domenica 26 gennaio 2020

Erika Fatland, "La frontiera" Intervista 2020


                                       vento del Nord
                                       reportage

                                       
    Una intervista per posta elettronica non è la stessa cosa che chiacchierare a tu per tu con una scrittrice, ma la lettura de “La frontiera” mi ha entusiasmato tanto quanto quella di “Sovietistan” e mi ha lasciato con il desiderio di fare delle domande a Erika Fatland, di sentirla parlare ancora del ‘viaggio’, delle sue esperienze, dei paesi che aveva attraversato. Ecco le sue risposte, illustrate dalle fotografie che mi ha inviato, con un’anticipazione sul suo prossimo libro.


La mia prima domanda è una domanda sciocca, fatta da chi ama viaggiare ma non ha mai viaggiato per nove mesi di seguito e quasi mi scuso per fargliela: come è riuscita a fare la valigia? Come ha fatto a tenere puliti indumenti e biancheria durante il viaggio? Molto spesso non ci si ferma abbastanza a lungo in un posto per far asciugare il bucato…


    E’ piuttosto difficile fare la valigia per un lungo viaggio, soprattutto perché avevo bisogno di portare con me indumenti sia per climi caldi che freddi. Per impedirmi di portare troppe cose, in genere viaggio con una valigia relativamente piccola. Per fortuna ci sono negozi dappertutto, perciò, per esempio, prima di avventurarmi nella tundra della Mongolia, ho comperato a Ulan Bator qualcosa di più caldo. La pulizia non è stato un grosso problema. Mi fermavo sempre per due o più notti di seguito e ne approfittavo per lavare le mie cose. Quando affittavo un appartamento tramite Airbnb, mi accertavo che avesse una lavatrice.

Si è mai sentita sola?

     Sì, e spesso. La maggior parte delle sere uscivo per cenare da sola e passavo da sola il resto della sera in un’anonima stanza d’albergo. La connessione wifi era, in genere, molto scadente e non potevo neppure parlare tramite Skype con la mia famiglia a casa. Viaggiare da soli significa passare tanto tempo in compagnia di se stesso, ma significa anche riuscire a conoscere tante nuove persone. Spesso la gente è restia a parlare con un gruppo di viaggiatori, è più facile e più spontaneo quando ce n’è uno solo. Ho incontrato molte persone straordinarie e ho stretto nuove amicizie durante il viaggio.


E non ha mai avuto paura per la sua sicurezza personale? Non è facile per una donna viaggiare da sola. Ha mai avuto la sensazione, viaggiando nei paesi orientali, che il suo aspetto, così diverso da quello dei locali, in un certo senso la proteggesse?

     In termini statistici la cosa più pericolosa che si possa fare nella maggior parte dei paesi è salire su un’automobile. In Cina, ad esempio, ogni anno più di 250.000 persone restano uccise in incidenti d’auto. Ho avuto raramente problemi in quanto donna viaggiando da sola, e però le situazioni più difficili erano sempre su un’automobile. D’altra parte, spesso l’unica maniera di arrivare a destinazione era salire a bordo di un’auto di cui non conoscevo il guidatore. Non ho mai sperimentato situazioni veramente pericolose, ma, mentre la stai vivendo, non sai mai come una certa situazione andrà a finire. Non so se il mio aspetto fisico mi sia servito di protezione, di certo mi rendeva impossibile mescolarmi in una folla.


C’è stato qualche paese, tra di questi, in cui essere donna faceva differenza? Differenza nella maniera in cui la gente la trattava, per esempio?

       Ho sperimentato spesso che gli uomini mi sottovalutano perché sono una donna. In realtà può anche essere un vantaggio perché finiscono per dirmi cose che non avrebbero detto ad un altro uomo. Adesso sto lavorando ad un libro sui paesi alle falde dell’Himalaya e ho viaggiato in quell’area per otto mesi. In Pakistan ho visitato molti villaggi tremendamente conservatori, ma avevo un vantaggio in quanto donna straniera. Alla guida che mi faceva anche da interprete a volte non veniva permesso, come uomo, di entrare nelle case e a volte perfino nei villaggi, ma io, in quanto donna, non ero una minaccia ed ero la benvenuta ovunque. Ad uno scrittore uomo non sarebbe mai stato concesso di parlare con le donne nelle parti conservatrici del Pakistan, ma io potevo parlare sia con gli uomini sia con le donne.

Ha scritto che attraversare un confine è una delle cose più affascinanti: può cercare di spiegarci perché?

      Ormai è raro che attraversiamo confini. In Europa la maggior parte dei confini sono scomparsi e, quando ci avventuriamo più lontano, in genere prendiamo l’aereo. Attraversare un confine è estremamente affascinante perché non si va molto lontano, solo qualche centinaio di metri forse, e, all’improvviso, una volta che si è passati attraverso il controllo dei documenti e si arriva dall’altra parte, tutto è diverso: l’aspetto della gente e il modo in cui è vestita, la lingua, l’alfabeto, i riferimenti storici, la moneta, la politica…Solo il paesaggio resta uguale.

E tuttavia ci ricorda anche tutte le tragedie connesse con i confini: i confini sono più o meno  lunghe fila di cimiteri?

     La maggior parte delle guerre sono state combattute per questioni di confine. Guardiamo il confine della Russia, è cambiato di continuo per secoli, spesso come risultato di una guerra. È ironico che i confini non cambino sempre dopo una guerra ma rimangano gli stessi, soltanto più insanguinati.

Nel libro Lei dice che quasi certamente non è stata soltanto la Russia ad influenzare i paesi confinanti ma anche viceversa. In che maniera? Riesce a pensare ad un esempio, oppure questa è una delle domande senza risposta che il viaggio le ha lasciato?

      Prendiamo la Mongolia, ad esempio. I russi parlano ancora del ‘giogo tartaro’, anche se l’invasione dei mongoli avvenne quasi 800 anni fa, molti russi ritengono ancora Gengis Khan responsabile per aver ritardato lo sviluppo naturale della Russia.

Penso che ci sia di certo qualche paese, tra quelli attraversati, dove le piacerebbe tornare, per conoscerli meglio oppure semplicemente perché se ne è innamorata. Quali sono?
     Ho un debole per il Caucaso, specialmente per la Georgia. Ci sono stata due volte e spero andrò ancora molte altre volte. Mi sono piaciuti molto anche i paesi baltici, anche se non sono lontani come la Mongolia o la Corea del Nord e sono di certo meno esotici. Capisco perfettamente perché Thomas Mann amasse tanto la Penisola di Neringa in Lituania.


Non ci capita mai di pensare alla Norvegia come ad un paese che confina con la Russia. È semplicemente perché non sono mai state in guerra tra di loro, perché la Norvegia non è mai stata occupata? E- tornando alla domanda fatta prima- la Norvegia è stata influenzata dalla Russia? Oppure- la Russia è stata influenzata dalla Norvegia?

    In Norvegia l’ombra della Russia, il nostro grande fratello, non è mai lontana. Nel nord l’influenza è reciproca e lo è stata per centinaia di anni. A Kirkenes, ad esempio, la città più vicina al confine russo, tutti i cartelli stradali sono sia in norvegese sia in russo. Anche se è una vicinanza pacifica, la politica estera della Norvegia ne è sempre stata pesantemente foggiata. Il confine con l’Unione Sovietica è sto il motivo principale per cui la Norvegia è entrata nella NATO fin dal 1949.

La mia ultima domanda non è una domanda, ma un piccolo rimprovero: come può dire che la cucina georgiana è buona come quella italiana? Sono inorridita. Sono stata in Georgia e alla fine del viaggio non ne potevo più di mangiare khachapuri. Davvero, non è possibile fare un paragone…

       Adoro il khachapuri e non penso me ne stuferei mai ma, naturalmente, Lei ha perfettamente ragione. Non è giusto paragonare la cucina georgiana con la cucina italiana. L’Italia è un paese molto più grande della Georgia, ha più regioni e diverse tradizioni culinarie. Non credo che potrei mangiare cibo georgiano ogni giorno, ma so per certo che non avrei problemi a mangiare cibo italiano ad ogni pasto (tranne che a colazione- niente supera una colazione scandinava!)


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intervista e recensione saranno pubblicate su www.stradanove.it






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