Voci da mondi diversi. Egitto
Ashraf al-Ashmawy, “Toya”
Ed.
Brioschi, trad. E. Bartuli, G. Longhi, pagg. 248, Euro 18,00
Yussef, figlio di padre egiziano e di madre
inglese, non è un idealista come il padre, un medico che ha dedicato la sua
esistenza a curare i diseredati del Sudan. Yussef ha studiato medicina come il
padre ma gli piace la bella vita, mira a fare carriera e carriera per lui
significa denaro e ricchezza. Va a Liverpool, dove vive la madre, per
conseguire il dottorato- forse ritornerà al Cairo, intravvede ottime
possibilità di successo per una clinica privata che intende aprire laggiù. Sua
madre è contraria, vuole tenerselo vicino, incoraggia la sua relazione (molto
tiepida da parte di Yussef) con la bionda Katherine che è innamorata di lui.
Finché Yussef incontra il professor Randall che gli pone una domanda e gli fa
un’offerta.
La domanda è, ‘che cosa significa per lui essere un medico?’, e l’offerta è una collaborazione per fare ricerca su un farmaco che aiuti a curare la lebbra. Yussef dovrebbe andare per sei mesi in Kenya.
Yussef parte, anche se il suo intento è ben
lontano da quello del professore. Tutto il contrario. Si dedicherà alla
ricerca, ma pensa solo al vantaggio che gliene verrà, a come lo avvicinerà al
termine del suo dottorato, alla possibilità di coinvolgere il professore nella
futura clinica al Cairo.
Durante il viaggio per mare Yussef conosce alcune delle persone con cui dovrà avere a che fare durante il suo soggiorno- una di queste sarà suo amico, un’altra diventerà suo nemico, simbolo di un male assoluto. E dapprima Yussef si dedica alla ricerca quasi di malavoglia, con scarse speranze di successo, e conta i giorni che lo separano dal suo rientro a Liverpool. Poi incomincia gradualmente a cambiare. Quanto incidono, su questo cambiamento, l’amicizia improbabile con un ragazzino kikuyu sveglio e accattivante, la folgorazione per una ragazza bellissima che si chiama Toya, quasi come la regina egiziana madre di Ramses II, e il nuovo desiderio di aiutare gli ammalati di lebbra? Inoltre non può non lasciarsi coinvolgere dallo sdegno e dall’orrore quando scopre le macchinazioni di Neville (il bieco individuo conosciuto sulla nave) in combutta con il nero Iray che, per quanto possa sembrare impossibile, agiscono con il tacito assenso delle forze governative. Ogni denuncia sarà inutile, il risultato sarà una tragedia.
Il romanzo di Ashraf al-Ashmawy, uno dei tre selezionati nella Long List per l’International Prize for Arab Fiction del 2013, è come una favola dell’Africa nera. C’è molto di nero, anzi di nerissimo, in questa storia, oltre al colore della pelle dei kenioti, c’è una malattia che da sempre è stata considerata una maledizione, c’è l’ignoranza di un popolo primitivo che crede che la furia di un vulcano possa essere placata con sacrifici umani e c’è lo spregevole sfruttamento di questa ignoranza da parte dei bianchi per i loro scopri di lucro.
C’è poi del rosa per attenuare l’oscurità del male, la speranza di un amore che superi le barriere, che crede che la felicità possa essere ‘due cuori e una capanna’, in senso letterale. Ed è prevedibile che tutto finisca molto male. E però, come nelle favole, i personaggi sono piuttosto schematizzati- o bianchi o neri (e non intendo per il colore della pelle), o buoni o malvagi- e il grande amore, proprio come avviene in tutte le favole nonché in molti romanzi, non trova una giustificazione se non nell’attrazione fisica.
Tuttavia “Toya” si legge con piacere,
lascia gustare il fascino dell’Africa, lancia messaggi su cui riflettere (non
fanno così anche tutte le migliori favole?), svela realtà scomode che troppo
spesso non vogliamo vedere.
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