domenica 21 febbraio 2016

Kent Haruf, “Canto della pianura” 1 ed. 2015

                                          Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
                                                       romanzo 'romanzo'
   FRESCO DI LETTURA


Kent Haruf, “Canto della pianura”
Ed. NN, trad. Fabio Cremonesi, pagg. 301, Euro 15,30


      Non potevo aspettare. Ho terminato di leggere “Benedizione” e ho incominciato subito “Canto della pianura”: un chiaro caso di sindrome di astinenza da Kent Haruf, una volta che l’ ho scoperto. Un’osservazione sui titoli dei libri di Kent Haruf, essenziali come il suo stile, come le sue storie: Plainsong, l’originale di “Canto della pianura”, è anche il canto monacale, inebriante nella sua nudità, ed è, sì, il canto della pianura da cui Haruf trae gli accordi per i suoi romanzi, illuminando di una fascino antiquato la sua cittadina fittizia di Holt (si è ispirato a Yuma, in Colorado, dove ha vissuto negli anni ‘80 del 1900), Eventide è il titolo del libro che chiude la trilogia e che deve ancora essere tradotto- ‘sera’, ma anche ‘vespro’, ricco di suggestioni che lo collegano alla musica di Plainsong e alla meditazione sull’ultimo mese di vita di Dad Lewis, su ‘quel che resta del giorno’, per dirlo con il titolo del bellissimo romanzo di Kazuo Ishiguro.

    Anche in “Canto della pianura” seguiamo diversi filoni narrativi che si intrecciano con le storie di persone che abitano a Holt- il professore di Storia americana Guthrie, i suoi figli Ike e Bob, di dieci e nove anni, la diciassettenne Victoria, per metà di sangue indiano, e gli anziani fratelli McPheron. Posso darvi alcuni indizi su quello che accade- tanto e poco. Guthrie ha una moglie che soffre di depressione e che se ne va di casa (ma il matrimonio è già finito), deve affrontare un alunno difficile che pretende di essere promosso per andare al college, ma non ha mai studiato (e i genitori, rozzi e ignoranti quanto lui, lo spalleggiano), troverà infine un nuovo amore. I due ragazzini soffrono per l’allontanamento dalla madre e fanno le prime scoperte sulla vita (le sigarette, il sesso, trovare una donna morta). Victoria viene messa fuori casa dalla madre perché è incinta e una sua insegnante chiede per lei ospitalità presso i fratelli McPheron. Questi sono due personaggi straordinari, il ‘tesoro’ del libro. Non hanno potuto studiare, si intendono di vacche, non sanno nulla di ragazze giovani e tanto meno di ragazze incinte- forse, però, la nascita di un bambino non è tanto diversa da quella di un vitello. Commuove vedere come i due uomini, non più giovani, certamente non spinti da alcun motivo egoistico, si addolciscono, si prodigano perché Victoria si trovi bene, stia bene, sia felice. Si sforzano di fare conversazione con lei, lambiccandosi il cervello per trovare un argomento (sono teneri e buffi), la accompagnano a comprare una culla (e deve essere la più bella). Eppure il mondo è buio, è più facile pensare il Male che il Bene, quello che i McPheron stanno facendo è incomprensibile ai più che si domandano perché. Si diffonderanno pettegolezzi, qualcuno arriva a chiedere se facevano i turni con la ragazza- la meschinità e la grettezza, non hanno limiti.


Tutto qui? Sì, tutto qui, c’è un finale per ognuna delle storie, il coro di voci si distende in armonia. Ma è un libro che si deve leggere per capirne la bellezza. Ho pensato ad altri scrittori della quotidianità- a Elizabeth Strout e Alice Munro, a John Williams, che non hanno bisogno dell’extra-ordinario per scrivere libri straordinari. Ho anche pensato che forse la letteratura americana è spaccata in due- da una parte gli scrittori di best seller, quelli che sfornano un libro dopo l’altro con un occhio al mercato, e dall’altra gli autori di capolavori, di gemme preziose che illuminano la mente e il cuore dei lettori. Come Kent Haruf.


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