domenica 8 novembre 2020

Maja Lunde, “Gli ultimi della steppa” ed. 2020

                                                                          vento del Nord

              distopia   warning novel

Maja Lunde, “Gli ultimi della steppa”

Ed. Marsilio, trad. Giovanna Paterniti, pagg. 504, Euro 20,00

   1882. San Pietroburgo. L’appassionato zoologo Michail Aleksandrovič riceve dalla Mongolia i resti di un cavallo selvatico, del cavallo primigenio, quello che ritroviamo nelle antiche pitture rupestri e che è stato considerato come una specie estinta. È l’inizio di un sogno- recarsi negli altopiani della Mongolia alla ricerca del mitico takhi.

    1992. Mongolia. Karin, veterinaria tedesca che ha iniziato ad amare i cavalli selvatici quando li ha visti, da bambina, nella tenuta di Hermann Gőring, arriva nella riserva di Hustajn in Mongolia per realizzare un altro sogno- riportare nel loro ambiente alcuni esemplari di takhi per attuare un progetto straordinario di salvaguardia naturale. Ma riusciranno i cavalli ad ambientarsi e a sopravvivere, abituati ad essere curati e protetti dagli uomini?

   2064. Quello che era il parco faunistico di Heiane, in Norvegia. Il vecchio mondo, quello in cui viviamo noi lettori, non c’è più. Questo è il mondo che è passato attraverso “La storia delle api” e “Il libro dell’acqua”, i due romanzi precedenti di quella che sarà la quadrilogia di Maja Lunde.

Eva e la figlia quattordicenne Isa vivono- o sopravvivono- in una fattoria isolata, razionando il poco cibo che riescono a procurarsi, temendo i furti di ‘viandanti’ (i disperati in fuga dalla siccità del sud dell’Europa) e di un paio di vicini prepotenti e violenti. Hanno ancora alcune bestie, un paio di mucche che producono latte, alcune capre, delle galline. Soprattutto hanno due takhi- Eva farebbe qualunque cosa per mantenere in vita i cavalli selvatici, gli ultimi rimasti.

    Non è in questo ordine che si dipanano i tre filoni narrativi del romanzo di Maja Lunde, anzi, il primo, con cui il libro inizia, è quello del distopico futuro ormai alle porte, è quello da cui la scrittrice vuole metterci in guardia (come ha già fatto nei due precedenti romanzi), assumendo il ruolo che in qualche maniera dobbiamo riconoscere alla letteratura- di servirci da guida, di invitarci alla riflessione, di essere il nostro terzo occhio sul mondo che ci circonda. Un mondo che corre verso il baratro. La storia di Eva ed Isa, della loro lotta quotidiana per procurarsi l’essenziale, ha su di noi un impatto fortissimo. Avvertiamo uno scoramento, siamo tentati di dire a noi stessi che no, non succederà così. Dentro di noi, però, con l’esperienza di quanto stiamo vivendo in questo 2020, sappiamo che è uno scenario per niente improbabile.

   La storia di Eva ne contiene altre due. Una è nelle lettere che Isa scrive al ragazzo ‘della porta accanto’ che è andato via con la famiglia, sempre verso Nord, in cerca di non si sa che cosa si possa trovare. Isa e il suo primo amore che non ha avuto neppure il tempo di sbocciare, quasi che anche questo- l’incanto dell’amore adolescenziale- sia qualcosa che sarà precluso in futuro.

   L’altra storia è quella di Louise, la viandante a cui Eva offre ospitalità. Chi ha letto gli altri libri di Maja Lunde ricorda di certo la bimba Lou, fuggita con il padre da una terra spaccata dalla siccità nel Sud della Francia. La sua ricomparsa è un modo per allacciare i libri, per riaffermare una tematica comune, proprio come lo è l’aver mantenuto l’impianto narrativo dei diversi filoni. E peraltro solo una lettura superficiale può dare l’impressione che l’interesse e la salvaguardia dei takhi sia l'unico collegamento tra i tre filoni de “Gli ultimi della steppa”- altre tematiche servono da rimando da una storia all’altra.


Se la storia di Eva è un’esaltazione della solidarietà e dell’affetto tra donne, capaci di affrontare tutto quando sono insieme (anche il tremendo parto di Louise), il legame amoroso tra Michail e l’esploratore che lo accompagna nel viaggio (sfumato con pudore ottocentesco) è un’altra faccia del volto dell’amore, mentre l’anaffettività e la profonda solitudine interiore di Karin la separano dolorosamente dagli altri personaggi. Che però sono tutti legati dal comune amore per i cavalli selvatici, tratteggiati con la loro personalità e i loro comportamenti che annodano un filo che li unisce agli uomini- la nascita difficoltosa di un puledro ci emoziona come quella del maschietto di Louisa e, quando un cavallo si ammala o un altro muore, soffriamo quanto i personaggi del romanzo. Perché noi non esistiamo da soli, siamo un tutto unico- uomini, cavalli, api, la natura-, c’è un’interazione che è come una catena di cui nessun anello deve essere spezzato. Pena la fine di tutto e di tutti, un futuro che ci minaccia se non interveniamo.

     Sullo sfondo di queste storie, una Norvegia che sembra essere ‘l’ultima spiaggia’ e un’affascinante Mongolia: un libro da leggere.

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