lunedì 13 febbraio 2017

Alberto Fuguet, “I film della mia vita” ed. 2004

                                   Voci da mondi diversi. America Latina
   la Storia nel romanzo
   il libro ritrovato

Alberto Fuguet, “I film della mia vita”
Ed. Marcos y Marcos, trad. Alessio Cazzaniga, pagg.346, Euro 14,50


     La vita come un film nel rievocare i film che hanno segnato la vita del protagonista e i terremoti come pietre miliari, sia in quanto megaeventi collettivi che colpiscono tutti, sia da un punto di vista personale, come scosse che cambiano il corso ordinario dei giorni. Sono questi i due filoni lungo cui si dipana il romanzo “I film della mia vita” del cileno Alberto Fuguet, con due punti di partenza che poi si ricongiungeranno alla fine: il sismologo Beltràn Soler Niemeyer, in viaggio di lavoro verso Tokyo, riceve la telefonata della sorella che gli annuncia la morte del nonno Teodoro durante il terremoto del Salvador del gennaio 2001. E, in viaggio, Beltràn incontra una donna a cui scriverà raccontando di sé attraverso i film che più gli sono piaciuti.
Ogni capitolo un film, e naturalmente una parte della memoria è una memoria ricostruita, perché il primo film che ricorda è “Nata libera”, quando lui, nel 1966, aveva solo due anni e i suoi genitori lo avevano portato ad un drive-in. La prima parte del libro costruisce la storia di una famiglia cilena emigrata in California. I film punteggiano la crescita di Beltràn, da quelli di Disney a Woodstock, mentre i nonni vengono in visita e emigrati politici in fuga da Allende cercano alloggio in casa loro, il padre di Beltràn assomiglia sempre di più a Steve McQueen, la nonna Guillermina sgozzerebbe Allende con un coltello da cucina mentre il nonno Teodoro, sismologo, pensa solo ai terremoti, gli amici di Beltràn lo invidiano perché ha Yul Brynner come zio e poi, proprio il giorno in cui la sorellina è stata morsicata da un cane, arriva la notizia che Allende è morto e il governo militare ha assunto il controllo del paese. Possono tornare in Cile.
Pinochet
Ma le parole della mamma, “Questa ferita non si cicatrizzerà in fretta”, non si riferiscono solo allo squarcio sulla guancia della bambina. Erano partiti per il Cile per starci tre mesi, nel 1974, e non erano più tornati negli Stati Uniti. Se tutta l’infanzia di Beltràn in America è avvolta in un alone dorato, l’arrivo a Santiago è un brusco cambiamento: soldati dappertutto, l’aria puzza, fa freddo ed è il freddo della povertà. Ancora un film per rendere l’idea del Cile sotto Pinochet: la Santiago del 1974 è come Manhattan distrutta in “2002: i sopravvissuti”. L’orrore dello sradicamento è minore quando succede l’inverso, quando il paese dove arrivi ti offre di più di quello da cui sei partito, e ci vuole tempo per abituarsi. Quello che sembrava esotico, materiale per dei bei racconti al ritorno in California, diventa qualcosa di difficilmente sopportabile quando si sa di dover restare.
John Travolta ne "La febbre del sabato sera"
La scuola, gli amici, la prima ragazza, e il padre che lascia la famiglia la sera in cui c’è la prima de “La febbre del sabato sera”, nel 1978, la famiglia che si disgrega. Ci vorrà l’ultimo terremoto, quello che ha ucciso il nonno Teodoro, per farli rincontrare. Un libro malinconico, a tratti divertente, che ci incuriosisce cercando tra i film se qualcuno appartenga anche alla nostra memoria, che procede a sequenze quasi cinematografiche dipingendo due mondi e due società in forte contrasto.


la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net


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