giovedì 2 novembre 2017

Paolo Malaguti, “Prima dell’alba” ed. 2017

                                                                  Casa Nostra. Qui Italia
         prima guerra mondiale
         FRESCO DI LETTURA

Paolo Malaguti, “Prima dell’alba”
Ed. Neri Pozza, pagg. 297, Euro 17,00


      Le iniziali di un nome, la data e la causa della morte, per lo più per fucilazione. Si susseguono, queste iniziali e queste morti, tutte di soldati, tutte nel 1917 o nel 1918, sul finire di quella che doveva essere chiamata ‘la Grande Guerra’. Sono l’introduzione ad ogni capitolo del bellissimo libro “Prima dell’alba” di Paolo Malaguti, fanno risuscitare fantasmi di cent’anni fa, sono una sorta di condensata Spoon River italiana, una litania a cui le donne in chiesa rispondevano, ad ogni invocazione, Ora pro nobis. Qui forse bisognerebbe dire Oremos pro vobis.
    Il fatidico mese di ottobre del 1917 che terminò con la disastrosa ritirata di Caporetto è il centro cruciale del romanzo di Paolo Malaguti dedicato ad uno fra tanti di quei fantasmi, all’artigliere Alessandro Ruffini che fu fucilato per ordine del generale Andrea Graziani il 3 di novembre 1917 a Noventa Padovana perché, quando i soldati sfiniti si erano messi frettolosamente in piedi sull’attenti al passaggio inaspettato dell’automobile con a bordo il generale, non si era tolto di bocca il rimasuglio di sigaro che stava fumando. La morte di Ruffini diventa emblematica per tutte le vittime di questa guerra, per i morti falciati dalle granate nemiche e per quelli uccisi per punizione, per aver ceduto allo sconforto, per aver preso decisioni autonome difformi da ordini insensati, per aver avuto una forma di coraggio che era stata scambiata per vigliaccheria.

     Due filoni narrativi ci guidano dentro la tragedia della guerra. Il Vecio è il protagonista del primo, il racconto è in terza persona ma a noi sembra che sia lui a parlare, e insieme a lui sentiamo le voci dei suoi commilitoni, voci che usano spesso parole del dialetto veneto e una terminologia di truppa molto colorata (un glossario a fine libro ci spiega i termini di cui abbiamo intuito il significato- i ‘caramella’, ‘gli aquiloni’, i ‘diomama’), che raccontano i giorni della ritirata di Caporetto e quelli passati in trincea, che parlano di fatalismo rassegnato, di strategie di sopravvivenza, di ricordi ormai vaghi di una vita passata a cui sembra impossibile poter tornare. Almeno, impossibile ritornare come se niente fosse successo, come se si fosse uguali ad un tempo. Impossibile tornare ad una famiglia, quando si sente che la famiglia più vicina è quella dei compagni che hanno diviso le stesse esperienze. E il Vecio non è vecchio, affatto, ma si è meritato il soprannome perché è riuscito a fare tutta la guerra. Suscita addirittura dei sospetti: come ha fatto a eludere la morte?

    Il secondo filone è una manciata di giorni nel 1931 quando un corpo viene ritrovato lungo la massicciata del treno che da Roma va a Bologna e poi a Verona. Il morto è il generale Andrea Graziani e l’ispettore che si reca sul posto è Ottaviano Malossi, della Polizia di Stato nella questura di Firenze. Ottaviano ha 32 anni, è stato uno dei ragazzi del ‘99, quei ‘diomama’ poco più che bambini mandati a combattere nell’ultimo anno di guerra, carne fresca per i cannoni. Con un nome come quello di Graziani, Ottaviano capisce subito che ci sono grane in vista. E infatti. Come avvenne nella realtà dei fatti, il caso viene chiuso rapidamente, anche se Ottaviano non è affatto convinto che si sia trattato di un incidente.

      Molto bello il finale, tristissimo ma di una giustizia poetica. In poche pagine veniamo a sapere anche  il finale della prima narrativa, con il Vecio che si interroga sul significato di tutto quello che è stato, sul dovere dell’obbedienza, e arriva ad una conclusione che è uguale a quella di Ottaviano Malossi. E che ci deve far riflettere, perché- corsi e ricorsi della Storia- è un interrogativo che si ripresenta di continuo, imponendoci delle scelte.

la recensione sarà pubblicata su www.stradanove.net


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