venerdì 22 agosto 2014

Salman Rushdie, intervista all'autore di "Shalimar il clown" 2006

Voci da mondi diversi. Asia
il libro ritrovato
Salman Rushdie durante l'intervista del 2006
INTERVISTA A SALMAN RUSHDIE

E’ ambientato in India e in Europa e in America, il nuovo romanzo di Salman Rushdie, parla di amore, di gelosia, di ricerca di identità, di guerra e di terrorismo. E di un paradiso perduto. Abbiamo parlato con l’autore di “Shalimar il clown”, che, proprio nel corso dell’intervista, ha ricevuto la telefonata con la comunicazione che gli è stato conferito il Crossword Book Award, il premio indiano per il miglior libro in inglese dell’anno.

Il 1947 è la data che ritorna quasi sempre nei suoi romanzi ed è anche la data del suo anno di nascita, proprio come di Saleem Sinai, il personaggio famoso del suo primo libro: come ci si sente nell’avere la stessa età dell’India moderna, come se la sua stessa vita fosse iniziata con quella del suo paese? 

      E’ una strana coincidenza che l’anno in cui sono nato sia lo stesso dell’Indipendenza dell’India ed è questa la ragione per cui ha ispirato molte delle mie opere. In realtà io sono più vecchio dell’India, perché sono nato otto settimane prima dell’Indipendenza. Perciò sono vissuto per otto settimane nell’Impero Britannico. E’ stata una grande scelta da parte mia, tornare a quella data in questo romanzo, perché è la prima volta dopo “I figli della mezzanotte” in cui ho più personaggi del romanzo che sono nati nel ‘47. E tuttavia la storia del Kashmir è molto diversa : “Shalimar il clown” è come l’altro lato della medaglia, è rivisitare la storia de “I figli della mezzanotte” in un’altra maniera.

Il titolo del romanzo è “Shalimar il clown”, eppure Shalimar non è un personaggio positivo, subisce una trasformazione, forse non è neppure il personaggio principale.
       Il titolo del romanzo avrebbe potuto essere diverso, avrebbe potuto intitolarsi con il nome di altri personaggi. Ma Shalimar è quello che compie, nella sua vita, il viaggio più lungo, è quello che cambia maggiormente. Non sono certo che Shalimar sia il personaggio principale, ci sono quattro personaggi che potrebbero reclamare questo ruolo e mi è difficile scegliere. Per alcuni questo è il libro di Max, per altri è di una o l’altra delle donne. Ho messo Shalimar nel titolo perché è il personaggio più strano e  la tragedia nel romanzo non è solo quella contenuta nella sua vita ma è anche quella della Storia che viene elaborata nella sua storia personale. E poi “Shalimar il clown” suona bene, mi piaceva la musica del titolo. E mi pareva interessante anche che la parola clown ritornasse uguale in parecchie lingue europee. Quanto a Shalimar, c’è anche un profumo con questo nome che significa “la casa della gioia”.

Fino a quando il Kashmir, con i giardini di Shalimar, è stato “la casa della gioia”?



    In apparenza il Kashmir è la casa della gioia e il punto del romanzo è proprio la perdita della gioia. In realtà, però, considerando quello che è la razza umana, non siamo mai stati così innocenti. Anche prima della catastrofe il Kashmir non era un luogo perfetto. Quando nel villaggio si discute della storia d’amore tra Shalimar e Boonyi, anche se si pensava che regnasse la tolleranza, la loro è una storia che fa scandalo, la gente si stupisce che il matrimonio venga accettato. E tuttavia, per chiunque conoscesse il Kashmir di una volta, c’era una qualità speciale nella vita della valle: non si trattava solo della bellezza della natura e della gente, ma anche di un’attrattiva speciale nella qualità della vita. C’erano un’armonia e una tolleranza diffusa che sono andate perse: è stata come una caduta dal Paradiso. Neppure in India si conoscono bene quei luoghi, il Kashmir è come una valle sigillata, e io volevo mostrare a tutti i miei lettori quanto fosse bella- sotto tutti gli aspetti- la vita nel Kashmir. Volevo creare un interesse per un mondo che è andato perso, perché se non ti importa di qualcosa, non ti importa neppure che quel qualcosa scompaia.

Ritorniamo al personaggio di Shalimar, il cui vero nome è Noman. Dobbiamo pensare che questo nome abbia anche il significato di “nessuno”?
    Noman è un nome vero, e però mi piaceva che ci fosse l’eco di un incrocio linguistico, che si potesse pensare al significato inglese. Volevo un nome che fosse accettabile come proprio del Kashmir e mi piaceva che avesse anche una risonanza beckettiana.

Parecchi personaggi del romanzo cambiano nome: non solo Noman diventa Shalimar, ma anche Bhoomi diventa Boonyi e India riprende il nome che le aveva dato la vera madre, Kashmira. Il cambiamento dei nomi corrisponde ad un cambiamento di identità?
    In parte il motivo del cambiamento dei nomi è uno scherzo che gioca sull’accumulo: introduci dei personaggi e non gli piace come si chiamano. E’ un modo di dire che molti personaggi sono scontenti della loro vita, vogliono qualcosa di diverso. E tutto questo si esprime nel loro desiderio di cambiare nome. E’ buffo che ci sia un personaggio che non si lamenta del suo nome ed è Max: Max usa un nome imprestato e gli piace. Nella parte della sua vita in cui lotta nella Resistenza, Max falsifica carte d’identità, costruisce delle identità false ed è importante come la scelta del nome possa significare vita o morte. Se hai un nome sbagliato finisci ad Auschwitz. Il nome diventa una questione di sopravvivenza. D’altra parte il nome è anche una maschera: Shalimar preferisce portare la maschera e usa lo pseudonimo.

Come mai ha scelto per Max il nome e cognome del famoso regista tedesco?

     Sapevo dall’inizio che il mio personaggio si sarebbe chiamato Max, non ero certo del cognome. Ophuls mi andava bene perché poteva essere tedesco, ma anche francese, era un cognome ebraico. Il vero nome del regista era Max Oppenheimer: anche lui fa parte di quelli che hanno cambiato nome. Avevo pensato anche a Oppenheimer, ma la verità è che il nome e il personaggio si addicevano bene l’uno all’altro. Inoltre uno dei temi dei film del regista tedesco era quello del tradimento sessuale- pensiamo a “Lola Montez”- e il mio era un romanzo anche sul tradimento e questo mi ha dato una motivazione razionale. Unica differenza è che il mio Max Ophuls non ha la dieresi sulla u.

Un tema importante nel romanzo è quello dei confini e di ciò che i confini significano, lotte personali e lotte politiche.
    Nella mia vita che è iniziata con la Spartizione, quando si tira una linea di confine significa che ci sarà un conflitto. Sono arrivato in Inghilterra che non avevo ancora 14 anni, era il 1961. Dopo pochi mesi è stato eretto il Muro di Berlino- era la costruzione di un altro confine. Per me è stato uno shock, mi richiamava alla memoria la Spartizione, c’era una divisione di confini anche in Europa. La questione delle frontiere, del difendere i confini,  è sempre stata di grande importanza e diventa anche un problema di identità. Ho sempre pensato che Max fosse di Strasburgo e poi ho capito che la sua origine era molto utile per il libro: l’Alsazia ha avuto centinaia di anni di esperienza di confini che si spostano. La sua esperienza permette a Max di capire la situazione dell’India. Quando ho scoperto questa connessione, mi è parso che aiutasse i lettori occidentali perché era una variante dello stesso tema, e i lettori indiani, d’altra parte, potevano pensare che non erano gli unici ad avere avuto un dramma simile. “Shalimar il clown” è un romanzo che vuole creare dei ponti tra due mondi.

Un altro tema in questo romanzo d’amore è quello della vendetta, che tuttavia appare  comprensibile, se non giustificata.
    La vendetta è sempre un motore fantastico in un romanzo, o in un dramma. Poi ho pensato che ci poteva essere una doppia vendetta: non solo Shalimar si vendica, ma anche India. L’idea mi eccitava: non volevo che India fosse interamente passiva, ho pensato che ci potesse essere una specie di capovolgimento, per cui ad un certo punto non si sa più chi è il cacciatore e chi è la preda. Si pensa che sia lei ad essere inseguita, ma- e se fosse il contrario? Ad un certo momento India è contrariata che Shalimar sia in prigione, perché in questo modo lei viene privata della sua vendetta. Il libro inizia come la storia di una vendetta e finisce con un’altra.

I personaggi dei suoi libri hanno spesso una qualche strana particolarità: ne “I figli della mezzanotte” era un naso straordinariamente sensibile, era la mancanza di una mano ne “L’ultimo sospiro del Moro”, la capacità di camminare sull’aria in questo libro. E’ perché la “vita è fantastica”- come dice il pittore Miranda ne “L’ultimo sospiro del Moro” quando invita Aurora a lasciar perdere quegli idioti dei realisti e a dipingere “quello”, cioè la vita fantastica?

    Una volta lo pensavo molto di più di adesso, che la vita fosse fantastica. In questo romanzo il momento del “volo” di Shalimar è uno dei pochi momenti di realismo magico, ma c’era come un crescendo che portava naturalmente a questo momento. D’altra parte il volo è una metafora nel libro, il volo di Shalimar si collega al volo di Max sull’aereo Bugatti per fuggire da Strasburgo. Volevo usare quello che ad un certo punto il padre dice a Shalimar: che, quando siamo interamente noi stessi, possiamo trascendere la vita ordinaria e qualcosa di straordinario diventa possibile. Penso che l’unica maniera di usare questi elementi “magici” è se incapsulano qualche verità, se diventano un modo per comunicare qualcosa di serio sui personaggi. Mi è stato difficile scrivere della vita nel braccio della morte e ho finito per desiderare che Shalimar riuscisse ad evadere- ecco perché mi serviva quella scena.

C’è un parallelo, nel romanzo, tra Max che, quando combatte nella Resistenza, ad un certo punto si rifiuta di eseguire degli atti di terrorismo, e Shalimar. Acquistano un significato diverso azioni simili in diversi contesti?
    C’erano due cose che volevo dire: prima di tutto che non tutti sono capaci di atti di violenza. Per quanto l’azione sia giustificata, come poteva esserlo un attentato durante l’occupazione nazista, Max non riesce ad uccidere. La capacità della più estrema violenza non è universale. Perché uno diventa violento e il suo vicino, con le stesse esperienze, no? Ha qualcosa a che fare con il carattere, ed è questo di cui si occupa il romanzo. Max non ha la capacità di eseguire atti violenti come Shalimar. E poi volevo sottolineare come simili azioni in un contesto diverso abbiano un valore morale diverso. Se paragoniamo le azioni della resistenza francese con gli atti di terrorismo dei ribelli kashmiri, in molti modi gli atti di sabotaggio non sono diversi, ma volevo mostrare che il diverso contesto storico crea conseguenze morali diverse. E’ per questo che l’Alsazia e il Kashmir sono utili nel libro. Quello che mi interessa è porre delle domande e lasciare che il lettore ci pensi- non tutti arriveranno alla stessa conclusione.

Abbiamo visto, sia nel caso del suo romanzo “I versi satanici” in passato sia in quello più recente delle vignette islamiche, che un’opera può essere considerata offensiva: può questo costituire un limite per un artista?

     Il mondo è un luogo duro e non si può costruire un mondo senza offendere delle persone. Non si può fare dell’offesa un limite. E alludo anche a quanto sta accadendo adesso con le vignette islamiche. Se si vuole vivere in una società libera non si può tacere. Il vero problema è nella mancanza di humour. E’ come quello che è successo alla pubblicazione de “I versi satanici”: molti di quelli che reagirono allora non avevano neppure letto il libro e non avevano osservato quindi che era basato su una struttura comica. Ci sono molte cose disturbanti, se non capisci la funzione dell’umorismo nel mondo. L’umorismo ci serve per affrontare le cose difficili. Il problema, sia nel caso de “I versi satanici” sia in quello delle vignette, è la mancanza di umorismo. Il mondo è stato scosso da cose di poca importanza: è una tremenda mancanza di senso delle proporzioni. Se si avesse il senso delle proporzioni, non ci sarebbe questa reazione. E’ un errore storico lasciare che l’intimidazione agisca, il risultato è che ci saranno sempre più episodi del genere. Se “I versi satanici” fosse stato messo al bando, ci sarebbero state più conseguenze, altri scrittori sarebbero stati attaccati- il che non è successo.                                                    

l'intervista è stata pubblicata sulla rivista Stilos     


         




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