Avevo amato molto i due precedenti
romanzi di Giorgio Fontana, “Morte di un uomo felice” e “Per legge superiore”. Mi
erano piaciuti i suoi personaggi, quello che avevano da dirci, e la ‘sua’
Milano. Lo avevo presentato a Mantova nell’edizione del Festival della
Letteratura del 2012 ed è stato un vero piacere rileggerlo in un libro di così
ampio respiro come “Prima di noi”- un passo avanti nella sua carriera di
scrittore. Ascoltiamo quello che Giorgio Fontana ci racconta del suo romanzo
(al telefono, siamo tutti bloccati in casa per il coronavirus).
Questo romanzo è così diverso dai tuoi precedenti che è d’obbligo
iniziare da ‘i Sartori’. Chi sono i Sartori? Perché i Sartori?
Lo spunto iniziale del romanzo è
nato dieci anni fa e da un fatto della mia famiglia. La storia di Maurizio
Sartori, della sua diserzione, del rifugiarsi nel casolare dove incontrò Nadia,
è quella del mio bisnonno. Poi la sua vita fu tutt’altra: questo non è un
romanzo sulla mia famiglia. Mi sembrava un modo interessante per iniziare un
racconto a lunga campata su una famiglia italiana del 1900- con una duplice
diserzione che pesa sulla stirpe. Sono andato in ordine cronologico con le
invenzioni letterarie. Ho pensato ai figli e poi ai figli dei figli. Non volevo
raccontare la Storia ma gli individui e poi era inevitabile che la Storia
uscisse in filigrana.
Come hai proceduto nella scrittura di un romanzo di così ampio respiro?
Avevi in mente una ‘scaletta’ con i personaggi e avevi deciso fin dall’inizio
‘dove’ collocarli, sia nella storia di famiglia, sia nella Storia d’Italia?
Sono andato procedendo blocco dopo blocco. Avevo chiaro in mente
l’inizio e una mezza idea della conclusione in un arco di quattro generazioni.
Ho inventato la parte che si svolge a Udine e, mentre ragionavo sui Sartori, mi
venivano in mente i dettagli sulla loro indole, sull’aspetto fisico. A livello
pratico affrontavo una ‘fetta’ di anni, aggiustandola un poco e prolungando lo
spazio temporale mentre tenevo ben salda a fianco una scaletta che veniva
rinegoziata durante la stesura: c’erano tante sottotrame da far tornare- ha
richiesto molto tempo. Dopo una prima stesura ho iniziato il processo di
riscrittura e di rimpasto linguistico per dare uniformità al testo. Avevo
impiegato anni a scriverlo e nel frattempo ero cambiato anche io come
scrittore. Nei primi cinque anni ho fatto soprattutto ricerche- parlo di dieci
anni fa, all’epoca avevo appena finito di scrivere “Per legge superiore”. È stato
un lavoro mastodontico. Negli ultimi cinque anni mi sono dedicato alla
scrittura.
Parlando della Storia
d’Italia- cito dal tuo romanzo-, per non “rimanere pietrificati sotto il peso
di quanto accaduto prima di loro”, come hai scelto i grandi eventi di cui
parlare?
Ho seguito un criterio che all’inizio non era conscio ma poi lo è
diventato. Intendevo guardare i grandi snodi della Storia con una prospettiva
di scorcio, con uno sguardo minore. Ad esempio, gli anni ‘30 in Friuli non sono
mai stati molto raccontati. Così, per la seconda guerra mondiale nella famiglia
Sartori abbiamo un imboscato, uno che è prigioniero in un campo di
concentramento in Africa (e anche questa è una Storia che non è stata
raccontata, almeno, non di recente) e uno lambisce la guerra partigiana. Sono
tre storie minori che attraversano questi fatti senza grandi eroismi. Ho voluto
poi tagliare gli anni ‘70 concentrandomi sulla prima parte, gli anni dal ‘70 al
’74, e solo Eloisa è politicizzata, e oltre tutto è un’anarchica. Davide non si
interessa di politica, Libero si preoccupa di sfuggire ai bulli e Diana pensa a
diventare una cantante. Volevo mostrare che non si deve dare per scontato che
un’intera generazione era dedita alla politica. C’erano altre cose che ho
voluto raccontare.
Immagino anche che tu abbia fatto un grosso lavoro di ricerca, anche se
oggigiorno le ricerche sono più facili e forse non è necessario andare alla
Sormani…
Altroché…però sono andato anche alla Sormani, ho frequentato studi e
biblioteche, ho fatto una ricerca fotografica, sono stato alla fototeca di
Udine per vedere le foto del bombardamento del 1944. La cosa cruciale era restituire
non solo il dato storico, ma anche quello sociale: che cosa mangiavano, come si
vestivano, che percezione avevano della libertà, della sessualità, di tutto.
Per me era fondamentale per una storia ambientata nel passato. Mi ha aiutato
anche la memorialistica, oltre che i manuali, per inquadrare la quotidianità.
Un lettore si appropria sempre del romanzo che legge e io ho avvertito
una particolare partecipazione in due momenti storici, quello delle due guerre
e poi le lotte operaie.
Gli anni che ho scritto con più trasporto sono stati quelli dal ‘57 al ‘62,
quando Gabriele si trasferisce in Lombardia, i suoi sogni di intellettuale, e poi
il risveglio delle lotte sindacali e operaie nei primi anni ‘60. Era una storia
poco raccontata dell’Italia del boom da un punto di vista di sghembo- non un
entusiasmo per il progresso senza fine ma la rivendicazione dei diritti. Era un
periodo che conoscevo male, facendo ricerche mi sono appassionato.
Quale dei personaggi hai amato di più?
Li amo tutti incondizionatamente. Alcuni mi sono più cari, ma variano da
giorno a giorno. Amo molto le figure femminili di Nadia e di Diana. Mi piace
Maurizio anche se è un disperato e un vigliacco. Mi sento legato a lui per la
sua lacerazione interiore. Però voglio bene a tutti.
Hai accennato alle donne e allora ti chiedo subito di loro. Quelli delle
donne sono i personaggi più belli, a mio parere. Sono tutte donne forti, Nadia,
Eloisa, Diana. La più debole è forse Letizia: si attenua in lei la sua
‘friulanità’, quella dote di forza interiore delle donne friulane?
È un’osservazione giusta. C’è una compartecipazione di elementi diversi
per fare di Letizia quello che è: non ha la caratteristica durezza, la
determinazione, la compattezza che sono virtù della regione ‘orientale’
d’Italia. Sono virtù che si attenuano insieme al fatto che appartiene a una
generazione che non ha mai affrontato un grosso trauma. Il dolore si conserva e
diventa interiore. Letizia è più fragile ma è quella che tiene le redini in
mano: è lei che alla fine si gira indietro.
Prima ti ho chiesto se ci fosse un personaggio che hai amato di più, ora
ti chiedo se ce n’è stato uno in cui è stato difficile calarti.
Non è stato semplice mettermi nei
panni di Libero e di Dario, che non è molto simpatico. Di certo il più
difficile è stato Domenico.
Ecco, parliamo di Domenico. È un personaggio simile all’idiota’ di
Dostojevskij?
Sì, certo, c’è stata l’influenza di Dostojevskij. Ho voluto incarnare
una figura naturalmente buona e totalmente empatica nei confronti degli altri.
L’idiota gentile. Un aspetto di lui che diventa più marcato quando è
prigioniero e conversa con il ‘profeta’. Domenico risente delle mie passioni
letterarie giovanili per cercare di capire il male del mondo.
Il Friuli. La terra delle radici, la terra di cui si perpetua il saluto
‘mandi’, mi pare un poco sbiadita sul fondo. Volevi forse evitare di scrivere
un romanzo regionale?
È vero, non volevo un romanzo regionale. Nella seconda e terza parte,
però, ambientate in Friuli, ci sono scorci di paesaggi, dei colli e dei fiumi.
Dopo, il Friuli è come una chimera lontana. Non volevo calcare la mano sul
dettaglio regionalistico per non cadere nel cliché. I luoghi sono importanti,
ma non volevo dare una preponderanza di questi sui personaggi. Gabriele- poi-
ha sempre una nostalgia infinita per il Friuli.
Leggere a Lume di Candela è anche una pagina Facebook
recensione e intervista saranno pubblicate su www.stradanove.it
le recensioni dei precedenti libri di Giorgio Fontana sono sotto l'etichetta Casa Nostra. Qui Italia, 2014
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