domenica 12 giugno 2016

Jón Kalman Stefánsson, “Grande come l’universo” ed. 2016

                                                              vento del Nord
                FRESCO DI LETTURA


Jón Kalman Stefánsson, “Grande come l’universo”
Ed. Iperborea, trad. Silvia Cosimini, pagg. 426, Euro 19,00


    Vale per il singolo come per una nazione, chi non conosce il proprio passato, o non vuole affrontarlo, perderà se stesso nel futuro. Chi vuole andare avanti a volte deve prima tornare indietro.
   E’ per questo, per conoscere il passato, che “Grande come l’universo”, secondo capitolo della saga della famiglia di Ari dopo “I pesci non hanno gambe”, trabocca di storie altalenanti tra passato e presente, tra Kefavlik nel sud ovest dell’Islanda e Nordfjordur ad est, da un estremo all’altro di questa isola nera di lava e bianca di ghiaccio, con una popolazione totale di poco più di 300.000 abitanti, colonia danese dapprima, diventata stato sovrano solo nel 1918 per subire una occupazione di forze armate americane, ad intermittenza ma fino al 2006.
   La voce narrante è sempre quella di un oscuro ‘doppio’ di Ari, lo scrittore ritornato da poco in patria dopo un lungo periodo passato in Danimarca. Ari è tornato e, ad un certo punto del libro, si recherà in visita al padre che sta morendo ma, prima, debbono essere raccontate altre storie, bisogna colmare gli spazi lasciati vuoti nel romanzo precedente. Del famoso Oddur, nonno di Ari, della moglie Margrét a cui forse Ari assomiglia- amava scrivere, Margrét, ha lasciato dei diari: possibile che la nonna Margrét avesse coltivato un altro sentimento, per un uomo che, a differenza di Oddur, non viveva solo per il mare ma che guardava le stelle e le aveva insegnato ad amarle? Anche la madre di Ari scriveva, le avevano addirittura pubblicato un racconto che aveva fatto infuriare il marito. Poi ci aveva rinunciato, era nato Ari e dopo lei era morta troppo presto.

     Il tema della morte è un tema cupo di per sé. In Islanda (sarà per quel paesaggio bianco e nero? sarà per il colore del mare che non è azzurro come il Mediterraneo? sarà per le giornate corte e avare di luce per così tanti giorni all’anno?) lo è ancora di più e sono tanti i morti che si affacciano dal passato e si aggirano per le pagine del romanzo di Jón Stefánsson: il ricordo della madre è costante nel pensiero di Ari, ma la perdita più straziante, l’assenza più sentita, il personaggio intorno a cui percepiamo aleggiare un destino tragico (muore giovane chi al cielo è caro), è Porđur che non ha saputo sottrarsi a quello che il padre aveva scelto per lui- “è il mare che ci rende uomini”, diceva Oddur, “il mare decreta se sei un uomo oppure no”. Il mare può decretare che sei un uomo morto, per uno stupido incidente. Porđur il poeta, Porđur che inventava storie per la sorellina, Porđur che la madre avrebbe voluto mandare a studiare a Reykjavic. E, di fronte a queste morti, sbiadisce un poco la lucentezza dell’amore, non c’è niente altro di eterno.

      Un’Islanda che è cambiata (la presenza degli americani è stata responsabile per le nuove ventate di mode e consumismo) e che continua a cambiare è sullo sfondo di tutte le storie di Stefánsson. Il passato non ritorna mai, si può solo ricordare il tempo di una vita più dura e di una più grande semplicità. E c’è rimpianto nel ricordo. Rimpianto per quello che è andato perso. Nel suo diario la nonna aveva scritto, ‘nessuno si preoccupa di cambiare le cose, a parte il proprio taglio di capelli di tanto in tanto e la disposizione delle sedie in soggiorno. Che ne sarà della giustizia e della bellezza, se muoiono gli ideali?’.
     Un pensiero grande come l’universo su cui riflettere.






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