mercoledì 5 ottobre 2016

Marceline Loridan-Ivens, “Et tu n’est pas revenu” ed. 2015

                                                             Diaspora ebraica
              Shoah
              il libro dimenticato

Marceline Loridan-Ivens, “Et tu n’est pas revenu”
Ed. Grasset, pagg. 107, Euro 12,90
Edizione italiana: Marceline Loridan-Ivens, “E tu non sei tornato”, ed. Bollati Boringhieri, trad. M. Capuani, pagg. 105, Euro 12,90, ebook 6,99

   Quanto si può dire, in 107 pagine. Ci può stare tutta una vita, in 107 pagine. Quanto amore ci si può mettere, in 107 pagine. “Ho vissuto perché tu volevi che io vivessi”, scrive Marceline Loridan-Ivens nell’ultima pagina. E quel ‘tu’ è suo padre e tutto il libro è una lettera d’amore per suo padre che non è tornato dai campi di concentramento.

    Era il 1944 quando la giovanissima Marceline Rosenberg (aveva appena sedici anni ma già si era unita alla Resistenza francese) fu arrestata dalla Gestapo con suo padre, ebreo polacco emigrato nel 1919 in Francia, un paese che amava e dove pensava sarebbe stato al sicuro. Furono portati ad Auschwitz-Birkenau con il convoglio numero 71, lo stesso in cui si trovava Simone Veil che diventò amica di Marceline (e lo fu per tutta la vita). Bergen- Belsen dopo Birkenau, Theresienstadt infine dove il 10 maggio 1945 arrivò l’Armata Rossa a liberare i prigionieri.
    Il racconto di Marceline parte dal pezzetto di carta sporco e strappato che in qualche maniera suo padre era riuscito a farle avere laggiù, a Birkenau, così vicina e così lontana da Auschwitz dove era lui. Un pezzo di carta che valeva un tesoro per lei, che significava che lui era ancora vivo e chissà che cosa aveva dato in cambio di quel favore pericoloso all’uomo che le aveva consegnato il messaggio. “Ma chère petite fille”- erano molto legati, Marceline e suo padre. Molto di più che lei e sua madre- Marceline ha parole dure per sua madre, e a ragione. Al suo ritorno la madre è come tutti quelli che non capiscono, che non vogliono sapere. Anzi, sua madre le chiede se è ancora integra, se potrà ancora trovare qualcuno che la sposi. Una domanda e una preoccupazione che suonano addirittura grottesche.
Marceline ricorda le parole di suo padre mentre erano internati a Drancy, quando ancora non potevano neppure immaginare che cosa li aspettasse. Lei pensava li avrebbero fatti lavorare e si sarebbero potuti vedere la domenica. Lui le aveva detto, “Tu forse ritornerai perché sei giovane, io non tornerò”. E non era tornato. Marceline racconta della vita nei campi, di due fuggevoli incontri con suo padre, della liberazione, del ritorno, dell’attesa quotidiana, giorno dopo giorno sempre più sfiduciata, del ritorno del padre. “Saresti dovuto tornare. Ho sempre pensato che per la famiglia sarebbe stato meglio tornassi tu e non io. Avevano bisogno di un marito, di un padre, più che di una sorella.” E’ il senso di colpa di chi è sopravvissuto. Cinque anni dopo la fine della guerra, al mancato ritorno, suo padre fu dichiarato morto. E sua madre si risposò, con un uomo che aveva perso moglie e cinque figli nei campi e che a Marceline non piaceva.
Marceline con il marito Joris Ivens


     Va avanti e indietro, il racconto di Marceline. Ci parla del suo incontro con il regista olandese Joris Ivens che poi avrebbe sposato, un uomo geniale e affascinante che aveva trent’anni più di lei: era suo padre che voleva ritrovare in lui? e poi ritorna sempre laggiù, nel luogo da cui nessuno è mai veramente tornato. Alla fine di questo libro, commovente senza eccedere nel sentimento, sobriamente asciutto nel descrivere l’orrore, Marceline chiede ad un’amica, “Ora che la vita sta per finire, pensi che abbiamo fatto bene a tornare dai campi?”. L’amica risponde, “Credo di no, non si sarebbe dovuto tornare. E tu, che cosa pensi tu?”. Marceline non risponde subito, poi dice, “Non sono lontana dal pensare come te.”. Poi però aggiunge un’altra riflessione, un inno alla forza vitale- Ma spero che se la domanda mi venisse fatta di nuovo prima di andarmene, saprei dire che sì, che ne valeva la pena.


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