martedì 2 febbraio 2016

Tracy Chevalier, "I frutti del vento" - Intervista 2016

                                   Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
                                            


 INTERVISTA A TRACY CHEVALIER, autrice de “I frutti del vento”

    Conosco Tracy Chevalier da tanti anni ormai ma, anche se non l’avessi mai incontrata, sarebbe impossibile non individuarla, quando appare nell’atrio dell’albergo milanese dove abbiamo l’appuntamento per l’intervista: ha con sé una piccola valigia, pronta per la partenza, e su uno dei lati della valigia campeggia il quadro di Vermeer, la ragazza con l’orecchino di perla che la scrittrice ha fatto vivere nelle pagine del libro che le ha dato la fama. Mi dice che è un regalo del museo dell’Aia dove è esposto il quadro e aggiunge sorridendo che suo marito e suo figlio non usano mai quella valigia…

la scrittrice con l'interprete e la giornalista Laura Pezzino durante la presentazione del libro lunedì 1 di febbraio
    Quando ho iniziato a leggere questo romanzo ho pensato che sembrava essere la seconda tessera di un puzzle che avrebbe rappresentato la Storia di un’America minore. Ne “L’ultima fuggitiva” si parlava della ‘ferrovia sotterranea’ e degli schiavi fuggiaschi, in questo di agricoltura e della grande avventura all’Ovest. E’ qualcosa del genere che ha in mente, di scrivere una sorta di storia d’America?

      Anche io me lo sono chiesto, se fosse questo che ho in mente di fare, ma in realtà non ho grandi progetti. Scrivo un libro alla volta. Però non penso di avere ancora finito con l’America, anche se non so da dove verranno altre storie. Per ora ne ho scritto due e non so nulla degli altri che forse scriverò. Di certo quello su cui sto lavorando adesso è qualcosa di molto diverso: la casa editrice Hogarth ha lanciato un progetto scespiriano, cioè ha chiesto a parecchi scrittori di scegliere un’opera di Shakespeare e di farne un romanzo, reinterpretandola per i lettori di oggi. Dopotutto anche sul palcoscenico molto spesso vediamo delle reinterpretazioni dei capolavori di Shakespeare. Io ho scelto “Othello” e ho trasportato la tragedia nel campo giochi di una scuola americana negli anni ‘70 del 1900, con protagonisti che hanno undici anni. Il protagonista è un bambino di colore, qualcuno di diverso che appare in questa società bianca. E’ un romanzo sul bullismo, ambientato tra bambini e puntando l’attenzione a come reagiscono ad un estraneo. Non penso che l’ “Othello” di Shakespeare sia una tragedia sull’amore, altrimenti non avrebbe senso ambientarla tra dei bambini. E trovo facile scrivere questo libro perché so già dove va a finire la storia e posso pensare ad altro. Gli altri scrittori che partecipano al progetto sono Jeanette Winterson, che ha scelto “Storia d’inverno”, Ann Tyler con “La bisbetica domata”, Margaret Atwood con “La tempesta”, Jo Nesbo con “Macbeth”. Il romanzo di Howard Jacobson che ha reinterpretato “Il mercante di Venezia” è già stato pubblicato in Inghilterra. Parte del problema di questo progetto è l’uso della lingua da parte di Shakespeare- noi non possiamo certo scrivere come lui. E, a proposito di Ann Tyler, lei ha detto che ‘riscriverà’ “La bisbetica domata” perché è una delle opere che non le piacciono affatto e vuole cercare di interpretarla diversamente.

Prima gli alberi di mele e poi le sequoie- mi incuriosiscono le sue curiosità, i quadri, i fossili, gli alberi…Come è iniziato l’interesse per gli alberi? E sono venuti prima i meli o le sequoie?

        Prima sono venuti gli alberi di mele, poi ho incominciato a pensare ad altri alberi, ad un bosco di redwood, un tipo di sequoia che avevo visto più o meno venticinque anni fa nella parte occidentale dell’Inghilterra. Quegli alberi erano stati piantati negli anni ‘50 del 1800 e non sono originari dell’Inghilterra. Ho iniziato così a fare delle ricerche e tutti pezzi del puzzle si sono composti insieme per formare un romanzo diviso in due parti e in due diverse ambientazioni: gli alberi di mele ad Est e le sequoie ad Ovest. Quando scrivo un libro non so subito tutto, il libro si costruisce a poco a poco nella mia mente.

Ho cercato su internet fotografie delle sequoie e ne sono rimasta affascinata: che cosa ha provato quando le ha viste per la prima volta?

     Che cosa ho provato? Sono alberi così grandi che subito non capisci neppure che cosa stai guardando. Sono incomprensibili nella loro maestosità. Prima li vedi da lontano e pensi, beh, non sono poi così grossi. Poi ci arrivi sotto e…sono enormi. Ho dovuto toccarne il tronco per crederci, per mettermi in contatto con loro. Se guardi in alto, ti gira la testa. E hai la sensazione che il mondo è più grande e complicato della tua semplice vita nel mondo. Fa bene guardarli, ci porta fuori da noi stessi. Ci dà sollievo il sentire che non siamo così importanti. Galileo diceva che non siamo il centro dell’universo. Accanto alle sequoie capisci che non sei più l’attore centrale, sei una piccola parte del tutto e per te finisce per essere un sollievo.

Le ha viste anche in Inghilterra? Hanno avuto successo le spedizioni dei semi di sequoia?

     Sì e si trovano un po’ dappertutto in Inghilterra e in Scozia. Naturalmente sono necessari vasti spazi di terreno- dobbiamo pensare che oltre tutto chi li ha piantati non sapeva neppure quanto grandi questi alberi sarebbero diventati dopo duecento anni. In California le sequoie più grosse hanno anche 500 o perfino 1000 anni.

Nel romanzo ci sono personaggi fittizi e personaggi reali: mi può dire qualcosa sui personaggi reali del romanzo?

      I personaggi veri: Johnny Appleseed, che in realtà si chiamava John Chapman, è un personaggio famoso del folklore Americano. Da bambina avevo letto su di lui, ha sparso alberi di mele in tutto l’Ohio e ha incoraggiato un’alimentazione sana. Ho scoperto un libro sulla sua vita e mi sono documentata: se fai crescere un albero di mele piantando il seme, le mele verranno aspre, del tipo che va bene per fare il sidro.
John Chapman 'Appleseed'
John Appleseed vendeva i semi e la maggior parte delle mele di quegli alberi erano per l’alcol che serviva per riuscire a sopportare la dura vita dei tempi. Ho avuto la visione di Appleseed che vendeva i semi ad una coppia in cui il marito vuole le mele dolci e la moglie quelle aspre- ho invertito i soliti ruoli, facendo della donna quella che si ubriaca, invece dell’uomo. Appleseed è il commerciante, vede gli alberi come commercio. Lo stesso è per l’altro personaggio reale, William Lobb, il botanico che vende i semi delle sequoie in Inghilterra. Nell’800 gli inglesi avevano alberi decidui, poi hanno scoperto i sempreverdi che offrono un paesaggio splendido in ogni stagione. Nel romanzo ho voluto tracciare una pista di emigrazione- la gente che va verso Ovest per fare fortuna e il muoversi degli alberi. E quindi ecco perché ci sono questi due uomini, per ancorare il libro.
     Del tutto diverso, ma anche lui un personaggio reale è Robert, anche se non lo si può sapere leggendo il libro. Quando ho scritto “L’ultima fuggitiva”, ho visitato un villaggio Hamish e per caso ho visto un ragazzino molto timido con degli occhi color ambra. Sono riuscita a parlare con lui- e solo un poco- quando è apparsa una gatta con dei micini, e non credo lo rivedrò mai più. Però ho pensato che lo avrei messo nel prossimo romanzo: lui è Robert.

C’è un personaggio che, secondo me, è molto negativo, ed è Sadie. Possiamo giustificarla con la vita dura delle donne dell’epoca? Perché ha creato un personaggio così ‘cattivo’?

      Sadie e James non si sarebbero dovuti sposare, non è stato un matrimonio d’amore, Sadie era innamorata del fratello di lui. E non era ben vista dalla famiglia di James. Sadie è la regina del dramma: cerca attenzione dove può trovarla. Ma le donne ridono alle sue spalle e lei è incapace di relazionarsi con gli altri. Mi fa pena, però penso sia un personaggio realistico.

Mi ha interessato molto la città di San Francisco come appare nel romanzo, così diversa da quella che conosciamo ora. Come possiamo definire le differenze tra San Francisco e New York nel diciannovesimo secolo?


    Nel diciannovesimo secolo New York era stata abitata per molto più tempo di San Francisco ed era legata all’Europa da vincoli culturali e di scambio. San Francisco era lontana, era difficile da raggiungere. Crebbe smisuratamente durante la Corsa all’Oro: era un villaggio di un migliaio di abitanti e raggiunse il numero di 30.000. Dobbiamo ricordare che la California non era ancora parte degli Stati Uniti.
San Francisco era piena di uomini e c’erano pochissime donne. Gli uomini andavano là per fare fortuna. Era stata un piccolo porto e poi, quando tutti i marinai  si diedero alla ricerca dell’oro, centinaia di imbarcazioni furono abbandonate. Non c’erano strutture sociali, non c’era niente a trattenere gli uomini dall’essere selvaggi. Si mirava a far soldi velocemente, si giocava d’azzardo, si andava a puttane, ci si ubriacava. In genere le città non crescono così velocemente. Questo faceva la differenza con New York dove c’erano scuole e strutture sociali del tutto assenti in San Francisco.

l'intervista sarà pubblicata anche su www.stradanove.net


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