sabato 16 agosto 2014

Ha Jin, "War Trash" - Recensione e Intervista allo scrittore

                                                        Voci da mondi diversi. Cina
                                                         il libro ritrovato 
                                                        la Storia nel romanzo

Ha Jin, “War trash”
Ed. Neri Pozza, trad. Monica Morzenti, pagg. 448, Euro 18,00

Nel 1951 il ventiquattrenne Yu Yuan, cadetto dell’Accademia Militare di Huangpu, è mandato a combattere in Corea a sostegno dei nord-coreani. Fatto prigioniero dopo tre mesi di guerriglia,  Yu Yuan viene internato prima nell’isola di Koje e poi in quella di Cheju. Il romanzo è il racconto autobiografico di questo personaggio, le difficoltà quotidiane nei campi di prigionia, le crudeltà subite sia da parte dei filonazionalisti cinesi, sia da quella dei comunisti cinesi e dagli americani. Yu Yuan non è un membro del partito, vuole tornare in Cina perché lì sono sua madre e la sua fidanzata, eppure, per salvarsi la vita, è costretto a scegliere di andare a Taiwan. Appena può, rovescia però questa decisione e viene rimpatriato nel 1953. Ed affronta la delusione peggiore dopo tante sofferenze.


INTERVISTA A HA JIN, autore di “War trash”

 “War trash” è indubbiamente il più sofferto e il più amaro dei tre libri di Ha Jin, scrittore cinese che vive in America e scrive in inglese. “War trash”, rifiuti di guerra: sono parole che pesano come piombo e che ricorrono nel libro quando si parla della condizione dei prigionieri, dapprima come timore e poi come triste conferma di essere trattati come tali dopo il ritorno nella Repubblica Popolare Cinese- immondizia da allontanare con un calcio. Perché avevano giurato che non si sarebbero mai arresi, si sarebbero suicidati piuttosto che farsi prendere prigionieri, e quindi sono colpevoli, sospetti di spionaggio o di collaborazionismo. E così, dopo che il protagonista narratore ha sopportato due anni di internamento, di fame, sofferenze e angherie (i filonazionalisti gli hanno tatuato sulla pancia la scritta “Fuck communism” per metterlo in condizione di non poter tornare in Cina), al suo ritorno apprende che la madre è morta e la fidanzata lo ha lasciato, viene  forzato a fare autocritica e infine emarginato. Il tatuaggio, già trasformato una prima volta in Cina in una scritta antiamericana (“Fuck…u..s..”), gli viene definitivamente rimosso mezzo secolo dopo con un’operazione chirurgica in America.
campo di prigionia di Koje
E viene rimosso pure tutto il suo passato, perché - scrive il settantaquattrenne Yu Yuan, ormai nonno di nipotini americani- “Non si tratta della nostra storia. In fondo, non sono mai stato uno dei loro. Non ho fatto altro che mettere per iscritto quello che ho vissuto.” Il romanzo “War trash” di Ha Jin è il diario fittizio di un uomo che non è un eroe, non ha una fede politica e neppure una grande cultura, in una scrittura piatta, senza sbalzi né voli, senza tradire grandi emozioni. Piuttosto un’accettazione della realtà di una guerra poco sentita, l’attonito stupore davanti alla morte (quel battaglione di 400 uomini morti assiderati, in piedi come un esercito di ghiaccio), l’orrore colmo di paura alla vista delle torture (gli americani non possono competere con la raffinatezza delle torture cinesi), la lenta presa di coscienza che non c’è differenza tra i metodi dei cinesi comunisti e quelli dei cinesi di Chiang Kai Shek, il senso di colpa per le rovine causate nella Corea del Nord. Nel logorio quotidiano per la ricerca di una qualche sopravvivenza fisica e morale, Yu Yuan legge la Bibbia, per tenersi in esercizio con l’inglese, per sentirsi meno solo, e invece è qualcosa in più che lo differenzia dagli altri: “perché non riesco a trovare veri amici? Perché sono sempre solo? Dove potrò sentirmi davvero a casa?”. Durante il Festival della Letteratura di Mantova Stilos ha incontrato Ha Jin, pseudonimo di Xuefei Jin, in cui- come ci spiega lo scrittore- Jin è il suo cognome e Ha è la prima sillaba della città di Harbin in Cina, dove ha vissuto per quattro anni.

 I suoi tre romanzi sono tutti piuttosto “cupi”: è la sua esperienza personale che le fa avere questa percezione scura della vita?
      Sì, forse sì, perché sono cresciuto in una società oppressiva e questo ha inevitabilmente foggiato la mia percezione del mondo. Questo spiega anche perché mi piacciano i grandi scrittori russi, Dostojevskij, Cechov e Gogol, perché il loro mondo è simile a quello che ho sperimentato. Un mondo oppressivo politicamente e socialmente- perché sia politicamente oppressivo è chiaro, socialmente oppressivo perché in Cina non ci si poteva spostare: risiedi in un luogo e non hai il permesso di cambiare residenza. La movibilità è scarsissima nella maggior parte del paese. Anche la famiglia è oppressiva, ci sono dei rapporti molto stretti ma la mentalità è di tipo feudale. I cambiamenti sono molto lenti e nella Cina moderna, nonostante tutto, non è molto diverso.

Perché ha scelto la guerra di Corea come soggetto per questo romanzo?
    Quando si inizia a scrivere, si scrive per cercare di sopravvivere- almeno, questo è stato il mio caso- e l’argomento non è l’unica ispirazione, ci si butta su un soggetto che si conosce. Dopo il  secondo libro il mio editore mi faceva domande sul mio nuovo romanzo, ma non c’era nessun romanzo e io non sapevo che cosa scrivere. E’ stata mia moglie a suggerirmi la guerra di Corea. Mio padre era un veterano della guerra di Corea, era stato ferito ma non prigioniero. Lui e i suoi amici parlavano spesso di quella guerra. Pensavo che avrei scritto qualcosa di breve, non sapevo bene che forma dare al mio libro. Conoscevo molto bene le “Memorie dal sottosuolo” di Dostojevskij ed è a quello che ho pensato come un modello per “War trash”. Dapprima ho scritto diversi episodi senza completarli, poi ho iniziato a scrivere e non riuscivo a smettere e ho trovato che ero preso da quella storia più di quanto avrei potuto pensare. La ragione per cui non potevo smettere era perché dentro di me c’era in agguato la paura, quella che avevo provato da giovane, quando ero un soldato ed eravamo vicino al confine con la Corea e avevamo paura di essere presi prigionieri più ancora che di morire. Avevo un vantaggio nello scrivere questo libro, conoscevo i luoghi: il primo anno in cui ero soldato, non vivevamo nelle caserme ma eravamo alloggiati in un villaggio coreano. Temevo che avrei offeso tutti con questo libro, cinesi, coreani e americani, ma ho continuato a scrivere perché stavo scrivendo qualcosa che sentivo profondamente, la verità di quello che era successo durante la guerra in Corea.

Lei ha servito giovanissimo nell’esercito: perché è entrato nell’esercito di Liberazione del Popolo e quanto è durato il suo servizio militare?
       Sono stato nell’esercito per cinque anni e mezzo e sono entrato a farne parte quando avevo quattordici anni. Quando iniziò la Rivoluzione Culturale, furono chiuse tutte le scuole e non avevo altra scelta. Quando poi le scuole sono state riaperte mi sono iscritto all’università.

Perché ha scelto di far raccontare la storia da un prigioniero di guerra?
    Quando si parla della guerra, la storia viene sempre raccontata dalla parte del vincitore. Io invece volevo farlo dalla parte di un prigioniero, dal punto di vista del fallimento. Volevo che fosse un perdente a raccontare la storia, uno che soffre.
prigionieri di guerra cinesi tentano la fuga

Yu Yuan è un antieroe, dice di continuo che quello che vuole è tornare a casa, e casa è dove sono la madre e la fidanzata, non gli interessano le idee politiche.
     Yu Yuan dice che crede nel socialismo ma non nel comunismo. Quello che lo motiva è la lealtà personale: ha promesso alla madre e alla fidanzata che tornerà. E’ quello che lo spinge a resistere. Anche se le motivazioni politiche sono importanti, quelle personali sono più importanti degli slogan e delle idee politiche. Le idee politiche cambiano di continuo. In un certo senso cerca di adempiere la sua promessa, è un uomo d’onore. E però la sua “casa” è stata cambiata nel frattempo e lui non lo sa- anche se non possiamo biasimare la sua famiglia, anche quelli che sono rimasti in Cina sono delle vittime.

C’è qualcosa di profondamente vero in quello che dice Yu Yuan, che non c’è differenza tra i due partiti cinesi?
      In ogni fazione ci sono delle brave persone, anche i peggiori hanno qualche rispettabilità. Io cercavo di vedere le due fazioni di comunisti al di là del loro credo politico, di vedere qualcosa di positivo al di là dei problemi di sopravvivenza del personaggio. Yu Yuan si sente tradito, all’inizio sospetta che vengano tessuti degli intrighi da parte dei capi, poi vede la verità e diventa più vigile, inizia a pensare di più. Diventa gradualmente più maturo attraverso la sofferenza. Possiamo dire che, in un certo senso, “War trash” è un romanzo di formazione, e in quel senso Yu Yuan è un eroe, un tipo diverso di eroe.

Perché la Cina di Mao rivoleva indietro i prigionieri se poi dovevano essere puniti per essersi lasciati prendere prigionieri?
     Per due motivi: per salvarsi la faccia, perché, se non li avessero voluti indietro, questo avrebbe indebolito il loro morale e avrebbe danneggiato la loro immagine internazionale. Se non li reclamavano indietro loro, sarebbero finiti a Taiwan, ad aumentare le file dell’esercito del nemico. Per questo hanno insistito perché rimpatriassero. Ma in Cina non servivano ed è stato questo il tradimento peggiore: “War trash” è un romanzo del tradimento, tradimento delle idee, della madrepatria, della fidanzata.

La vergogna per essere stati fatti prigionieri è qualcosa di difficile da capire per noi occidentali. Qual è il pensiero che c’è dietro questa vergogna?
    Ai soldati era stato insegnato che è una vergogna essere catturati. Per tradizione la cultura cinese non trattava i prigionieri come esseri umani e i soldati pensavano che la scelta fosse o morire o tornare come eroi. Essere presi prigionieri era fonte di vergogna e di colpa, la colpa di non avere combattuto fino alla morte, la vergogna per apparire dei vigliacchi. Era tutta propaganda, naturalmente.

Restiamo impressionati dalle descrizioni di quanto avvenne nei campi per prigionieri eppure, non importa dove e quando, le scene di sadismo e crudeltà sono sempre le stesse. Pensava ad Abu Grabi e a Guantanamo e alle immagini che abbiamo visto, quando ha scritto il romanzo?
      No, avevo già finito il libro quando si sono viste quelle immagini, ma questa è una prova che tutti i campi di prigionia sono uguali. Non c’è modo di controllare quello che succede durante la guerra, in tutti gli eserciti si sono sempre verificate delle atrocità.

Non è insolito per un cinese leggere la Bibbia, come fa Yu Yuan?
    Nella sua situazione non era insolito, perché aveva frequentato una scuola delle missioni dove aveva anche imparato l’inglese e gli americani amavano fare proselitismo nei campi. I prigionieri potevano trovare la Bibbia nei campi anche se i comunisti cercavano di impedirlo. E infatti, quando Yu Yuan torna in Cina, non osa portare la Bibbia con sé.

“Questa non è la nostra storia”, dice Yu Yuan. Perché Yu Yuan si distacca dalla storia che ha raccontato?
     Yu Yuan voleva dire, “ho scritto quello che ho sperimentato”, voleva dissociarsi dai comunisti. Non è una storia collettiva, eppure, in un certo senso è una storia collettiva. Lui cerca di farne una storia individuale, ma è impossibile distaccarsi dagli altri prigionieri.

Sono stati pubblicati i suoi romanzi in Cina?
     Solo “L’attesa” è stato pubblicato e non credo che gli altri saranno mai pubblicati se non cade il regime comunista. La censura non è molto cambiata, politicamente la Cina non è cambiata. C’è una lista di argomenti tabù e Tienanmen e la guerra di Corea sono tra questi, perché potrebbero minare la legittimità del governo.

Fino a che punto l’usare un’altra lingua le fa sentire di perdere la sua identità, e fino a che punto, invece, è un arricchimento, quasi un raddoppiamento della sua identità?
      Da una parte usando un’altra lingua si ha l’opportunità di creare un altro tipo di identità. Però è più facile a dirsi, perché l’incertezza è grande. Sono ancora incerto adesso su fino a dove io possa spingermi. L’identità deve essere guadagnata, e io me la devo guadagnare, non sono ancora uno scrittore americano, non ho ancora scritto un libro americano. Anche se “War trash” è un libro di transizione, perché non è ambientato né in Cina né in America, ma in un terzo paese. Dal mio prossimo libro le mie storie saranno ambientate negli Stati Uniti e i personaggi saranno immigrati cinesi- come me. C’è una grande perdita nell’usare un’altra lingua, so che non posso scrivere come Joyce o Faulkner, è come essere azzoppati. Nabokov diceva che per lui scrivere in inglese era una tragedia personale, pensava di poter fare di più nella sua lingua. Forse non poteva fare meglio, ma nella sua lingua madre poteva dare tutto se stesso. Ecco perché c’è un senso di perdita.

E’ ritornato in Cina di recente?
     Non sono più tornato in Cina. Dopo i fatti di Tienanmen, quando ho deciso di restare in America, mi è stato impossibile tornare perché il mio passaporto non era stato rinnovato dalle autorità, visto il mio atteggiamento apertamente critico su Tienanmen. Avrei voluto tornare per rivedere la mia famiglia e poi, con il passare del tempo, non ne avevo più tanta voglia, si crea un vuoto quando sai che non troverai più quello che ricordi. Seguo le vicende ufficiali della Cina, ma non so molto della Cina moderna, non ho più il senso della vita quotidiana: ecco perché non scriverò più della Cina. Sono diventato qualcun altro, lo devo accettare.

 la recensione e l'intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos


                                                                                                      

Nessun commento:

Posta un commento