giovedì 19 novembre 2020

Tash Aw, “Noi, i sopravvissuti” ed. 2020

                                                   Voci da mondi diversi. Malesia


Tash Aw, “Noi, i sopravvissuti”

Ed. Einaudi, trad. A. Nadotti, pagg. 304, Euro 20,00

    L’esergo del nuovo romanzo di Tash Aw ci sorprende- sono parole tratte da “Se questo è un uomo” di Primo Levi, Qui ricevemmo i primi colpi e la cosa fu così nuova e insensata che non provammo dolore, nel corpo né nell’anima. Soltanto uno stupore profondo: come si può percuotere un uomo senza collera?

Questo è il valore universale delle parole, al di là dello spazio e del tempo. Sono parole dettate dall’esperienza di un ebreo italiano nei campi di sterminio della seconda guerra mondiale, citate da uno scrittore malese che vive a Londra, per raccontarci la colpa di cui si è macchiato il suo protagonista Ah Hock, la sua vita da diseredato che non si arrende e cerca di migliorare, in un paese che è un puntino sulle carte geografiche, a una cinquantina di chilometri- anni luce di distanza- da Kuala Lumpur. Ah Hock era una persona mite, un uomo per bene, un gran lavoratore, fedele alla moglie, niente alcol, niente droga. Eppure aveva ucciso un uomo e scontato anni in prigione.

   C’è un intermediario tra il lettore e Ah Hock- il protagonista racconta la sua vita ad una giornalista che registra la sua voce. Anche la giornalista è malese, ma appartiene ad un altro mondo. Quando, alla fine, lei gli chiede il permesso di fare un romanzo della sua vita e poi lo invita ad un ricevimento per il lancio del romanzo, la distanza tra Ah Hock e le persone invitate è enorme, proprio come quella tra il suo villaggio e la capitale.

      Da ragazzo Ah Hock lavorava la terra insieme a sua madre, una striscia di terra troppo vicina al mare, alluvionata di frequente. Ah Hock non si tirava indietro quando c’era da lavorare, era intelligente, era riuscito a conquistare la fiducia del datore di lavoro quando aveva trovato impiego in un grande vivaio di pesci, aveva apportato migliorie aumentando le vasche e quindi il numero dei pesci e le vendite. Piccoli passi avanti segnano l’ascesa di Ah Hock- il matrimonio, una prima casa molto piccola e poi una seconda casa più grande. Senza mai strafare, senza esigere troppo.

      C’è una presenza negativa, nella vita di Ah Hock. Un compagno di giochi di infanzia, una di quelle persone da cui stare alla larga. E per fortuna ad un certo punto scompare. Per sfortuna, poi, riappare, quando Ah Hock si è già reso conto di non essere più in fondo alla scala sociale, altri hanno preso il suo posto- i lavoratori che impiega nel vivaio sono tutti immigrati, bangladesi, rohingya dal Myanmar, indonesiani. Sono dei disperati, clandestini, affamati, spesso ammalati. E con orrore Ah Hock scopre che sono dei ‘carichi’ di merce umana per chi- come il suo vecchio amico- lavora in questo settore.

   La tragedia finale è preparata da un altro dramma- una malattia (il colera?) fa strage dei lavoranti nei vivai. Peggio ancora. Il batterio infetta le acque, un tappeto di pesci morti galleggia in superficie. È la rovina per Ah Hock. Forse ce la può ancora fare, se riesce a trovare dei lavoranti sostituti. A questo punto non gli interessa più alcuna norma etica e ricorre al mercante di uomini.

     Quanto pesa la colpa di Ah Hock? Seguendo il percorso della sua vita, abbiamo la sensazione di scendere nei gironi di un inferno dantesco, sappiamo- e non solo perché Ah Hock ce lo dice all’inizio- che ogni suo sforzo per sollevarsi sarà inutile, che tutto finirà male. È come un destino segnato, per lui, per chi, come lui, è nato in un certo luogo e in un certo ambiente. Che non sono gli stessi della donna che si appropria della vita di Ah Hock per farne un romanzo.

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