giovedì 11 dicembre 2014

Arnaldur Indriðason, "La signora in verde" ed. 2006

                                                              vento del Nord
                                                              cento sfumature di giallo
 il libro ritrovato

Arnaldur Indriðason, “La signora in verde”
Ed. Guanda, trad. Silvia Cosimini, pagg. 271, Euro 14,50

Reykjavík, si stanno facendo degli scavi per nuove costruzioni del Quartiere del Millennio. Affiora uno scheletro vecchio di mezzo secolo. L’ispettore Erlendur indaga, con la collega Elínborg e il giovane Sigurður. Insieme allo scheletro viene alla luce una tragedia del passato che ha uno strascico di tristezza nel presente. E intanto Erlendur deve affrontare il dramma personale di trovare la figlia tossica in fin di vita e di scavare in se stesso alla ricerca delle sue colpe.

INTERVISTA AD ARNALDUR INDRIĐASON, autore de “La signora in verde”

     Iniziamo col dire che cosa non è il romanzo dell’islandese Arnaldur Indriðason: non è propriamente un thriller, anche se è retto dalla tensione di scoprire l’identità della vittima; non è una crime story, anche se c’è un delitto; non è una normale detective story (e ci scusiamo per la terminologia inglese, ma ci pare più ricca di sfumature di quella italiana), anche se c’è un ispettore di polizia che svolge un’indagine. E’ un romanzo che contiene elementi di questi generi ma è soprattutto una tragedia in forma di romanzo, una storia di umiliazioni e violenze, di solitudine disperata in un luogo che è di per sé un emblema di solitudine, una vicenda che parla di amore e di incapacità di amare, di rapporti tra genitori e figli. Sullo sfondo di un’Islanda fredda e sferzata dalle bufere in cui l’unica macchia di colore è un cespuglio di ribes sul terreno dove viene ritrovato uno scheletro.  

     “La signora in verde” inizia così, con il ritrovamento dello scheletro, anzi con una festicciola di bambini- la giusta e spensierata allegria dell’infanzia che contrasta con le storie penose di bambini che leggeremo più avanti- e con una bimba di due anni che si mette in bocca, quasi fosse un giocattolo, un osso umano. Lo aveva trovato il fratellino, il festeggiato del giorno, vicino agli scavi per le nuove costruzioni. C’è tutto uno scheletro sepolto sotto terra, pare quasi sia stato sepolto vivo perché la mano è tesa verso l’alto. E la morte deve risalire ad almeno mezzo secolo prima, al tempo della guerra. Ed ecco che la storia inizia a svilupparsi su due piani,il presente e il passato, e quella del presente ha un duplice risvolto- uno che segue il filo delle indagini, le ricerche per sapere chi avesse abitato in quel luogo e se c’era stato qualche fatto inusuale durante l’occupazione inglese e americana dell’isola; l’altro più intimista, il dramma privato dell’ispettore Erlendur, quasi una ripresa con variante della tragedia più grande che è la storia che riguarda lo scheletro. E che è ambientata negli anni della guerra. Arnaldur Indriðason non separa nettamente le due vicende, quella di Erlendur e della figlia Eva Lind e quella della donna che resterà senza nome fino all’ultima pagina, del marito violento di questa e dei tre figli. Si muove da una all’altra, il luogo è lo stesso o quasi, è come se si osservassero diverse stratificazioni di roccia, come se una cinepresa spostasse il suo obiettivo da un soggetto all’altro e la pellicola passasse magari dal colore del presente al bianco e nero del  passato. Erlendur e la sua infelice vita matrimoniale, la donna senza nome e il marito sadico, i figli di Erlendur che lo accusano di averli abbandonati, quelli della donna senza nome che sono paralizzati dalla paura davanti al padre, Eva Lind in coma in ospedale, uno dei figli della donna senza nome che è ancora vivo e in un ricovero, un uomo adulto e gentile con l’età mentale di un eterno bambino. Ed appare chiaro che, sempre, in qualunque tempo e in qualunque contesto, sono i più deboli a soffrire per gli errori e le colpe di ognuno. Stilos ha incontrato lo scrittore islandese per parlare con lui dei suoi insoliti personaggi e delle sue trame inusuali.

Anche il romanzo poliziesco, come qualunque romanzo, ha delle caratteristiche sue proprie che gli vengono dal paese in cui nasce e in cui è ambientato. Che cosa caratterizza il thriller islandese?
      Il mio detective, Erlendur, potrebbe ben rappresentare la singolarità del romanzo poliziesco islandese. Ci sono così tanti personaggi di investigatori e ispettori che, quando ho iniziato la serie, ho pensato parecchio a che tipo di detective volessi. Vivo a Reykjavík e il mio personaggio doveva avere una forte connessione con l’Islanda ed essere il più islandese possibile anche se, pur essendo io stesso islandese, non so bene che cosa questo voglia dire- forse le caratteristiche di un popolo si vedono meglio dall’esterno. Il mio Erlendur ha di speciale che non è moderno, vive nel passato e desidera tornare indietro a tempi più semplici. Erlendur è nato in campagna: negli ultimi 60 anni la nostra società si è trasformata da una società di contadini in una tecnologicamente avanzata. Nel progresso, però, molti vengono lasciati indietro e questi si attaccano alla tradizione. In Islanda vivono 300.000 persone, in 100 anni la nostra lingua scomparirà, sarà morta. Ed Erlendur non vuole che la lingua islandese muoia, non gli piace l’influenza americana sulla lingua e neppure sulla società: Erlendur non metterà mai piede in un McDonald’s. E’ un po’ il prototipo della società originale islandese. Dobbiamo poi ricordare che un altro elemento caratterizzante il romanzo islandese è il tempo atmosferico: nei miei libri non si vede il sole, ma pioggia, neve, gelo. E il clima striscia nella mentalità e nella psicologia delle storie che scrivo. Erlendur è pessimista, e tuttavia è capace di compassione, ha molta umanità, riconosce la sofferenza e la perdita, simpatizza con le vittime. Ma in definitiva la gente è uguale ovunque, in Islanda e nel resto d’Europa.

E’ da pochi anni che leggiamo le traduzioni di thriller di scrittori islandesi: ha una vecchia e solida tradizione, il giallo islandese? C’è un “maestro” del genere, o gli autori di riferimento sono i classici del giallo inglese e americano?
      Non c’è una tradizione di thriller in Islanda, le storie di indagine poliziesca hanno incominciato a diventare popolari negli ultimi dieci anni e per due motivi: perché la gente pensava che Reykjavík non fosse un luogo abbastanza eccitante per storie di assassini e crimini, e poi perché il genere non veniva considerato come “letteratura” e gli scrittori temevano di sminuirsi. Stupidaggini. Però abbiamo una forte tradizione scandinava: i miei autori preferiti, i miei “maestri”, sono stati la coppia svedese Sjöwall e Wahlöö, per il loro realismo sociale.
I due scrittori svedesi non hanno trame alla James Bond, la polizia fa il lavoro ordinario, accade un delitto, la polizia va a parlare con la gente, fa telefonate. Quello che mi affascina è questa normalità, questo realismo. E poi sono un appassionato delle saghe islandesi dei secoli XI e XII, che parlano della gente che costruì l’Islanda, di famiglie, vendette e lotte tra famiglie, onore. E in un linguaggio scarno che ammiro moltissimo.


Entrambi i suoi due romanzi sono lontani dalle storie di crimini usuali, non c’è un assassino a piede libero. Entrambe le indagini paiono dei pretesti per raccontare dei drammi che hanno origini nel passato. Drammi a cui non si può sfuggire, come fossero diretti dal Fato: è così?
     Sono laureato in storia e mi piace ritornare al passato, scoprire il passato. In questo libro la storia risale alla seconda guerra mondiale ed è una storia di violenza domestica. Non so se i personaggi abbiano un destino da adempiere, credo che ognuno si faccia il proprio destino, ognuno ha la responsabilità di comportarsi rettamente. L’assassino nei miei romanzi è qualcuno che puoi capire, non uccide a sangue freddo, ha un motivo per fare ciò che fa e il lettore simpatizza con lui. Un delitto è sempre un crimine, ma c’è un perché e a me interessa questo perché, non tanto trovare chi lo ha commesso. Mi interessa la storia dietro il delitto.

Nel romanzo precedente, “Sotto la città”, ci aveva colpito il tema del genoma: c’era stato qualche fatto particolare che l’aveva portata a scrivere un romanzo poliziesco basato su di questo, sulla scarsità della popolazione in Islanda e quindi sulla maggiore probabilità di ereditarietà di alcune malattie?
     L’idea mi è venuta dalle discussioni che fervevano in Islanda sulla creazione di un database medico. Si stava progettando un archivio medico di tutti gli islandesi in un database. La discussione andò avanti per anni, poi non è mai stato fatto, la maggior parte degli islandesi era contraria. Le opinioni erano due e opposte: viene fatto questo database e se serve a fare delle medicine per curare delle malattie, perché no? L’altra opinione, quella contro, riteneva che si fornissero delle informazioni che rendevano vulnerabili gli islandesi. E, comunque venissero codificate, potevano essere decodificate ed era pericoloso. E così ho pensato al personaggio dello scienziato che guarda il monitor e vede i numeri che si trasformano in nomi. Vede quello della sua famiglia e c’è una malattia nella sua famiglia, un fattore estraneo nel sangue. E va a parlare con la madre e scopre che sua madre è stata violentata…

Ne “La signora in verde” ci sono due temi fondamentali, il duplice dramma della violenza domestica e dell’infanzia vittima degli adulti- o forse il secondo è una conseguenza del primo?
     Assolutamente sì, perché i bambini sono le vittime innocenti della violenza. Sono i bambini e le donne che soffrono. E volevo scrivere un libro su questo. Volevo scrivere del delitto della violenza domestica, del crimine in famiglia che spesso viene nascosto ed è seguito dalla vergogna: la donna non parla, la polizia non interferisce. Volevo far luce su queste sofferenze. “La signora in verde” è il libro più violento che abbia scritto, ci sono dei capitoli così violenti che, mentre li scrivevo, dovevo interrompermi perché mi facevano stare male, e riprendere dopo. Se scrivi sulla violenza, non ci sono compromessi, devi scrivere come è.

In questo romanzo apprendiamo anche che il nome del protagonista, Erlendur, significa “straniero”: è un elemento in più che lo caratterizza?
      Erlendur è uno straniero sotto due aspetti. E’ straniero in letteratura perché non c’erano altri personaggi come lui ed è uno straniero a Reykjavík: non gli piace la città, viene dalla campagna e continua a guardare al passato. Erlendur non è un uomo moderno che vive in fretta.

E apprendiamo pure, dai ricordi della sua infanzia, che anche Erlendur è una vittima in qualche modo- della natura ostile, delle circostanze…

     La sua specializzazione è la ricerca di persone scomparse perché suo fratello è scomparso quando erano bambini. E nel caso de “La signora in verde” lui cerca ancora suo fratello. In Islanda succede spesso che delle persone si smarriscano sulle montagne e che muoiano di freddo. O forse non muoiono di morte naturale. E poi scheletri vengono trovati ad anni di distanza. Erlendur legge tutti i libri che parlano di persone scomparse, non accetta storie di persone scomparse.

Che cosa ha messo di se stesso nel personaggio di Erlendur?
       Come Erlendur, sono anche io amante del passato e sono preoccupato per la lingua e per l’influenza americana in tutti gli aspetti della vita: nei cinema si vedono solo film americani, è quello che vogliono i giovani.

Accanto ad Erlendur lei ha messo un altro personaggio, Sigurður, che è il suo opposto…
     Sì, Sigurður è veramente l’opposto di Erlendur. Volutamente e simbolicamente. Sigurður è il nuovo: non gli interessa la lingua che scompare e neppure il passato, per lui conta solo il futuro. Ha studiato in America e non ha una capacità di compassione come Erlendur- per lui si tratta solo di lavoro. Ma ho messo anche un personaggio femminile accanto a loro, Elínborg, che è la figura materna, a lei piace Erlendur. E’ divertente lavorare con un gruppo di personaggi ognuno dei quali rappresenta qualcosa: il vecchio rappresenta la tradizione, il giovane il moderno e la donna è la via di mezzo.

Nel romanzo hanno grande rilievo le dicerie sulla cometa di Halley e sulla cisterna del gas, tanto che quest’ultima sembra quasi, ad un certo punto, una visione dell’inferno: sono veramente dicerie diffuse?

    La gente continua a parlare del passaggio della cometa la notte del 18 maggio 1910 e della cisterna del gas che ora è in disuso ma una volta era la costruzione più grossa di Reykjavík. Persino io ho sentito raccontare dal marito di mia suocera storie sulla gente che andò lì a passare la notte pensando che fosse la fine del mondo e avvennero fatti da Sodoma e Gomorra…

E’ più facile o più difficile scrivere romanzi seriali con lo stesso protagonista?
     C’è del positivo e del negativo nello scrivere usando lo stesso personaggio: sai quello che hai in mano, ma devi trovare una nuova storia sulla sua vita privata, perché ogni libro è sempre su di lui. In Islanda sono stati pubblicati otto libri con Erlendur, ne ho in mente altri due. E ho scritto anche tre romanzi senza Erlendur: ogni tanto sento il bisogno di qualcosa di totalmente diverso.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos




                                                                                      




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