lunedì 19 dicembre 2016

Alberto Ongaro, “Il ponte della solita ora” ed. 2006

                                                              Casa Nostra. Qui Italia
         cento sfumature di giallo
         il libro ritrovato


Alberto Ongaro, “Il ponte della solita ora”
Ed. Piemme, pagg. 206, Euro 12,90

Mentre cerca di telefonare a Roma da Venezia, il musicista Francesco Soria sente un’interferenza e ascolta una conversazione non destinata a lui: una donna chiede ad un uomo di incontrarla un’ultima volta, al ponte di legno, alla solita ora. Francesco sente di dover conoscere quella donna e si mette sulle sue tracce. Quando muore improvvisamente un uomo famoso per il suo fascino di seduttore, Francesco pensa che sia stata la donna della telefonata ad ucciderlo


INTERVISTA AD ALBERTO ONGARO, autore de “Il ponte della solita ora”    

     C’ è una doppia promessa di intimità nel titolo del romanzo dello scrittore veneziano Alberto Ongaro, “Il ponte della solita ora”: quando la voce femminile della telefonata casualmente intercettata da Francesco Soria fissa l’appuntamento con il silente interlocutore, è chiaro che il luogo dell’incontro è stato testimone di altri loro incontri precedenti, “alla solita ora” che non è neppure il caso di ricordare. E’ come se i due si fossero appropriati di un luogo e di un tempo. E che ne sarà adesso di questo luogo e di questo tempo? andrà insieme a tutto quello che viene perso nel percorso dell’amore e del disamore, insieme alle risate che la voce della donna evoca, di notte in albergo, mentre l’amante canta Dancing in the Dark? E’ curioso Francesco Soria, forse la sua curiosità è stata sollecitata dall’alchimia della notte veneziana, qualcosa nel tono della voce della donna che ha colpito il musicista che è in lui, la passione che ha sentito nelle sue parole, il ricordo che l’incontro fissato fra i due sconosciuti suscita in lui, dell’appuntamento che aveva dato ad una ragazza, in un luogo romantico quanto un ponte di Venezia, a Trinità dei Monti alla solita ora. La ragazza non si era fatta vedere: l’uomo sconosciuto accetterà di parlare ancora con la donna?

     Si mette in moto così la vicenda del romanzo di Alberto Ongaro, con un appostamento del musicista, un’incerta identificazione della donna sentita per telefono, un pedinamento innocuo. Sopravviene poi la morte di un personaggio famoso nella sua casa di Venezia- suicidio? Perché mai? Assassinio per mano di qualcuno che gli voleva male? Di un ladro? Quando Francesco Soria va al funerale, vede la donna del ponte della solita ora tra i presenti e gli sembra più che probabile che l’uomo che è morto fosse quello atteso all’appuntamento. Fin qui la trama pare essere quella gialla di un mystery, ma la ricchezza del sottotesto, i richiami letterari, la lingua e lo stile di Ongaro lo rendono un romanzo dal fascino intrigante quanto quello delle precedenti opere dello scrittore, “La taverna del Doge Loredan” o “Il segreto di Caspar Jacobi”.

    Quanto è vero, quanto è immaginato, quanto è ingresso forzato in una storia che non è la sua da parte del musicista Francesco Soria, quanto è sovrapposizione del suo io a quello di altri in questa vicenda? Anche quando la donna del ponte non è più una sconosciuta, ma ha un bel nome, Frederika von Klausen (in questo e negli altri libri Ongaro- o i suoi personaggi per lui- ama sottolineare l’importanza dei nomi), il musicista continua a pensare a lei con il nome che lui le ha dato nella sua mente, Ingeborg. Perché Ingeborg è la ragazza dei sogni, questo è il nome che Francesco e si suoi amici avevano attribuito alla fanciulla che sfrecciava in bicicletta attraverso il loro campeggio nel tempo lontano della gioventù: leggiadra e leggera, inafferrabile e idealizzata. E allora  l’innocenza è nell’essenza di Ingeborg e Frederika non può essere l’assassina, e i sogni sono altrettanto indicatori quanto l’intuito- quelli di Francesco, quelli della russa Olga che è stata l’amante di suo padre, quelli inquietanti, veri e propri incubi in cui le parole prendono vita, dell’uomo che è morto. Come ben si addice ad un racconto che procede alternando realtà e fantasticherie, passato e presente, la narrazione scivola dall’uso della terza persona al dialogo, ad interlocuzioni non virgolettate, ad un discreto monologo interiore. Percorrendo calli e campi, attraversando la laguna fino al Lido o al cimitero dell’isola San Michele, costeggiando canali in una Venezia cosmopolita e sempre incredibilmente ammaliante.

Stilos ha intervistato lo scrittore veneziano.

Sia ne “Il ponte della solita ora”, sia nei romanzi precedenti, “La taverna del Doge Loredan” e “Il segreto di Caspar Jacobi”, la vicenda è su parecchi piani, la vita reale dei personaggi si intreccia con quella fittizia, è come se ci fosse sempre un romanzo dentro l’altro: qual è il confine tra immaginazione e realtà? Le capita mai di riconoscere per strada uno dei suoi personaggi?
    C’è un gioco costante tra immaginazione e realtà, è difficile dire quale sia il confine, ogni volta è diverso. Ne “Il segreto di Caspar Jacobi” l’irruzione del romanzo nel romanzo è segno che si tratta di un meta-romanzo. Caspar Jacobi è la storia di uno scrittore che viene assunto da un altro grande scrittore e ha sempre la sensazione di fare lui stesso parte di un romanzo. E alla fine si scopre che Caspar Jacobi è autore del romanzo e lui, il giovane ghost-writer, ne è un personaggio. C’è questa folgorazione improvvisa, di non essere vero, di appartenere alla mente. La storia di Francesco Soria è una storia reale in cui ci possono essere elementi analoghi a quelli di un romanzo. Il romanzo consiste sia nella storia che lui vive sia nella sensazione di stare vivendo una storia romantica. Non è qualcosa che succede, di incontrare personaggi da romanzo per caso, in strada. Io ho avuto la fortuna di conoscere di persona dei personaggi romanzeschi e anche la mia vita è stata una vita romanzesca: ho viaggiato, ho vissuto tante storie, situazioni avventurose che appartengono sia alla vita reale sia a quella del romanzo. Ho conosciuto persone romanzesche, ma difficilmente si incontrano in giro persone che abbiano qualche segno di romanzesco nei tratti del viso.

Chi sono le persone romanzesche che ha conosciuto? Può nominarne alcune?

     Hugo Pratt, per esempio. Da ragazzo, con Hugo Pratt e altri due amici avevamo costituito un giornale per ragazzi che fu acquistato da una casa editrice sudamericana che ci ha importato a Buenos Aires, e questa è una situazione romanzesca. Non succede spesso che un lavoro venga individuato da lontano da qualcuno e qualcuno diventi promotore di un’avventura di anni passati all’estero. E’ veramente una situazione da romanzo.

Francesco Soria è musicista, Schultz nella “Taverna del Doge Loredan” è un editore, Cipriano Parodi ne “Il segreto di Caspar Jacobi” è uno scrittore: i suoi personaggi appartengono sempre al mondo della cultura umanistica, come mai?
    Perché è il mondo che conosco di più. Non conosco il mondo degli impiegati, il mondo del quotidiano mi interessa poco: bisogna inventare qualcosa per cambiare il mondo del quotidiano, perché è la noia, è la tristezza. Io sono portato a muovermi nel mondo che ho conosciuto, per gli studi fatti, perché ho avuto una vita che mi porta a raccontare qualcosa che le assomigli nell’immaginario, riinventandola ma con la stessa carica di interesse che ha avuto la mia.

Ma, oltre al mondo del quotidiano, anche quello della scienza è escluso dai suoi romanzi…
      Pensi che, dopo “Il ponte della solita ora”, mi ha telefonato uno scienziato, un medico biologo con forti interessi per la fisica, che mi ha detto, “Ma ti rendi conto di che libro hai scritto?”. “Sì, un buon libro”, ho risposto io. “Tu, intuitivamente, sei arrivato alle stesse conclusioni a cui sono arrivati i settori più avanzati della fisica”, ha aggiunto. Io so qualcosa della meccanica dei quanti ma mai mi sarei aspettato un’osservazione riguardo al carattere scientifico del mio libro. Il medico si riferiva alla scena in cui c’è un personaggio che prega davanti a un ponte e dice che là c’è stato qualcosa nel passato, un atto di gentilezza. Non ho una base scientifica, ma viviamo in un universo multiplo in cui molti universi si sfiorano e tutto quello che sembra terminare, finisce nell’invisibile. Io posso arrivare alla scienza solo con l’intuizione, non sono portato per le ricerche scientifiche. Sono convinto che la vita sia una detective story e che dobbiamo indagare chi siamo, se qualcuno ci ha fatto, se c’è un colpevole. Un investigatore fa qualcosa di scientifico perché indaga nella realtà, ma non è uno scienziato.

Ne “Il ponte della solita ora” dice che “i nomi erano sempre stati un problema per lui” e questa idea dell’importanza dei nomi è presente anche negli altri romanzi: che cosa c’è in un nome? Si presentano sempre con un nome i suoi personaggi?
Quando incomincio un libro, anzi prima, quando ho una sensazione che mi porta a una storia, cerco i personaggi e scrivo dei nomi a caso, con la tecnica della scrittura automatica dei surrealisti, finché sento che qualcuno risponde. C’è un rapporto medianico tra l’autore e i suoi personaggi, e quello che risponde alla chiamata corrisponde a quello che sto cercando. In altri libri ho usato la stessa tecnica quando sentivo il bisogno di introdurre un nuovo personaggio. Per esempio ne “La partita”, ad un certo punto ho avuto la forte sensazione di dover girare la situazione, di essere ad un punto di stallo, e ho iniziato a scrivere parole a caso, non in trance, ma in uno stato di abbandono quasi onirico. Finché ho controllato e ho visto la parola “abate” e un po’ più sotto “dentiere”. E’ nato così un personaggio, l’abate che fa dentiere, plausibile nel ‘700. Vende dentiere a un signore: si forma così e si sviluppa il tessuto narrativo- come si chiama il signore? Dove vive? In un castello con dei cani…Tutto da due parole.

Prendiamo il nome di Ingeborg, la donna sognata: Ingeborg è l’eterno femminino?

     Ingeborg è un personaggio minore nei “Quaderni di Malte Laurids Brigge” di Rilke. Il gruppo di amici che parlano a distanza con Francesco Soria nel romanzo “Il ponte della solita ora” corrisponde ad un gruppo di amici miei: come loro anche noi eravamo in montagna- eravamo giovani- e vedevamo passare una ragazza straniera in bici e siamo stati tutti d’accordo nel chiamarla Ingeborg- avevamo letto tutti quel libro. Lei ci provocava, eravamo tutti innamorati di lei: sì, l’eterno femminino, il mito della ragazza straniera che passa senza degnarci di uno sguardo.

Sono molti gli scrittori di cui si parla o che vengono citati ne “Il ponte della solita ora”- Rilke, Capote, Fitzgerald. Ne “La taverna del Doge Loredan” il nome di Schultz è quello di uno scrittore così come quello di Fielding. Si sente debitore verso qualcuno di questi scrittori?
     Ho amato molto il romanzo settecentesco, in particolare il “Tom Jones” di Fielding, e quindi, avendo deciso di scrivere la storia di un uomo che legge un romanzo e lo ama fino a farne parte, ho voluto che questo romanzo fosse come un romanzo picaresco inglese del 700. Invece Schultz non è Bruno Schultz ma un tipo originale che viveva a Venezia, mi pareva un buon nome. E una mattina presto mi è capitato di incontrare a Venezia due persone che parevano uscite da un romanzo di Fitzgerald, bellissimi tutti e due, in abito da sera, venivano da una festa…

Pensando invece agli scrittori italiani, leggendo i suoi romanzi vengono in mente Pirandello, Calvino, Giuseppe Berto, forse quest’ultimo per l’atmosfera a Venezia.
     Pirandello è metabolizzato da chiunque scriva, mentre ho letto poco Calvino, soprattutto conosco i racconti iniziali e mi parevano- e non è un’osservazione negativa- in parte suggeriti dai cartoni animati, da quelle figure di armature vuote che si inseguivano…Dopo mi è parso che l’intellettuale avesse il sopravvento sull’uomo creativo.

Prima ha detto che la vita è una detective story: è per quello che nei suoi romanzi c’è sempre un mistero da risolvere?
    La nascita del romanzo è un mistero, non si sa da dove venga un romanzo né dove vada. Non c’è romanzo senza mistero: i misteri del romanzo sono metafore del mistero che è l’esistenza. C’è qualcosa di religioso in tutto questo, della presenza della metafisica come destinazione finale.

Sia “La taverna del Doge Loredan” sia “Il segreto di Caspar Jacobi” sono romanzi che ne contengono altri, hanno una struttura simile, come se lei volesse esplorare un genere: sono collegati nella sua mente questi due romanzi?
     Sì, direi di sì. Non che mi fossi proposto, ‘adesso esploro la dimensione romanzesca del genere’, ma mi ci sono trovato dentro. Quando scrivevo “La taverna del Doge Loredan” mi sono reso conto che era un romanzo che poteva proseguire all’infinito, diventare di una lunghezza impossibile, gigantesco, che tutta la narrativa poteva essere un solo romanzo. E allora ho pensato a un giovane fagocitato da un grande inventore di romanzi e che scopre di essere un personaggio, di essere brutalmente stato scritto dall’uomo per cui lavora. C’è analogia di vicinanza cronologica  e di tensione tra i due romanzi: il romanzo era il tema centrale di tutti e due i romanzi.

La musica e il cinema hanno un ruolo importante quanto la letteratura in tutte le sue storie…
    Perché sono partito con l’idea di fare lo sceneggiatore cinematografico. Ma sarei dovuto andare a Roma o a Los Angeles e non a Buenos Aires. La vita mi ha portato in altre direzioni, ho iniziato come giornalista, che poi era la mia seconda opzione. Per quello che riguarda la musica, non ho conoscenze particolari se non un grande affetto per la manifestazione della musica, dalla musica classica a quella jazz. Il jazz è un tipo di musica che mi attrae molto e ha fatto parte della mia vita.

Ne “Il segreto di Caspar Jacobi”, Cipriano Parodi si trasferisce a New York da Venezia: perché New York? Perché è il polo opposto di Venezia nell’immaginario di una città?

    New York è una città dal fascino straordinario. Fossi nato a New York sarei andato a Venezia a vivere, sono nato a Venezia e mi piace andare spesso a New York. Ho collocato anche altri pezzi di miei libri a New York, città tutta verticale, piccola in sostanza: Manhattan è una piccola isola. Venezia e New York hanno in comune il fascino: cerco sempre sorgenti di fascino dappertutto, nei libri che scrivo e anche nei libri che leggo.

E quale libro sta leggendo adesso?
“Gomorra” di Saviano, un lavoro giornalistico ma vissuto dall’interno, in modo da diventare un romanzo.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos




                                                                               

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