sabato 29 ottobre 2016

Henning Mankell, “Stivali di gomma svedesi” ed. 2016

                                                                       vento del Nord
        cento sfumature di giallo
         FRESCO DI LETTURA

Henning Mankell, “Stivali di gomma svedesi”
Ed. Marsilio, trad. A. Stringhetti e Laura Cangemi, pagg. 425, Euro 19,50


     A un anno dalla morte di Henning Mankell, è come se la sua voce ci giungesse dall’aldilà in questo romanzo appena pubblicato in Italia ma apparso in libreria in Svezia prima della sua scomparsa. Anzi- e questa è una cosa bellissima- è come se lui fosse ancora qui fra noi, ad aiutarci a capire la realtà che ci circonda, Scrivo per cercare, in un modo o nell’altro, di rendere il mondo più comprensibile, aveva detto. E’ come se non ci avesse mai lasciato.
     “Stivali di gomma svedesi” è un libro molto bello e molto triste, è percorso da quel filone di tristezza che già avevamo notato in “Scarpe italiane”, ne “L’uomo inquieto” o ne “L’occhio del leopardo”, per non dire di “Sabbie mobili”, il libro in cui Mankell affronta a viso aperto la sua malattia. Una tristezza che non si può rifiutare e a cui non si può reagire, perché fa parte dell’ordine delle cose, è come la lieve malinconia che ci prende all’ora del tramonto con la consapevolezza che il giorno si chiude, cala la notte, chissà se il sole sorgerà ancora.

      Il protagonista di “Stivali di gomma svedesi” è lo stesso di “Scarpe italiane”, quel Fredrik Welin che era stato un noto chirurgo e che, dopo un grave errore durante un intervento, si era ritirato a vivere in totale solitudine sull’isola dell’arcipelago in cui un tempo avevano abitato i suoi nonni. Il romanzo inizia con un incendio- durante la notte la casa di Welin (io narrante della vicenda) è divorata dalle fiamme. Lui stava dormendo, è riuscito a fuggire fuori, vestito alla bell’e meglio, con due stivali spaiati ai piedi. Welin perde tutto nell’incendio, si adatta a vivere nella roulotte in cui stava la figlia Louise, quando veniva sull’isola. Quella figlia di cui Welin non sapeva nulla finchè- e questa è la storia di “Scarpe italiane”- Harriet era apparsa sul ghiaccio spingendo un deambulatore: veniva a trovarlo, uscendo dal passato, perché lui mantenesse la promessa di portarla a vedere il lago di cui un tempo le aveva parlato. Una stranezza: tra le ceneri della casa balugina la fibbia di una delle scarpe che l’italiano Giaconelli aveva fatto per Welin. E’ l’unica cosa che è rimasta e ci sembra che sia un indizio del declino di tutto, del sottotono in cui saranno vissuti i giorni da ora in poi: Welin aspetterà per tutto il libro che arrivino nel negozio degli stivali di gomma verdi (stivali e non scarpe, per queste è passato il tempo), corteggerà la giornalista molto più giovane di lui, senza speranza e consapevole del rischio del ridicolo e del patetico, si dibatterà nel dubbio se valga la pena di ricostruire la casa, mangerà pane e burro e si scalderà dei barattoli di minestra.

     Welin sarà sospettato di aver appiccato lui stesso il fuoco alla sua casa, finché ci saranno altri incendi, di uno in particolare Welin non può essere responsabile perché è a Parigi alla ricerca della figlia, arrestata per borseggio, e allora cade l’accusa nei suoi confronti. Se la domanda ‘chi è il piromane dell’arcipelago?’ è il filo conduttore della detective story, l’altra domanda, che si pone Welin (e ognuno di noi potrebbe rivolgerla a se stesso),  è esistenziale- ‘chi sono io in realtà? Sono quello che gli altri conoscono? E che cosa ho fatto della mia vita?’- ed è il cuore del romanzo, un libro sulla solitudine che- lo si avverte in ogni pagina- è stato scritto da un uomo che sente la morte alitargli sul collo (usa proprio questa frase, Mankell, parlando di un altro personaggio, un poco ipocondriaco). Welin ha settant’anni, incomincia ad osservare di essere sempre il più vecchio dovunque vada, il pensiero di essere sulla linea di confine è inevitabile. Muoiono parecchie persone nell’arcipelago, e non sono le morti violente con cui ha a che fare il commissario Wallander. Questa è gente che muore perché è arrivata la loro ora, di infarto o per un ictus. E Welin si misura la pressione e controlla il battito cardiaco. E ricorda. Un ragazzo a cui ha dovuto annunciare che aveva un tumore (e pare proprio il tumore che ha colpito lo stesso Mankell), la ragazza che aspettava un figlio da lui e lui ha fatto abortire, la sua ‘prima volta’, suo padre (un cameriere che riusciva sempre a farsi licenziare), i nonni.

           Non è solo la cupezza della vecchiaia e di quello che essa porta con sé a pesare su Fredrik Welin. Non è un uomo simpatico, Welin. Ha trattato male molte persone, l’acqua gelata in cui si immerge ogni mattina è fredda quanto il suo cuore. Ma è onesto con se stesso e, arrivato alla resa dei conti, non si nasconde nulla. E tuttavia, valutando le sue prospettive di esistenza futura, c’è una nuova presenza che gli scalda l’anima- la bimba appena nata di Louise che, piccola com’è, in incubatrice, aggrappata alla vita per un soffio, è la promessa di un futuro in cui lui non ci sarà più ma ci sarà qualcosa di lui in lei.

      E’ la maniera del nostro Mankell di dirci addio. Non c’è più ma ci sarà per noi dentro i suoi libri.

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net


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