte di sesso che gli offre la sua domestica, è tormentato dalla ‘sporcizia’ del mondo che lo circonda, assillato dal penoso ricordo del cadavere senza nome di una ragazzina che è ancora nella cella frigorifera della stazione di polizia: chi l’aspetta a casa senza speranza? quali sogni aveva, aspettando probabilmente un passaggio sul ciglio della strada, fidandosi di uno sconosciuto?
   Un non-luogo, una steppa sconfinata, arida e deserta. Sette persone si trascinano a fatica, dirigendosi verso ovest, come se là fosse la terra promessa. Soltanto di uno di loro sappiamo il nome fin dall’inizio, Vitaly, un drogato ora in crisi di astinenza, un avanzo di galera coperto di tatuaggi. Di un altro, sempre chiamato ‘il ragazzo’, ci verrà detto il nome alla fine- Said Mirza. Ci sono poi ‘il bracconiere’, ‘l’uomo di Aşgabat’, ‘la donna’, ‘il lungo’ e il nero che tutti chiamano Africa.
    “Questi sono i nomi” dell’olandese Tommy Wieringa segue questi due filoni narrativi che in apparenza sono come due linee parallele, ma che si poi si ricongiungeranno alla fine rivelando un significato nascosto.
Quella dei migranti è una dolorosa epopea, sono dei disperati che affrontano l’ignoto perché in ogni caso ciò che non si conosce non può essere peggiore di ciò che conoscono, qualunque sia la loro provenienza. Fatta eccezione per il nero dell’Etiopia che parla una lingua che nessuno capisce, gli altri sembrano giungere da un qualche paese dell’ex blocco sovietico ed erano una quindicina alla partenza di questo viaggio della speranza che avrebbe dovuto far passare loro il confine. Un qualche confine lo avevano passato nella notte, avevano sentito latrare i cani, il ragazzo aveva visto le guardie da uno spiraglio del tendone che li nascondeva. Poi il camion si era fermato, li aveva scaricati, gli era stato detto di camminare sempre a ovest e in un paio di ore sarebbero arrivati. Abbiamo letto abbastanza racconti di migranti per immaginare sia il seguito sia la menzogna dietro le promesse. Abbiamo letto altre storie di come la lotta per la sopravvivenza trasformi l’essere umano- homo homini lupus-, di come, in situazioni estreme, l’uomo ritorni ad essere una bestia.


   Hanno girato in tondo, i migranti, non si sono mai mossi. Quando arrivano a Michailopoli sono come lupi affamati, sono larve scheletriche, suscitano paura prima del ribrezzo e di una compassione inorridita. Ed è qui che i due filoni si uniscono perché i migranti finiscono nelle celle della polizia ed incontrano Pontus Beg.
   L’epopea dei disperati diventa un topos, si riallaccia alla prima grande migrazione di cui leggiamo nella Bibbia, degli Ebrei in fuga dal Faraone verso la terra di latte e di miele, un paragone su cui Pontus Beg si interroga di continuo, alla riscoperta delle sue origine ebraiche. E gli sembra di scorgere un segno in tutto questo, gli sembra che la storia del mondo sia un alternarsi di cicli, non c’è nulla di nuovo. O forse c’è ancora la vecchia salvezza promessa dal Dio di Israele, se solo ci si dirige laggiù?
   Un titolo del giornale di oggi- sul finire di agosto- recita ‘emergenza migranti’. Le continue notizie dei morti in mare, dei barconi stracolmi, delle tombe galleggianti, ci hanno reso quasi insensibili davanti a queste tragedie. Di più. Ci hanno chiuso il cuore alla comprensione, non vogliamo neppure sapere dell’inferno che si sono lasciati alle spalle e di quello che hanno attraversato. Il libro di Wieringa si affaccia sull’orrore, i migranti di Wieringa siamo noi se non fossimo dei privilegiati. E tuttavia leggiamo e ci pare di avere già letto, sentiamo echi del peregrinare di padre e figlio ne “La strada” di McCarthy o di Mara e Dann nel romanzo della Doris Lessing o nelle storie autobiografiche- pur spoglie dei dettagli più macabri- di scrittori che hanno vissuto questa esperienza e troviamo qualche forzatura nel richiamo della storia biblica.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it 


Tommy Wieringa sarà presente al Festival della Letteratura di Mantova 2014


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