lunedì 20 febbraio 2017

Yehoshua Kenaz, “La grande donna dei sogni” ed. 2005

                                                Voci da mondi diversi. Medio Oriente
          il libro ritrovato


Yehoshua Kenaz, “La grande donna dei sogni”
Ed. Giuntina, trad. Antonio Di Gesù, pagg. 277, Euro 15

Nonostante ciò aveva avuto non poche ore di serenità e persino di gioia. Così, da solo.. Amava la propria stanza che, sì, era veramente modesta ma sempre in ordine, pulita, dignitosa. Non aveva mai aspirato ad altro. Però la domanda “Perché deve essere così?” spesso gli dava molto fastidio. Qual era il suo difetto che lo allontanava dalle amicizie e allontanava gli altri da lui?

    Un condominio alla periferia di Tel Aviv. Davanti, una discarica. Nel centro di questa, come un simbolo di vita nonostante tutto, un albero di ciliegio che non dà frutti, ma con una sua ruvida bellezza nei rami grossi e disordinati che si estendono dappertutto. E’ qui che si svolgono le storie dei personaggi del romanzo dello scrittore israeliano Yehoshua Kenaz, storie di banalità quotidiana, di piccole infelicità che finiscono per occupare il cuore intero di chi le prova, di solitudine disperata nell’ombra di ricordi che si preferisce non evocare.
In due appartamenti vivono due coppie, Malka e Shmulik che non hanno figli, Zion e Levanà che invece hanno tre bambini, in uno abita da solo l’Ungherese, sopra di lui c’è Rosa, la cieca. E, come in una sceneggiatura di teatro senza la barriera delle pareti, l’occhio del narratore e del lettore li osserva vivere, li ascolta litigare e discutere e tacere. Litigano Malka e Schmulik e, quando fanno l’amore, lui le sussurra parolacce; discutono Levanà e Zion, perché lui è tassista, fa il turno di notte e la tradisce di continuo; non ha nessuno con cui parlare l’Ungherese che adesso è in pensione e, se non si vergognasse, andrebbe volentieri a vedere i compagni in fabbrica; quando non urla che tutti la vogliono scopare, Rosa la cieca fa sentire il rumore dei suoi tacchi, avanti e indietro nella stanza. Si sposta sugli uni e sugli altri, in capitoli alterni, questo obiettivo voyeur della cinepresa, un racconto resta sospeso e intanto ne prosegue un altro: Malka esce e Schmulik teme che lei non ritorni; Zion si innamora di una ragazza giovane; l’Ungherese va in visita dal dottor S.; Rosa è ossessionata dalla sensazione che ci sia qualcuno nella sua stanza.
Ognuno di loro soffre a suo modo, di gelosia Schmulik che sente un cane rabbioso ringhiargli dentro, mentre Levanà è dibattuta tra la gelosia per il marito che si porta altre donne in casa e il dolore per la malattia del figlio primogenito, e Rosa e i coniugi S. e l’Ungherese non riescono a liberarsi di fantasmi del passato. Lo stile di Kenaz è asciutto, non concede nulla al sentimentalismo, ci tiene avvinti al dramma giornaliero dei suoi personaggi di cui seguiamo le vicende che intuiamo non avranno una fine felice anche se lo speriamo, come se quel ciliegio nella discarica potesse sorprendentemente dare dei frutti. E quella violenza nascosta, il cane rabbioso che Schmulik avverte in sé, finisce per uscire allo scoperto, ci saranno dei morti, un assassinio, un duplice suicidio, una morte naturale. Ma quello che ci angoscia soprattutto è la solitudine che è l’ultima compagna anche nella morte e che scorta i personaggi nell’aldilà- emblematico è l’Ungherese che viene sempre chiamato così, dal suo paese di provenienza, come se lui avesse voluto dimenticare anche il suo nome insieme ad un’altra vita. L’Ungherese si addormenta per sempre sotto un eucalipto vicino alla fabbrica dove lavorava e dove era andato per guardare da lontano i compagni di una volta, osservatore anche lui della vita degli altri. I due operai che lo trovano al mattino ci dicono finalmente il suo nome, Menachem Grossman, ma ormai non interessa più a nessuno.

la recensione è stata pubblicata su www.alice.it




                                                                                          

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